lunedì 11 febbraio 2019

Repubblica 11.2.19
Le idee
Mussolini, Pio XI e la lunga notte della libertà di culto
Il futuro fondatore della Dc scrisse: “Qualcuno crederà di tornare ai secoli in cuilo scettro e il pastorale erano uniti
L’accordo sarebbe durato anche se la vera svolta laica ci fu con gli articoli 7e 8 della Costituzione
di Alberto Melloni


Novant’anni fa la firma dei Patti Lateranensi sancì la "pace" tra lo Stato Vaticano e il regime fascista. Un’intesa accolta con amarezza da De Gasperi. Ma che contro gli auspici del duce finì per rafforzare il cattolicesimo democratico
La mattina dopo la firma dei Patti Lateranensi, l’accordo di riconoscimento reciproco tra Regno d’Italia e Stato Vaticano firmato esattamente novant’anni fa, l’11 febbraio del 1929, Alcide De Gasperi è a casa, malato. Dalla finestra l’ex segretario del Partito Popolare, non ancora cinquantenne, scrive a un amico vedendo desolato «la fiumana di cattolici e italiani che torna da San Pietro. Anche nella miserabile realtà quotidiana è come nella realtà dei simboli. I cocchi dei trionfatori passano, schizzando fango sui travolti che stentano a salvarsi sugli angoli della via».
«Fango». Così sembrava a un uomo che sapeva benissimo che la questione romana, al di là di tutti i vittimismi papali, era di fatto chiusa da tempo. Forse da quando col patto Gentiloni, nel 1913, la Santa Sede aveva concesso ai cattolici la possibilità di votare, ma solo per fronteggiare il pericolo rosso, e aveva iscritto nel dna politico di molti di loro un istinto rimasto attivo fino al 1994, cioè fino al momento del crollo definitivo della Prima Repubblica.
Certo la posizione del Papa e della sua sede in Italia si sarebbe potuta chiudere anni prima, quando a Parigi Vittorio Emanuele Orlando (presidente del Consiglio dal 1917 al 1919) definì i contorni di quelli che rivendicherà come i veri «accordi». Ma nessuno di questi tentativi era andato in porto e adesso i «travolti», come li definiva De Gasperi nella lettera, dovevano adattarsi al trionfalismo clerico-fascista, posto a coronare un decennio sconvolgente.
Esattamente dieci anni prima, nel 1919, era nato il Partito Popolare Italiano. Ma i «liberi e forti» non erano stati abbastanza forti da resistere alla tentazione di votare la fiducia al governo Mussolini il 17 novembre del 1922. E liberi lo sarebbero stati per poco: perché, passati all’opposizione nella primavera del 1923, avrebbero visto il Papa adoperarsi per mandare in esilio il loro fondatore, don Sturzo, e poi avrebbero visto il partito sciolto, De Gasperi arrestato e dopo la scarcerazione costretto a vivere di espedienti, perché non si dicesse «che il Vaticano protegge gli antifascisti». Nel frattempo, dopo l’assassinio di Matteotti, avevano dovuto leggere sull’Osservatore Romano che, in caso di caduta del governo Mussolini, c’era il rischio di un «salto nel buio», come se il buio non ci fosse già, e con la fondata possibilità di durare a lungo. E poi, in quel febbraio 1929, dovevano perfino vedere "l’uomo della Provvidenza" vantarsi accanto al Pontefice, acclamato e lodato da un papa, Pio XI, che non si fidava di lui: e che però non riusciva ad avere contro il duce la stessa determinazione usata contro l’Action française, movimento politico francese di ispirazione antiparlamentare e antidemocratica molto simile al fascismo italiano.
De Gasperi capisce bene che Mussolini ha in mente una strategia propagandistica fatta di blandizie e provocazioni, che emergerà anche quando, all’atto della ratifica, si autodefinirà «cattolico ed anticristiano», dando con una sola pennellata il profilo d’ogni fascismo che profumi d’incenso.
Ma il politico trentino si rende conto che quella firma Pio XI doveva metterla: «Non si poteva esitare e credo che avrebbe firmato, fosse stato Papa, anche Don Sturzo», scrive. Anche se in questa «transazione rimangono a bocca amara proprio i fedelissimi», fatto «che non è né nuovo né fuori dalla logica delle cose». Ancora, De Gasperi — sul quale l’oleografia andreottiana ha spalmato un po’ troppo del proprio cinismo — dice che «il pericolo» non è nei Patti, ma «piuttosto è nella politica concordataria. [...] Certo questa sera a Palazzo Colonna, riaprendo i famosi battenti, qualcuno crederà di riaprire le porte di secoli in cui s’intrecciarono lo scettro e il pastorale. Ma la realtà del secolo XX non tarderà a farsi sentire, le grandi masse ricompariranno dietro lo scenario. Auguriamoci che gli uomini di Chiesa non le perdano mai».
Il «turbamento prodotto dal concordato» in De Gasperi (lo definisce lui così), non ha emuli Oltretevere: la grande diplomazia vaticana sa infatti che l’accordo farà da cornice ai conflitti, ma non li eviterà. E Mussolini, alla fine degli anni Trenta, si lamenterà con Yves de Begnac di tutti cattolici fascisti, incapaci di «fare cultura», dice cogliendo il nodo cruciale.
E in effetti è in questo distanziamento "culturale" che si forma una generazione di cattolici che legge il rapporto Stato-Chiesa e Chiesa-fascismo in altri termini.
Questa generazione, di cui Giuseppe Dossetti è la massima incarnazione, approderà alla Costituente, influenzando in particolare la formulazione dell’articolo 7 («Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani...») e dell’articolo 8 («Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge...») della Costituzione. Chi in quelle righe riscontra analogie con le formule del ministro repubblichino Biggini, che aveva sognato di assorbire i patti del 1929 in una Costituzione di Salò, non coglie il nodo storico della costituente democratica. Che non vuole salvare la politica concordataria, ma impedire che la Chiesa si innamori di uno Stato confessionale che non ci sarà mai e che in questo modo finisca per restare estranea alle istituzioni democratiche, che si reggono solo se un ethos le riconosce. Gli articoli 7 e 8 offrono dunque la più solenne garanzia alla bilateralità dei rapporti Stato-Chiesa. E senza "costituzionalizza re" i Patti, che saranno rivisti dagli accordi Casaroli-Craxi senza modifica della Carta fondamentale.
Quegli articoli sanciscono invece un principio di libertà religiosa che precede di molto gli sviluppi della dottrina cattolica, così come emergerà nel Concilio Vaticano II (1962-1965). E che nemmeno oggi il Parlamento repubblicano ha saputo tradurre in una legge generale sulla libertà religiosa.