Repubblica 2.2.19
Murakami Haruki " Nei miei libri vive un io alternativo"
Lo
scrittore giapponese compie settant’anni e in questa intervista si
confessa. Il successo planetario, l’indifferenza per la psicanalisi,
Trump (sul quale non si esprime), la musica. "Scrivere romanzi è
inseguire possibilità"
Intervista di Raquel Garzón
«Tutti viviamo in una specie di gabbia.
Può
essere bella, può essere dorata, ma è la gabbia che presuppone il fatto
di essere solo te stesso», dice l’uomo che vende libri a milioni e che
da almeno un decennio viene dato fra i candidati al Nobel per la
letteratura. Murakami Haruki, autore di Tokyo blues, Dance, dance, dance
e 1Q84, tradotto in 50 lingue, ha fatto della letteratura un
salvacondotto per burlarsi di questa prigionia. E per non concedere
interviste, che è parte della sua leggenda.
Ha una barba brizzolata e indossa scarpe da ginnastica nere con lacci arancio shocking.
Il
suo quattordicesimo romanzo è la scusa per questo incontro:
L’assassinio del commendatore fa riferimento a una scena del Don
Giovanni di Mozart e a un dipinto che trova il protagonista, un
ritrattista in piena crisi esistenziale. È pubblicato in due volumi (il
secondo è appena stato pubblicato da Einaudi, ndt), e solo in Giappone
ha venduto un milione e ottocentomila copie.
L’assassinio del
commendatore comincia con un sogno inquietante: un artista deve
dipingere il ritratto di un uomo senza volto. È nata da qui l’idea del
libro?
«No, quel prologo l’ho aggiunto dopo. La prima cosa che ho visualizzato è stato il paesaggio.
Una
casa vicina al mare, sulla cima di una montagna: se guardi davanti vedi
sempre bel tempo, se guardi dietro sempre nuvoloni. Ho scritto quei
paragrafi iniziali e mi sono chiesto che sarebbe successo, perché non
avevo idea. Il protagonista racconta la storia della sua sposa, da cui
si separa quando lei le dice che non può continuare a vivere con lui.
Attraversa il Giappone in macchina, solo, stordito, senza capire che
succede, finché, vari mesi dopo, un amico gli presta quella casa».
Molte delle sue storie presentano protagonisti in crisi che hanno passato la trentina.
Che significato ha quell’età per lei?
«
Nell’Uccello che girava le viti del mondo ho narrato la vita di un
trentenne la cui quotidianità cambia quando scompaiono prima il gatto e
poi la moglie. Non so perché scelgo questi protagonisti.
Forse è
quel taglio personale, quella ricerca di un senso in mezzo al
vacillamento che mi interessa. È come se a quell’età ci rendessimo conto
che quella vita è la nostra.
Questo processo di appropriazione mi
intriga: una persona che non è più tanto giovane, ma nemmeno vecchia. È
libera e vulnerabile al tempo stesso».
Questo personaggio però non si sente molto libero, no?
«La
sua crisi è radicale: dipinge ritratti, vive di questo, ma non sa qual è
la sua opera. Lotta per capire che cosa vuole esprimere: è la ricerca
di una definizione. Il romanzo racconta anche questo: la sua scoperta
come artista, il suo stato mentale come creatore».
È mai stato in analisi?
«No, la psicanalisi non mi interessa».
Le manca qualcosa della vita prima della letteratura, all’epoca in cui lei e sua moglie gestivate un locale di jazz?
«Mi mancano l’ambiente, i musicisti. Ma ad agosto ho cominciato a condurre un programma radiofonico a Tokyo.
Sono
il deejay e ho recuperato gli aspetti più divertenti di quell’epoca.
Scelgo la musica – rock, pop, jazz – e parlo di musica e di letteratura.
Avevo
dei dubbi, ma Yoko mi ha incoraggiato. "Puoi farcela. Saresti un buon
deejay", mi ha detto. E me la sto godendo. Il sentimento che provo è di
puro piacere».
Pubblicò il primo romanzo nel 1979, e la sua
routine cambiò: smise di fare le ore piccole, cominciò a correre tutti i
giorni… Le piacerebbe che anche i suoi lettori la leggessero con tutto
il corpo?
[ ride] «No, scrivere romanzi lunghi come i miei
richiede uno sforzo sostenuto e metodico. Non è un lavoro leggero:
scrivo con la sensazione fisica di dare tutto; amministro la mia energia
come l’aria nelle maratone, e cerco di offrire sempre qualcosa di
nuovo.
Spero solo che il lettore tragga piacere dal libro: la sua parte è questa».
Lo chiedevo perché la sua narrazione chiama a raccolta tutti i sensi. C’è musica, sesso, cibo…
«Mi
piacciono le cose fisiche. Se scrivo di qualcuno che beve una birra,
spero che ai lettori venga voglia di bersene una. Cerco di imprimere
questo aspetto nella mia letteratura perché confido nella reazione
corporea come qualcosa di autentico, ingestibile, e se compare credo che
significhi che la storia funziona».
Scrivere della solitudine, della violenza, della pazzia, qual è la cosa più difficile?
«Far
ridere il lettore. Ridere a crepapelle. Molti giapponesi leggono i miei
libri in piedi, nella metropolitana: la gente intorno li guarda, può
risultare addirittura imbarazzante per loro. Però io sento di aver
raggiunto il mio scopo».
Menshiki, il milionario solitario che
rende omaggio a Gatsby in questo romanzo, non pensa alla paternità
finché non scopre che Marie potrebbe essere sua figlia. Com’è stata la
sua esperienza di questo tema?
«Non capisco».
Lei non ha figli…
«No».
Se ne pente?
[
Si prende 30 secondi prima di rispondere] «No. Ma quando ho scritto il
romanzo pensavo alla possibilità di aver avuto un figlio.
Ho
voluto immaginare che cosa sarebbe successo se, come capita al
personaggio, la mia ultima fidanzata avesse avuto una bambina e io non
ne avessi saputo nulla per anni. C’è una possibilità molto remota, però
esiste. Scrivere romanzi è inseguire possibilità.
Vedo i miei libri come un inseguimento di vite diverse.
Viviamo
tutti in una sorta di gabbia, la gabbia che presuppone il fatto di
essere solo te stesso. Se sei uno scrittore di narrativa, puoi uscire ed
essere qualcosa di diverso. È quello che faccio la maggior parte delle
volte».
Fuggire?
«Vivere i miei io alternativi».
Ha un significato particolare per lei il fatto di compiere settant’anni?
«Non sento nulla di particolare, ma neppure mi pento di qualcosa. Ho commesso errori, come tutti, ma quello che è stato è stato.
L’innocenza
è inevitabile, in questo sono una specie di fatalista. Mi ha chiesto se
mi dispiace di non aver avuto figli. Semplicemente è successo. Non
posso farci nulla.
Accetto quello che succede. Può essere che in
questo sia diverso da altre persone. Vivo e scrivo i miei romanzi
partendo da questa accettazione. È importante per me».
Accetta anche le sue paure?
Cosa teme?
«Sto
diventando vecchio. Non so com’è né che cosa si prova, perché è la mia
prima esperienza». [ Ride] Nelle sue storie torna sull’amore e sul
matrimonio.
Cos’è che li rende inestinguibili?
«Non mi
interessano i legami familiari, però mi interessa esplorare tutto quello
che succede tra un uomo e una moglie. È una relazione speciale, forse
la più importante. Non puoi scegliere i tuoi genitori o i tuoi figli, ma
puoi scegliere il tuo partner, e devi essere responsabile nella scelta.
Sono sposato da 47 anni con Yoko, e lei è anche la prima lettrice dei
miei libri.
Perché l’ho scelta? Non lo so. Ci penso spesso e ancora non so darmi una risposta».
La cultura statunitense fu decisiva per la sua generazione.
Che cosa ne pensa del progetto portato avanti da Trump?
«Sono
stato adolescente negli anni 60. La cultura statunitense era eccitante,
sfrenata. In quel decennio successe di tutto: jazz, rock, letteratura,
pop. Io ho assorbito tutto e me ne sento grato. Però la cultura degli
Stati Uniti oggi non è molto stimolante. La politica mi interessa, ma
scrivo narrativa. Non faccio dichiarazioni di altro genere».
– © Raquel Garzón / Ediciones El País 2019. Traduzione di Fabio Galimberti