Repubblica 1.2.19
Pd, la marcia immobile
di Roberto Esposito
Chi
sperava che il Pd intendesse voltare pagina è costretto a ricredersi.
Se l’intenzione era quella di riunire un partito intorno a un segretario
forte di un ampio consenso, il risultato della conta degli iscritti
alle primarie va in tutt’altra direzione. Nonostante i differenti dati
forniti dai candidati, la somma dei voti di Martina e di Giachetti è
assai vicina ai voti di Zingaretti. Forse non al punto di impedirne la
vittoria. Ma certo di renderla più incerta e precaria. Dal momento che
sia Martina che Giachetti, in misura diversa, sono vicini a Renzi, i
risultati precongressuali non fanno che certificare la stessa spaccatura
che si voleva superare. Qualsiasi sia l’esito finale delle votazioni,
la frattura interna che fino adesso ha immobilizzato il Pd in una
interminabile schermaglia interna rischia di proseguire anche dopo il
congresso, creando le peggiori condizioni per il confronto elettorale di
maggio. Chi può assicurare che la metà uscita sconfitta non frapponga
ostacoli di varia natura a quella che ha vinto? O che addirittura, alla
viglia del voto, non esca dal partito senza nessuna strategia comune?
Ma
ciò che rende ancora più desolante la situazione è la distribuzione
troppo disuguale del voto per non creare sospetti. Sono soprattutto due
le regioni che, sullo sprint finale, hanno ridimensionato il risultato
di Zingaretti, rilanciando la candidatura di Martina. La Sicilia e
soprattutto la Campania. Questa, dopo gli infiniti scandali delle
primarie precedenti, dopo accuse di spartizioni e brogli, continua a
essere il buco nero in cui affondano le speranze di rinnovamento del
partito. Già ridotto ai minimi termini alle ultime elezioni, esso appare
nelle mani del governatore De Luca e della sua parte politica. Pur
senza avere mai dichiarato il proprio appoggio a uno dei candidati, il
suo " partito personale" ha portato Martina a sopravanzare Zingaretti in
tutta la Campania e a stravincere con percentuali bulgare nelle
province di Salerno e Benevento. Il tutto in uno scenario locale in cui
si torna a parlare di smarrimenti di verbali, di schede votate prima di
essere aperte, misteriosamente moltiplicate rispetto al numero dei
votanti previsti.
Anche a prescindere da una valutazione politica
dei tre candidati, la conduzione di questa vicenda non lascia dubbi sul
suo esito. Ancora una volta, come si dice, il morto afferra il vivo e il
passato preclude il futuro. I padroni delle tessere, e dei voti, che
controllano manu militari le proprie zone d’influenza finiranno per
bloccare qualsiasi rilancio del partito. Con l’ovvia ricaduta sul piano
elettorale. E ciò proprio quando le prime crepe nel fronte gialloverde
autorizzerebbero a ipotizzare una possibile inversione del trend. A
questo punto non restano che due soluzioni, apparentemente opposte. Ma
entrambe volte a contenere la deriva del Pd. O quella di sfumare i suoi
contorni in un contenitore che porti un nome diverso — l’ipotesi
promossa da Calenda. O, forse meglio, quella di correre alle elezioni
europee con due liste diverse ma non avverse, tali da potersi
successivamente alleare. Una, centrista, di tipo liberal- repubblicano e
una spostata a sinistra, capace di aggregare consensi più radicali. Non
è facile che queste due aree possano comporsi in una stessa proposta
politica. Del resto in una votazione di tipo proporzionale non è detto
che differenziare le forze, piuttosto che comprimerle in una impossibile
unità, non possa risultare vantaggioso. D’altra parte anche il fronte
populista si presenterà articolato in due blocchi diversi, senza che ciò
debba necessariamente danneggiarli.