Corriere 4.12.19
Nel dopoguerra furono quasi tutti vani i tentativi di punire le passate ruberie
Le tangenti del littorio
La corruzione dilagava tra i Gerarchi
Farinacci e Rossoni due casi clamorosi
Canali
e Clemente Volpini (Mondadori) passa in rassegna gli arricchimenti di
noti personaggi del regime fascista, Mussolini compreso
di Paolo Mieli
Nel
1975, durante uno spettacolo a Genova, Walter Chiari (che in gioventù
aveva aderito alla Repubblica sociale italiana) lanciò una provocazione:
«Quando fu appeso per i piedi a piazzale Loreto, dalle tasche di
Mussolini non cadde nemmeno una monetina… Se i nuovi reggitori d’Italia
subissero la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle loro tasche!». La
battuta provocò un grande applauso, a dispetto del fatto che la città
fosse medaglia d’oro della Resistenza e di lì nell’estate del 1960, per
protesta contro la convocazione di un congresso del Msi, fosse partita
la rivolta che aveva provocato la caduta del governo Tambroni. Da allora
la battuta di Walter Chiari divenne un luogo comune della destra e, più
in generale, dei settori qualunquisti e conservatori dell’opinione
pubblica italiana. Anche quelli non nostalgici. Mauro Canali e Clemente
Volpini sono andati a verificare se le cose andarono veramente nei modi
di cui alle parole di Walter Chiari. Se cioè corrisponde alla realtà che
i fascisti, ancorché politicamente nefasti, siano stati sostanzialmente
onesti. E sono giunti alle conclusioni — esposte in un libro, Mussolini
e i ladri di regime. Gli arricchimenti illeciti del fascismo, in
procinto di essere pubblicato da Mondadori — che le cose non stanno
così.
Mussolini, ricordano Canali e Volpini, aveva fondato nel
1919 il movimento fascista (che diventerà Partito nazionale fascista nel
1921) «per combattere i profittatori di guerra, i “pescecani”, i
politicanti, gli egoisti, i corrotti e poi i parassiti dello Stato». Il
programma dei Fasci di combattimento proponeva il sequestro dei profitti
di guerra o una vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze
attraverso un’imposta sul capitale. Poi, dopo che Mussolini giunse al
potere (1922), non se n’era più fatto niente. Ma nella retorica del
regime l’attacco alla plutocrazia, al potere della ricchezza resisterà
per tutto il Ventennio. Fisiologico perciò che, dopo la caduta del
fascismo (25 luglio 1943), il governo di Pietro Badoglio avviasse
immediatamente un’indagine per verificare se sotto il regime fossero
state commesse delle ruberie. Il 5 agosto del 1943, la notizia
dell’avvio dell’inchiesta sugli illeciti arricchimenti dei maggiorenti
mussoliniani — con un’apposita commissione presieduta dal presidente
della Corte suprema di Cassazione Ettore Casati — fu data da tutti i
giornali e nel giro di pochi giorni i gerarchi finirono sulle prime
pagine — scrivono Canali e Volpini — «gettati in pasto a un’opinione
pubblica che fino a poco tempo prima li aveva temuti odiati, riveriti,
spesso invidiati». Con quei racconti, aggiungono gli autori, la fine
tragica del Ventennio assunse «tratti da commedia, da spettacolo del
malaffare ridicolo e ricco di colpi di scena». Con «fughe rocambolesche,
rotoli di banconote nascosti nell’acqua degli sciacquoni, arresti
eccellenti, favolosi patrimoni in ville, tenute, palazzi e castelli».
Per arrivare infine «ai sequestri dei beni mobili, con verbali e
inventari redatti con una pignoleria da non credersi»: dalle pellicce
agli arazzi, dai cavalli purosangue ai posacenere, «passando per i
corredi, tovaglie, lenzuola, asciugamani, fino al numero di posate in
argento e all’ultima pantofola, calza e mutanda del gerarca inquisito».
Il tutto «immerso in un fiume di denaro e in un cerchio fatto di amici,
amici degli amici, amanti, mogli, figli, parenti lontani, ricattatori,
ruffiani e segretarie compiacenti». Per un ammontare di 118 miliardi di
lire dell’epoca di cui l’Erario riuscirà a recuperare solo 19.
In
seguito di quel genere di storie che avevano tenuto banco sui giornali
nell’estate del 1943 si parlò sempre meno; finché, poco più di
trent’anni dopo, fu possibile fare quella battuta a Genova senza che
nessuno (o quasi) trovasse alcunché da ridire. Adesso i due storici,
sulla base di una nuova, ampia documentazione inedita, sono giunti a un
punto definitivo: gran parte dei fascisti di primo piano, a partire
dallo stesso Mussolini e dai familiari della sua amante Claretta
Petacci, si arricchirono in modo davvero considerevole. Conclusione a
cui giunge anche un altro pregevole volume testé edito da Laterza, Il
fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo, che
raccoglie saggi di autori diversi, raccolti e curati da Paolo Giovannini
e Marco Palla.
Il più grande arricchito del regime risulta essere
Costanzo Ciano, padre di Galeazzo, che sarà ministro degli Esteri
nonché marito di Edda, la figlia di Mussolini. Alla morte di Costanzo
Ciano, raccontano Canali e Volpini, Vittorio Emanuele III aveva
confidato a Mussolini, «facendogli strabuzzare gli occhi e lasciandolo
senza fiato», che l’uomo aveva accumulato un patrimonio di circa 900
milioni. Ma c’è stato anche di peggio.
I più sorprendenti
risultano essere il prefetto Antonio Le Pera e il sottosegretario
(futuro ministro dell’Interno nella Rsi) Guido Buffarini Guidi, che
lucrano sulle politiche razziali del regime. «La banda che era mossa dal
prefetto Lepera in realtà faceva capo a Buffarini che mangiava a
quattro ganasce», annotava Galeazzo Ciano sul suo diario. Voci si
addensano anche su uno dei principali esponenti dell’antisemitismo
italiano, Telesio Interlandi, direttore de «Il Tevere». Alla fine degli
anni Trenta, Francesco Peruzzi, questore e alto funzionario dell’Ovra,
sostiene che Interlandi avrebbe ricattato per «varie decine di migliaia
di lire» l’ebreo Gino Coen, un «facoltoso industriale romano». Il
questore riferisce al capo della polizia Arturo Bocchini, il quale a sua
volta informa Mussolini. Il Duce, ricostruiscono Canali e Volpini,
«vuole certezze e affida al ministro della cultura popolare Dino Alfieri
il compito di far luce sul caso Interlandi». Peruzzi raccoglie le
prove, le consegna ad Alfieri e poi riferisce anche a Bocchini, che lo
liquida con una battuta: «Hai fatto una fatica inutile perché purtroppo
Interlandi non sarà mai toccato in quanto nella faccenda degli ebrei
troppe personalità sono coinvolte, non esclusi gli stessi familiari di
Mussolini».
Interessante è la storia di Roberto Farinacci, il ras
di Cremona, squadrista, antisemita, filonazista, al fianco di Mussolini
anche durante l’avventura di Salò e per questo fucilato dai partigiani
il 28 aprile 1945. L’immagine che tenne a dare di sé fu quella del
«paladino della rivoluzione fascista, duro e puro», «integerrimo e
votato alla causa», impegnato in una «personalissima battaglia contro
gli affaristi, i corrotti, e i profittatori di regime, contro chi
sfruttava il partito per arricchirsi». L’inchiesta sui suoi
arricchimenti durerà dal 1943 al 1956 e il suo patrimonio sarà valutato,
nel 1949, in una cifra astronomica: 614 milioni e 627 mila lire. Tanto
per dare un’idea delle proporzioni, precisano Canali e Volpini, nel 1938
un senatore del Regno guadagnava annualmente tra le 20 e le 25 mila
lire, un maestro tra le 9 e le 13.500 lire, un operaio 4.238 lire.
Farinacci non poté godere del patrimonio accumulato perché fu
giustiziato come si è detto nel 1945, ma aveva sistemato le cose in modo
che ne potessero usufruire i suoi familiari. Alla fine, dopo undici
anni di battaglie legali, i suoi eredi riusciranno a «salvare» una somma
di oltre 600 milioni, «pagando una cifra irrisoria in comode rate e
cedendo appena poco più di due ettari di terreno e una società in
gravissime condizioni economiche, che nessuno più voleva, dopo averla
comunque depredata di una bella fetta del suo patrimonio immobiliare».
Più
«fortunato» di tutti è il sindacalista Edmondo Rossoni, nato nel 1884 a
Tresigallo in provincia di Ferrara. Sindacalista rivoluzionario
all’inizio del Novecento, fu denunciato la prima volta nel 1903 quando
aveva solo diciannove anni e in seguito fu costretto a fuggire in
Francia, negli Stati Uniti, in Brasile. Al momento della marcia su Roma,
Rossoni ha già trentott’anni. Non è uno dei più giovani tra i seguaci
di Mussolini. Poi però diviene capo dei sindacati fascisti, deputato per
tre legislature, consigliere nazionale alla Camera dei fasci e delle
corporazioni, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ministro
dell’Agricoltura e Foreste e membro del Gran Consiglio dal 1930 fino
all’ultima seduta del 25 luglio 1943, quando con il suo voto favorevole
all’ordine del giorno di Dino Grandi è tra i gerarchi che provocheranno
la caduta del fascismo. È uno dei protagonisti di Canale Mussolini di
Antonio Pennacchi (Mondadori). Tra il 1922 e il 1925, registrano Canali e
Volpini, «i contratti conclusi dalle corporazioni fasciste furono
peggiori di quelli stipulati dalle associazioni “rosse” negli anni
precedenti, sia in termini di paghe che di condizioni di lavoro». E
Rossoni divenne improvvisamente agiato. Nel 1924 comprò a Roma un
sontuoso appartamento ai Parioli e un podere di cinque ettari a
Tresigallo. Ma fu solo l’antipasto.
Nell’ottobre 1925, con il
patto di Palazzo Vidoni tra la Confindustria e la Confederazione delle
corporazioni fasciste, il gerarca ottenne il monopolio della
rappresentanza operaia e nel 1926 il riconoscimento giuridico di un solo
sindacato nazionale per categoria. Così Rossoni diviene «uno degli
uomini più potenti d’Italia». Nel novembre 1927, lascia i Parioli e si
trasferisce in via Veneto «che non è ancora il cuore della “dolce vita”
ma è già il grande boulevard degli hotel esclusivi» L’Ovra raccoglie le
confidenze di un ufficiale della milizia che racconta di «un
appartamento addirittura principesco, con salotti numerati, servi in
livrea, camerieri e governanti».
Nel dicembre del 1928, Mussolini —
alle cui orecchie sono giunti i mormorii sulla vita da satrapo del
«sindacalista» (Curzio Malaparte lo definì «la miglior forchetta del
Regime») — prova ad esautorarlo disponendo il cosiddetto «sbloccamento»,
attraverso il quale l’organizzazione dei lavoratori guidata da Rossoni
viene smembrata in sei confederazioni nazionali. La risposta di Rossoni è
un dossier su Mussolini che contiene notizie su illeciti del Duce che
risalgono addirittura alla stagione che precedette la nascita del
fascismo.
Circola anche la voce che Rossoni sia fuggito all’estero
«ben foderato di milioni». Ma il ras del sindacalismo fascista resta
invece a Roma e nel 1929 compra una lussuosa villa ad Anzio. Magione che
incuriosisce il capo del fascismo. Quinto Navarra, il cameriere di
Mussolini, racconta nelle sue memorie: «Un giorno il Duce mi passò una
lettera anonima nella quale si diceva che Edmondo Rossoni nella sua
villa di Anzio possedeva un bagno con acqua di colonia corrente…
Mussolini andò su tutte le furie e diede l’incarico a un funzionario
della segreteria di assumere informazioni… Si riuscì a sapere, poi, che
nel bagno di Rossoni esisteva un rubinetto per il profumo, ma era un
rubinetto applicato a un grosso vaso di vetro contenente acqua di
colonia».
La villa viene intestata all’amante di Rossoni, Anna
Piovani, da cui l’uomo politico ha avuto una figlia, Itala. L’Ovra si
accanisce contro la Piovani e scopre che è una prostituta e ha a sua
volta un amore: «Batteva il marciapiede di Via Condotti per
sovvenzionare l’amante del cuore, un certo Oscar». Secondo un
informatore la Piovani è anche comparsa nuda in un film di Augusto
Genina. Alla sua sarta di fiducia avrebbe confidato che Rossoni «ha
piazzato al sicuro diversi milioni nelle banche d’America». Le piace
giocare a poker, balla «in modo un po’ sguaiato» e ha nuovi spasimanti
tra i quali «un noto baro, certo Mario Ventunni» definito nella
relazione «cocainomane». Ma Rossoni continua ad intestarle i beni.
Giuseppe
Bottai nel suo diario riporta una lettera anonima del 1935 che
definisce Rossoni «imboscato, poligamo, cornuto, ladro». Bottai e
Augusto Turati allertano Mussolini sulle trame di Rossoni; il Duce però
lo riabilita e il «sindacalista» riprende la marcia trionfale. Nel
dopoguerra Piero Calamandrei troverà il dossier sulle ruberie di Rossoni
e le prove che Mussolini sapeva tutto di lui. Ne trarrà questa
conclusione: «Gli uomini per governare devono essere corrotti, o meglio
devono essere corrotti per poterli ricattare… Quel dossier doveva
servire a Mussolini per tenerlo schiavo». Schiavo sì ma fino al 25
luglio del 1943, quando Rossoni lo tradirà. Per riparare subito dopo in
Vaticano, in un monastero sull’Appennino, a Dublino e in Canada. E poi
tornare in Italia amnistiato nel dopoguerra, concordare un relativamente
modesto risarcimento all’erario, tenere per sé qualche decina di
milioni e trovare la morte nel 1965, a 81 anni, dopo un’ultima stagione
vissuta in un’agiata tranquillità. Grande libro quello di Canali e
Volpini.