Repubblica 5.2.19
Hannah Arendt e la banalità del (nor)male
La
Germania nazista, l’abisso dell’amore per Heidegger, Scholem e il
difficile rapporto con la tradizione ebraica, la vocazione metafisica,
lo studio del totalitarismo. Ritratto della donna che voleva
"romantizzare il mondo"
di Pietro Citati
Hannah Arendt (1906-1975) era, secondo Hans Jonas, «una passeggera sulla nave del XX secolo».
Era
una bellissima donna, una bellissima ebrea, qualcosa di unico e di
indefinibile: aveva una straordinaria intelligenza e una volontà
tenacissima, che si alternava a una grande vulnerabilità. Sentiva la
determinazione ad essere se stessa, e la perseguiva con forza uguale
alla volontà. Possedeva un’intensità, una direttiva interiore, una
ricerca della qualità inquieta dell’essere, un modo di andare al fondo
delle cose, che diffondevano un’aura magica intorno a lei. Studiò
Agostino, sotto la direzione di Karl Jaspers, di cui sarebbe rimasta
amica; e si innamorò di Heidegger, del quale subì il terribile fascino:
una religione amorosa e passiva, a volte angosciosa e disperata. Leggeva
con estrema raffinatezza Kant, mentre aveva dimenticato la tradizione
cabalistica ebraica del XVI secolo, cara a Scholem.
Se il rapporto
con Kant la lasciò pacifica, quello con Heidegger, che amò, la
sconvolse per tutta la vita, senza riuscire a trovare una quiete
intellettuale.
Sullo sfondo della sua giovinezza accadevano cose
terribili: i tedeschi distrussero il ghetto di Varsavia. Intorno a lei
c’erano angosce e suicidi.
Hannah Arendt lasciò la Germania,
abbandonando Heidegger, che aveva amato più di tutti. Andò a Parigi e
poi negli Stati Uniti. Presto imparò a scrivere benissimo: alternando
frivolezza e austerità, procurandosi un’intensità letteraria. Ma non le
bastava scrivere stupendamente: volle agire, partendo per gli Stati
Uniti, dove diresse il bollettino di studi ebraici della comunità
ebraica tedesco-americana, sebbene sostenesse con pervicacia di non
comprendere la storia, come del resto tutti gli ebrei. Fu amica di
Gershom Scholem, il grande studioso di origine tedesca con cui
discorreva a lungo: egli la accusò duramente, di non capire il popolo
ebraico, poiché ne ignorava l’immenso passato.
Negli Stati Uniti,
curò un’opera fondamentale della sua vita - I Diari di Kafka -che forse
non intese perfettamente, perché mancava della forza metafisica
necessaria. La passione politica non la abbandonò mai, e talora abolì,
in lei, la sua stessa tensione metafisica. Rinunciò a parte della sua
cultura tedesca; e presto, anche per via di amicizie, si adattò alla
cultura democratica americana.
Diventò amica di Mary McCarthy -
autrice di un libro famosissimo, Il gruppo — anche se possedeva più
sottigliezza, inquietudine, passione, tenebra, in confronto a lei. Era
costante, ironica: piena di angosce e di dubbi.
Nel fondale della
sua cultura stavano Poe e l’antica tradizione ebraica del
Cinque-seicento e del Settecento. Era piena di volontà e di ardore;
anche dalle discussioni con Scholem dovette acuminarsi la sua idea di
principio: quella del male radicale o del male assoluto, su cui la
Arendt costruì la sua profonda natura. Quasi tutto, in lei, discendeva
da Sant’Agostino: slancio, espansione, forza, sottigliezza, squisitezza,
sopratutto armonia.
Le origini del totalitarismo sono un vero e
proprio capolavoro. Il celebre La banalità del male - la stupenda
polemica con cui distrusse un nazista, Eichmann, un servo di Hitler, nel
processo a Gerusalemme - non raggiunge quella straordinaria altezza.
Quando
era andata prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, aveva scoperto se
stessa con un’ironia acutissima. Quale espressione! Quale slancio!
Amava
gli antichi romantici e le romantiche tedesche. Adorava Novalis. Amica
di Jaspers, la sua mente era ossessionata dall’idea di Dio: forse un Dio
ebraico, forse un Dio cristiano nascosto in lei. Il mondo a cui si
opponeva era quello della Putrefazione.
Detestava il nazismo e il filosofo geniale e perverso che aveva amato come pochi - Heidegger.
Temeva
il turbinio della morte e dietro questo turbine c’erano i campi di
concentramento e le camere a gas di Auschwitz. Pur non abbandonandolo,
l’interesse politico era, per lei, specialmente giunta negli Stati
Uniti, molto meno importante rispetto all’interesse morale.
Ormai
l’antica teologia o filosofia classica-ebraica del Sedicesimo secolo
l’aveva influenzata intimamente, insieme all’antica teologia della sua
terra. Andava sempre più indietro: sempre più lontano; e probabilmente
la sua vera forza consisteva nei secoli dell’ebraismo classico.
Nel
momento in cui rinunciò a qualcosa della sua cultura tedesca, cancellò
almeno in parte anche il suo ebraismo, e negli ultimi anni si sentì una
specie di libera "europea". Ma non dimenticò di avvertire la presenza,
nel mondo, del male assoluto.
Diventò quasi una italiana.
Aveva
esaurito il romanticismo tedesco, che portava nel sangue. La sua prosa
diventò festosa e lieta. Alla fine, sembrò liberarsi di tutto, come se
avesse dimenticato sia il suo liberalismo, sia il suo conservatorismo.
Diventò incredibilmente libera e leggera: sempre più dolce, sempre più
quieta, sempre più mite. Ma non riusciva a cancellare il terrore della
storia.
Parlò molto spesso della politica di Stalin, che era morto
nel 1953, quando il comunismo non sembrava completamente esaurito - il
comunismo che si trasformava in Berja, Malenkov, Krusciov, Breznev e gli
altri, fino, forse, al recentissimo Putin, nel quale il male radicale
continua probabilmente ad essere vivo. Discorreva a lungo di esperimenti
politici, ma, in realtà, la sua vera passione era morale, sentita con
un profondissimo ardore. Non dimenticò mai la storia del Diciottesimo e
del Diciannovesimo secolo — e più remotamente la mistica medievale come
la studiò mirabilmente Moshe Idel. Aveva un’ideale: «Il vero popolo
divino dei tempi moderni». Come diceva Novalis: «Bisogna romantizzare il
mondo»; e lei non rinunciò mai a questo proposito. Andava sempre più
indietro, sempre più lontano, appunto, fino all’Antico Testamento, ai
secoli prima di Cristo e alle ispirazioni ereticali.
George Grosz