lunedì 11 febbraio 2019

Repubblica 11.2.19
Le idee
Mussolini, Pio XI e la lunga notte della libertà di culto
Il futuro fondatore della Dc scrisse: “Qualcuno crederà di tornare ai secoli in cuilo scettro e il pastorale erano uniti
L’accordo sarebbe durato anche se la vera svolta laica ci fu con gli articoli 7e 8 della Costituzione
di Alberto Melloni


Novant’anni fa la firma dei Patti Lateranensi sancì la "pace" tra lo Stato Vaticano e il regime fascista. Un’intesa accolta con amarezza da De Gasperi. Ma che contro gli auspici del duce finì per rafforzare il cattolicesimo democratico
La mattina dopo la firma dei Patti Lateranensi, l’accordo di riconoscimento reciproco tra Regno d’Italia e Stato Vaticano firmato esattamente novant’anni fa, l’11 febbraio del 1929, Alcide De Gasperi è a casa, malato. Dalla finestra l’ex segretario del Partito Popolare, non ancora cinquantenne, scrive a un amico vedendo desolato «la fiumana di cattolici e italiani che torna da San Pietro. Anche nella miserabile realtà quotidiana è come nella realtà dei simboli. I cocchi dei trionfatori passano, schizzando fango sui travolti che stentano a salvarsi sugli angoli della via».
«Fango». Così sembrava a un uomo che sapeva benissimo che la questione romana, al di là di tutti i vittimismi papali, era di fatto chiusa da tempo. Forse da quando col patto Gentiloni, nel 1913, la Santa Sede aveva concesso ai cattolici la possibilità di votare, ma solo per fronteggiare il pericolo rosso, e aveva iscritto nel dna politico di molti di loro un istinto rimasto attivo fino al 1994, cioè fino al momento del crollo definitivo della Prima Repubblica.
Certo la posizione del Papa e della sua sede in Italia si sarebbe potuta chiudere anni prima, quando a Parigi Vittorio Emanuele Orlando (presidente del Consiglio dal 1917 al 1919) definì i contorni di quelli che rivendicherà come i veri «accordi». Ma nessuno di questi tentativi era andato in porto e adesso i «travolti», come li definiva De Gasperi nella lettera, dovevano adattarsi al trionfalismo clerico-fascista, posto a coronare un decennio sconvolgente.
Esattamente dieci anni prima, nel 1919, era nato il Partito Popolare Italiano. Ma i «liberi e forti» non erano stati abbastanza forti da resistere alla tentazione di votare la fiducia al governo Mussolini il 17 novembre del 1922. E liberi lo sarebbero stati per poco: perché, passati all’opposizione nella primavera del 1923, avrebbero visto il Papa adoperarsi per mandare in esilio il loro fondatore, don Sturzo, e poi avrebbero visto il partito sciolto, De Gasperi arrestato e dopo la scarcerazione costretto a vivere di espedienti, perché non si dicesse «che il Vaticano protegge gli antifascisti». Nel frattempo, dopo l’assassinio di Matteotti, avevano dovuto leggere sull’Osservatore Romano che, in caso di caduta del governo Mussolini, c’era il rischio di un «salto nel buio», come se il buio non ci fosse già, e con la fondata possibilità di durare a lungo. E poi, in quel febbraio 1929, dovevano perfino vedere "l’uomo della Provvidenza" vantarsi accanto al Pontefice, acclamato e lodato da un papa, Pio XI, che non si fidava di lui: e che però non riusciva ad avere contro il duce la stessa determinazione usata contro l’Action française, movimento politico francese di ispirazione antiparlamentare e antidemocratica molto simile al fascismo italiano.
De Gasperi capisce bene che Mussolini ha in mente una strategia propagandistica fatta di blandizie e provocazioni, che emergerà anche quando, all’atto della ratifica, si autodefinirà «cattolico ed anticristiano», dando con una sola pennellata il profilo d’ogni fascismo che profumi d’incenso.
Ma il politico trentino si rende conto che quella firma Pio XI doveva metterla: «Non si poteva esitare e credo che avrebbe firmato, fosse stato Papa, anche Don Sturzo», scrive. Anche se in questa «transazione rimangono a bocca amara proprio i fedelissimi», fatto «che non è né nuovo né fuori dalla logica delle cose». Ancora, De Gasperi — sul quale l’oleografia andreottiana ha spalmato un po’ troppo del proprio cinismo — dice che «il pericolo» non è nei Patti, ma «piuttosto è nella politica concordataria. [...] Certo questa sera a Palazzo Colonna, riaprendo i famosi battenti, qualcuno crederà di riaprire le porte di secoli in cui s’intrecciarono lo scettro e il pastorale. Ma la realtà del secolo XX non tarderà a farsi sentire, le grandi masse ricompariranno dietro lo scenario. Auguriamoci che gli uomini di Chiesa non le perdano mai».
Il «turbamento prodotto dal concordato» in De Gasperi (lo definisce lui così), non ha emuli Oltretevere: la grande diplomazia vaticana sa infatti che l’accordo farà da cornice ai conflitti, ma non li eviterà. E Mussolini, alla fine degli anni Trenta, si lamenterà con Yves de Begnac di tutti cattolici fascisti, incapaci di «fare cultura», dice cogliendo il nodo cruciale.
E in effetti è in questo distanziamento "culturale" che si forma una generazione di cattolici che legge il rapporto Stato-Chiesa e Chiesa-fascismo in altri termini.
Questa generazione, di cui Giuseppe Dossetti è la massima incarnazione, approderà alla Costituente, influenzando in particolare la formulazione dell’articolo 7 («Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani...») e dell’articolo 8 («Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge...») della Costituzione. Chi in quelle righe riscontra analogie con le formule del ministro repubblichino Biggini, che aveva sognato di assorbire i patti del 1929 in una Costituzione di Salò, non coglie il nodo storico della costituente democratica. Che non vuole salvare la politica concordataria, ma impedire che la Chiesa si innamori di uno Stato confessionale che non ci sarà mai e che in questo modo finisca per restare estranea alle istituzioni democratiche, che si reggono solo se un ethos le riconosce. Gli articoli 7 e 8 offrono dunque la più solenne garanzia alla bilateralità dei rapporti Stato-Chiesa. E senza "costituzionalizza re" i Patti, che saranno rivisti dagli accordi Casaroli-Craxi senza modifica della Carta fondamentale.
Quegli articoli sanciscono invece un principio di libertà religiosa che precede di molto gli sviluppi della dottrina cattolica, così come emergerà nel Concilio Vaticano II (1962-1965). E che nemmeno oggi il Parlamento repubblicano ha saputo tradurre in una legge generale sulla libertà religiosa.

Repubblica 11.2.19
Il volume autobiografico di Luigi Saraceni
La storia d’Italia raccontata in tre vite
Dal padre socialista alla figlia terrorista
di Giancarlo De Cataldo


«Il racconto comincia con l’assassinio di un re con qualche colpa e trova il presupposto della sua conclusione nell’assassinio di un uomo senza colpe». L’esordio narrativo di Luigi Saraceni è un formidabile memoir che abbraccia, come recita il titolo, "un secolo e poco più" di storia italiana.
Il "re con qualche colpa" è Umberto I, ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci agli albori del Novecento. È proprio la sera dopo il regidicio che un ragazzaccio calabrese di vent’anni si mette a suonare la serenata alla morosa, e quando le guardie gli ingiungono il silenzio, perché è morto il re, lui risponde spavaldo e beffardo: «Ma noi siamo repubblicani». E finisce diritto in gattabuia. Quel ragazzo è Silvio Saraceni, il papà dell’autore. Avvocato, metà anarchico e metà socialista, padre di cinque figli (fra cui Luigi) nati, con grave scandalo dei benpensanti, da un’unione fuori dal sacro vincolo matrimoniale, e poi sindaco che, letteralmente, apre i granai e distribuisce il pane al popolo nell’affamata Calabria del dopoguerra, meritando - lui, da sempre antifascista - la galera democratica.
Leggi le pagine affettuose e vibranti del figlio e cogli subito il legame fra un tipo come Silvio, romantico uomo della sinistra di una volta, e Luigi: giudice fra i fondatori di Magistratura Democratica, poi avvocato (fra gli altri, del leader curdo Ocalan) e parlamentare negli anni dell’Ulivo. Ha poco più di trent’anni, Luigi, ed è agli inizi come magistrato, quando scopre di essere stato schedato dal Sifar del generale De Lorenzo. La sua colpa: è figlio di un incendiario, ed è socialista.
Ma che magistratura è quella che accoglie il presunto sovversivo? Una casta che si è formata negli anni del Fascismo e mostra, nei vertici, una non dissimulata ostilità verso la Costituzione, talora temperata da un antico buon senso venato d’ironia: irresistibile il passaggio in cui l’autore ricorda la sentenza che manda assolto un cacciatore di frodo perché «nella stagione di caccia chiusa la prensione con mano dell’uccello adulto non costituisce reato».
Ma anche sul corpo più chiuso soffia il vento del cambiamento.
Saraceni racconta appassionatamente l’evoluzione di una giustizia che, grazie ai suoi uomini migliori, si lascia contaminare dai grandi cambiamenti sociali, sino a diventarne parte propulsiva.
Accade nella stagione delle riforme: dal diritto di famiglia allo Statuto dei lavoratori, dalla legge Basaglia al divorzio, dieci anni che cambiano il volto dell’Italia. E la politica progressista- sembra incredibile, ma è accaduto- si apre alla società civile, pesca vocazioni nello spettacolo, nella cultura, persino nella magistratura. Saraceni approda in Parlamento. La ricostruzione dell’esperienza dell’Ulivo è minuziosa, e narra di un sogno conflittuale, forse inizialmente insperato, naufragato poi fra rivalità narcisistiche e errori politici.
Questo libro, si diceva, nasce con l’assassinio di un re con qualche colpa e sfocia in quello di un innocente. L’innocente è Massimo D’Antona, ed è di questo crudele omicidio commesso dalle "nuove" Brigate Rosse che verrà accusata e condannata la figlia Federica.
Saraceni non elude il tema.
Accetta il verdetto, ma non lo condivide. In pagine molto intense l’uomo di legge, il nemico di ogni forma di violenza, il tenace difensore del principio di una giustizia che non dovrebbe mai farsi vendetta, racconta con lucido dolore il conflitto fra il rispetto delle vittime e l’amore paterno, e mai smette di domandarsi come possa l’ansia di cambiare il mondo degenerare in pulsione di morte.

La Stampa 11.2.19
Le nostre aziende vendono aerei, navi, armi pesanti e leggere all’esercito turkmeno
Nell’Eldorado degli armamenti il primo fornitore è l’Italia
Il presidente-dittatore Berdymukhamedov è corteggiato da Russia e Cina ma preferisce il nostro Paese. Un risultato dei governi Prodi, Berlusconi e Renzi. Nell’ex repubblica sovietica si moltiplicano commesse e accordi
di Francesco Grignetti


Turkmenistan, terra di steppe, nomadi, cavalli di selvaggia bellezza. E armi. Armi italiane in particolare. Lontanissima da noi, piantata nel centro dell’Asia, tra Iran, Turchia, Afghanistan, questa Repubblica ex sovietica brilla per due cose: l’enorme quantità di gas naturale che conserva sottoterra e le bizzarrie dei suoi dittatori. Quello che c’era prima aveva persino cambiato nome ai mesi dell’anno, aveva proibito il playback perchè tutti dovevano saper cantare, pretendeva che i suoi ministri imparassero in sei mesi l’inglese sennò li avrebbe cacciati, voleva portare i pinguini in uno zoo nel deserto, e s’era fatto costruire una statua in oro, girevole, affinché avesse sempre il sole in faccia.
Quello attuale, Gurbanguly Berdymukhamedov, un dentista divenuto inopinatamente leader supremo nel 2006, ha anche lui modi da satrapo, ma più moderato. Per un compleanno, ha voluto Jennifer Lopez a cantargli «happy birthday». Oppure si è fatto intervistare in tv mentre lancia coltelli e spara contro le sagome di un poligono. Ha però ripristinato il vecchio nome ai mesi. Come il suo predecessore, anche il presidente Berdymukhamedov è un osservato speciale da parte dell’Onu e dalle Ong internazionali. Eppure nessuno disdegna di stringere affari con il Turkmenistan. Quel gas fa gola a tutti. La Cina ha costruito a tempo di record un gasdotto che la congiunge ai turkmeni attraversando l’Afghanistan. Anche l’Europa sogna di connettersi a quei giacimenti con una pipeline e aggirare la dipendenza dalla Russia. È il Gran Gioco dell’energia.
Diplomazia ed energia
L’Eni è presente in Turkmenistan dal 2008 dopo avere acquistato una piccola società britannica, la Burren Energy Plc. Il nostro corteggiamento, però, parte da lontano. La prima visita di un sottosegretario risale al maggio 2007, durante il governo Prodi. È in preparazione la prima e unica conferenza Italia-Asia centrale che non darà grandi risultati immediati. Ma è l’occasione per rompere il ghiaccio. Subito dopo, nel 2008, subentra il governo Berlusconi e in Turkmenistan sbarca Alfredo Mantica, il nuovo sottosegretario agli Esteri, inviato a preparare una visita del presidente turkmeno a Roma.
Berlusconi lo riceve a palazzo Chigi nel novembre 2009. E sono i soliti lazzi, con il premier che fa lo spiritoso verso una ministra ospite, ma anche i soliti business, con la firma di quattro accordi bilaterali. «L’Italia è per noi una porta aperta verso l’Europa», si compiace Berdymukhamedov al termine. E infatti l’Eni mette radici, si apre un’ambasciata, comincia l’interscambio commerciale. Con contorno di armi. Giusto il tempo di conoscersi, annusare l’aria, stipulare i contratti, e in Turkmenistan arrivano elicotteri, aerei da trasporto, cannoni, fucili, pistole, missili. Nel 2011, per dire, Finmeccanica-Leonardo è autorizzata alla vendita di 5 elicotteri AW-139 per 64 milioni di euro con relativo corso di pilotaggio, training alla manutenzione e supporto tecnico.
Viene poi il governo Renzi, ma la musica non cambia. Anzi. Tra il 2014 e il 2015, il premier fiorentino fa tappa in Turkmenistan tornando dall’Australia e in seguito il loro presidente torna a Roma, accolto stavolta sia a palazzo Chigi che al Quirinale. Nel novembre 2014, l’amministratore delegato Claudio Descalzi può esultare per la firma di nuove intese. «Un accordo strategico - scrive - che rafforza la presenza di Eni in Turkmenistan, paese dall’elevato potenziale minerario, e consolida il rapporto di Eni con le autorità nazionali e la società di Stato Turkmenneft».
La strategia degli arsenali
Ebbene, uno dei risultati di questo scambio di amorosi sensi è che gli arsenali turkmeni nel giro di pochi anni si sono rimpinzati di armi italiane. Secondo Bellingcat, un team internazionale di giornalismo investigativo, che dedica alla connection italo-turkmena un articolo sul suo sito, è significativa la quantità di armi italiane giunte in quel Paese. In breve: «Tra il 2007 e il 2017, il Turkmenistan ha speso in armamenti circa 340 milioni di euro, il 76% dei quali (per un totale di 257 milioni di euro) vengono dall’Italia». Come documenta Bellingcat, le armi italiane sono ostentate ormai ad ogni parata. Nel 2017, un’esercitazione a fuoco da parte di questi due elicotteri di produzione italiana con livrea turkmena, lungo il confine con l’Iran, è trasmessa alla televisione nazionale, ma le inquadrature migliori sono dedicate al presidente Berdymukhamedov mentre assiste compiaciuto con binocolo agli occhi.
Lo scoglio della legge
Apparentemente tutto è in regola. Ogni vendita è stata autorizzata dall’ufficio competente presso la Farnesina, l’UAMA, Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento. Anche le Relazioni al Parlamento non tacciono sul Turkmenistan. L’ultima Relazione disponibile, quella per le attività del 2017, dà conto di vendite per 46 milioni di euro (su un totale di 8 miliardi di euro di incassi da questo settore nell’anno): i soggetti citati sono Beretta, Leonardo, Mbda Italia (missilistica), MES Meccanica (visori notturni).
Normale? In effetti il Turkmenistan non è un Paese in guerra, né è sottoposto a embargo internazionale. Alla maniera della Svizzera, ha dichiarato la più stretta neutralità nell’area caucasica. Non sembrano esserci ostacoli alla vendita. Sennonché la legge italiana stabilisce che l’UAMA, per autorizzare queste forniture particolarmente sensibili, deve valutare se gli armamenti non vadano verso Paesi «i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa». E questo potrebbe essere il caso del Turkmenistan, dove le libertà sono gravemente compromesse. Ma come si fa a incrociare la lista della spesa con la lista dei Paesi che violano i diritti umani? Il governo italiano si guarda bene dall’esprimere una valutazione al riguardo. Si allega alla Relazione esclusivamente la lista dei Paesi in guerra e sotto embargo delle Nazioni Unite.
C’è stato un unico caso, nel 2007, quando appunto c’era Romano Prodi al governo, che la Relazione sulle vendite di armi fu accompagnata da un elenco finalmente completo, sia dei Paesi sotto embargo, sia di quelli sotto osservazione per violazione ai diritti umani. «Fu un nostro successo - racconta Giorgio Beretta, attivista di Rete Disarmo - grazie a un dialogo serrato con l’allora sottosegretario alla Presidenza, Enrico Letta». In quella Relazione, (che alla voce Turkmenistan scriveva : «Profonda preoccupazione della comunità internazionale sulla situazione dei diritti umani sulla base della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 60/172 del 2005») non per caso si annunciava anche l’intenzione di agevolare la partecipazione delle Ong a incontri con le autorità ministeriali per valutare insieme l’andamento e le attività inerenti le esportazioni di armi. «Poi però venne il governo Berlusconi e tutto finì», dice ancora Beretta.

La Stampa 11.2.19
“Forniture e potere tribale
Dal gas venduto ai cinesi incassano fiumi di denaro”
di fra. gri.

 
Era il marzo del 2009, e Alfredo Mantica, sottosegretario pro-tempore agli Esteri, sbarcava a Aşgabat, la capitale del Turkmenistan. «Una città incredibile, che sembrava costruita con il Lego, di vetro e marmo, nel deserto. Nella piazza principale, un’incredibile statua in oro del padre della patria che girava su sé stessa perché il leader guardasse sempre il sole». Mantica era lì per parlare di gas.«L’Eni aveva un problema. Qualche anno prima aveva acquistato una società petrolifera inglese puntando a un business in Uganda che poi si rivelò un fallimento, ma in cambio si ritrovava un ricco giacimento di gas in Turkmenistan. Ne venne fuori un caso davvero incredibile». 
In che senso, Mantica?
«Il presidente Gurbanguly Berdymukhamedov si rifiutava di riconoscere i diritti dell’Eni. Faceva un discorso molto semplice quanto brutale: io qui sono il padrone di casa, voi italiani dovete trattare con me».
E voi trattaste. L’amministratore delegato Paolo Scaroni andò a omaggiarlo, come anche lei. Berlusconi ricevette Berdymukhamedov a palazzo Chigi qualche mese dopo e furono firmati quattro memorandum. Subito dopo aprimmo un’ambasciata e così loro a Roma.
«Ci rendemmo conto che quel Paese ex sovietico, fatto di deserti, nomadi e cavalli, aveva un immenso patrimonio di gas naturale. Pensi che fino a quel momento si andava avanti con un console onorario nella sua pizzeria». 
Il Turkmenistan è una dittatura spietata, però.
«Certo non è una democrazia all’occidentale. È una realtà totalmente a sé, con alcune stranezze: una volta all’anno, i parlamentari devono fare una corsa in piazza e salire per una scalinata di 300 gradini. Se non ce fanno, addio seggio. Il vero potere si basa sui clan. Sa come andò, no? L’ex segretario comunista s’inventò un partito liberale, vinse le elezioni, e finì il comunismo...».
Problemi?
«Mai. Unico incidente, mi portarono in visita alla moschea. Era istoriata al solito con versetti. “Il Corano”, dissi. Mi fulminarono con gli occhi:”No, il nostro Fondatore”. Aveva fatto fuori Maometto». 
Da allora i rapporti con l’Italia si sono fatti sempre più stretti.
«Cercavano nuovi mercati per il gas, emancipandosi dai russi. Noi pure volevamo emanciparci dalle forniture russe. Era il tempo della prima crisi ucraina e si parlava già di un gasdotto verso l’Europa che doveva chiamarsi Nabucco. Intanto i turkmeni strinsero un accordo con i cinesi: ora esportano quasi tutto lì. Ricordo che appena intavolarono le trattative con la Cina, guarda caso, il gasdotto verso la Russia saltò in aria...». 
Di concerto con le relazioni diplomatiche e con gli affari, cominciarono le forniture di armi. Ricorda?
«Fino al 2011, quando ero responsabile dell’ufficio che dà le autorizzazioni alle esportazioni di armi, il Turkmenistan non è mai comparso. Dopo, non so».

Il Fatto 11.2.19
Calabresi-Repubblica, il giornalismo del cane che non mangia mai cane
I giovani (e non) precari pagati 20 euro ad articolo e il mondo dei super-garantiti che si aiutano
di Pietrangelo Buttafuoco


Improvvisamente è accaduto come con l’invenzione del telaio: gli operai non sono serviti più e così – un’era fa, anche se sono passati pochi anni – è accaduto con l’informazione. I giornalisti, col web, sono superflui e anche quella loro signorile capacità professionale è stata ribaltata al grado zero: chi si guardò, si salvò. Salvato, per fare un esempio, è un Corrado Augias che nella sua squisita nicchia culturale prende molto-mila-assai e fischia euro l’anno dalla Rai. Lavora beato con un bel conquibus anche per Repubblica, non ci si salva mai per sorteggio – per noblesse – e sommersi, invece, sono tantissimi altri. A cominciare dai precari squillanti di firma. Ce ne sono perfino nei giornaloni, prosciugati nel reddito, tutti sommersi nel mare grande di un mestiere senza più parte e nessuna arte se ai più giovani infine – malgrado la prima pagina tuoni contro il mercato nero e lo sfruttamento – prendano 20 euro lordi, al più, ad articolo. E magari – il contrappasso è in agguato – sono pezzi scritti per difendere lo stipendio di Augias. Si salva chi già ben alloggia. Chi non ha padrinati, al contrario, è sommerso. È pur sempre il mestiere di Bel Amì, quello del giornalista, ci si salva in virtù dell’altra rete – quella delle relazioni – e se ne avrà una controprova quando Mario Calabresi, il direttore uscente del giornale fondato da Eugenio Scalfari, pur dopo il suo cocente inciampo, si ritroverà accolto, e non ce ne sarà da meravigliarsi, nella Rai dei populisti, a Mediaset o accasato in via Solferino, va da sé.
Chi si salvò, si salva per sempre. Ed è giornalismo. Durante un’intervista di Cesare Lanza a Urbano Cairo nel via vai di un caffè, a Milano, a un certo punto sbuca Giancarlo Aneri. Non era ancora finita la stagione di Calabresi a Repubblica e Aneri, il patron del più inarrivabile dei premi, “È giornalismo”, ha quasi un urto profetico. Aneruccio schiva la bastonata dell’inviato de La Verità (“manco per sbaglio il premio va a un giornalista non dico di destra, ma di…”) si avvinghia all’editore del Corriere della sera– assai silente – e gli intima “Dovresti assumere Calabresi al Corriere, sarebbe un magnifico editorialista!” e siccome due più due fa quattro, lo schema è già descritto: cane non mangia cane, prete non mangia prete…
Tutti salvati, madama la marchesa.
Ed è sempre troppo in alto l’uva per i sommersi la cui consolazione, nel fallimento, è che l’uva loro negata sia agra, maledettamente agra. La Vita Agra, per dirla con Luciano Bianciardi. E improvvisamente è venuto questo tema del giornalismo perché è stato più facile togliere di mezzo politicamente i Matteo Renzi e i Silvio Berlusconi che cambiare musica là dove il vapore impartisce alfabeto unico dei giornaloni, dei Fabio Fazio e dell’industria culturale unica del pensiero unico e sempre uno.
“Perché i giornali stanno soffrendo” ha scritto Domenico De Masi giovedì scorso per il nostro giornale. I consumi di cultura sono crollati e c’è – sottolineava giustamente De Masi, in punto di analisi – “un problema di testate che si somigliano tutte”. Parole sante. Cui va ad aggiungersi l’equivoco sulla fatica intellettuale, quel leggere e scrivere – e creare – spacciato per un passatempo il cui tempo consumato è di valore zero. Si assomigliano tutti i salvati, e così anche i sommersi. Uguali tutti alla volpe.

La Stampa 11.2.19
Foibe, Salvini: i bimbi morti come quelli di Auschwitz
di Davide Lessi


«Una tragedia nazionale per troppo tempo accantonata». Così aveva definito il giorno dedicato al ricordo delle vittime delle foibe il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E ieri, nella giornata delle commemorazioni, il Capo dello Stato ha voluto ringraziare personalmente il presidente emerito Giorgio Napolitano «che tanto ha fatto per restituire alla memoria nazionale quei tragici eventi».
Un messaggio forte è arrivato anche dal carso triestino, da Basovizza, dove ieri il vicepremier, Matteo Salvini, e il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, hanno preso parte alle celebrazioni per ricordare la tragedia. «Non esistono martiri di serie A e martiri di serie B», ha detto Salvini arrivando a sostenere che «i bimbi morti nelle foibe e i bimbi di Auschwitz sono uguali». Il presidente dell’Europarlamento ha sottolineato che «chi nega uccide due volte». A Basovizza, oltre a numerosi parlamentari - da Ettore Rosato a Giorgia Meloni -, c’erano circa tremila persone, tra cui 400 studenti provenienti dagli istituti superiori di tante città di Italia.
Il giorno del ricordo, per una volta, è servito a unire la gran parte del mondo politico. In tanti, da tutto il Paese, hanno fatto sentire la loro vicinanza: dal presidente della Camera, Roberto Fico, al ministro della Difesa Elisabetta Trenta. A Milano il sindaco Giuseppe Sala ha annunciato che entro l’anno la sua città dedicherà un monumento in memoria delle vittime. Per «squarciare finalmente» - ha detto il primo cittadino - una pagina di storia su «cui c’è stato troppo silenzio».

Corriere 11.2.19
Il racconto delle foibe per ricordare la ferocia di quegli anni terribili
di Aldo Grasso


«Le foibe sono un terribile, selvaggio, crudele delitto, che peserà per sempre nei cuori e nelle anime degli assassini. Ma il delitto più grande, più spregevole, è quello di aver costretto 350.000 persone ad abbandonare le loro case, dove per secoli avevano vissuto laboriosamente, sotto il lunghissimo dominio di Venezia e successivamente dell’Impero Austro-Ungarico e del Regno d’Italia. E dove ogni pietra parlava italiano».
Così Toni Concina, nel ricordare la solennità civile del Giorno del Ricordo (10 febbraio). Per l’occasione, Rai3 ha trasmesso il film Red Land- Rosso Istria, con Selene Gandini, Franco Nero, Geraldine Chaplin e la regia di Maximiliano Hernando Bruno. È la storia di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, laureanda all’Università di Padova, barbaramente violentata e uccisa dai partigiani iugoslavi e il suo corpo martoriato gettato nella foiba di Villa Surani.
Ma è anche la storia della ferocia con cui agivano i titini contro gli italiani solo perché italiani, la storia di Fiume, di Pola di Zara. Fra il 1943 e il 1947, nelle foibe dell’Istria (cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo) sono stati gettati 10.000 italiani. Venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi e messi sugli argini delle foibe, quindi si apriva il fuoco a raffiche di mitra, non contro il gruppo, ma soltanto contro i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni tra sofferenze inimmaginabili.
Non basta confrontarsi con la ferocia dei titini ma anche con il modo con cui molti italiani accolsero quei connazionali: l’epiteto più gentile fu «banditi giuliani», giusto per equipararli al più conosciuto dei fuorilegge.

Repubblica 11.2.19
L’intervento
Quella nuova idea d’Europa che possiamo far nascere insieme
di Jacques Attali

Tutta la mia vita si è nutrita di Italia: ne ho imparato la lingua molto presto, la sua letteratura mi ha sempre scombussolato (mi limiterò a citare Primo e Carlo Levi), la sua poesia non mi lascia mai (da Dante a Leopardi), il suo teatro è insuperabile (Goldoni e Pirandello), la sua scultura è fondatrice (dai romani fino a Cattelan, passando per il Bernini), la sua architettura (con Vasari e Renzo Piano), la sua filosofia (cito Gramsci e Agamben), la sua musica è universale (da Scarlatti a Berio), la sua pittura, con mille nomi (da Giotto a Boetti), l’opera non sarebbe nulla senza Verdi, Puccini, Bellini e tanti altri, la sua cucina è essenziale per il mondo (sul pianeta vengono consumati ogni anno 30 miliardi di pizze?) e poi il suo cinema con mille nomi, da Visconti a De Sica. E non basta ancora, forse: è stata, a più riprese e sotto diversi nomi, al centro del mondo. Con Roma, naturalmente, a cui dobbiamo tanto. Roma, erede delle tradizioni greca e giudaica, e dove si installò la culla di una terza forma di universalità, con il cristianesimo. Ma anche con Venezia e poi con Genova, che furono, fra il Duecento e la metà del Cinquecento, delle superpotenze immense, i corrispettivi della New York del Novecento. Oggi l’Italia resta una potenza universale per la sua industria (lo sapevate che esporta e innova ben più della Francia?), per i suoi marchi (nel campo della moda o della alimentazione) e per tanti altri aspetti. È ben di più dei suoi politici, che hanno poco spazio nel suo pantheon. Che lo voglia o no, l’Italia è qualcosa di più di una nazione. È un’idea così potente che ha dimenticato per millenni di farsi nazione, prima di diventarlo solo centoncinquanta anni fa o giù di lì.
E in questo contesto che va ricollocata la disputa attuale. Non si riduce agli insulti ridicoli lanciati da qualche politico maleducato che cerca di puntellare una popolarità traballante; non è soltanto
Jacques Attali
L’autore, 75 anni, nato ad Algeri, è un economista, saggista e banchiere francese un’inquietante manifestazione di una nostalgia del periodo più nero della storia italiana, il ventennio fascista. È anche un momento importante, in cui una grandissima idea, universale, ci dice che non vuole morire e vuole continuare a giocare un ruolo nella Storia del mondo. E innanzitutto nella Storia d’Europa. La Francia si trova di fronte alle stesse angosce. Pur essendo una nazione da più di mille anni, è anche un’idea. E nulla è più fecondo che quando l’idea-Italia e l’idea-Francia si alimentano a vicenda. È una cosa che ha regalato mille capolavori (che cosa sarebbe il Rinascimento senza l’incontro fra Leonardo da Vinci e Francesco I?). È una cosa che può costruire l’Europa. La risposta migliore che si possa dare alla situazione attuale, dunque, non è ammantarsi di indignazione reciproca, ma tendere la mano, dialogare, tra scrittori, intellettuali, artisti, imprenditori, studiosi, professori, medici, sindacalisti, partiti politici, associazioni, perché dalle nostre due idee-nazioni nasca finalmente una nuova idea, l’idea-Europa, che abbiamo tutto per far progredire insieme.
D’altronde, è già in gestazione. E perfino quando un ministro italiano commette la sgarberia di venire in Francia a parlare con persone che vogliono fomentare un colpo di Stato, dice, suo malgrado, che il dibattito oggi non è più nazionale, ma europeo. E che conviene far vivere questa Europa a cui il mondo deve tanto, e che potrebbe morire soltanto per suicidio.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

La Stampa 11.2.19
Brexit, i guai dei britannici riguardano anche noi
di Caterina Soffici


L’altra sera mia madre, che vive a Firenze, ha telefonato allarmata per sapere se qui a Londra andava tutto bene. Aveva sentito alla radio di un piano per evacuare la regina in caso di rivolte. L’ho tranquillizzata che è tutto sotto controllo, che Elisabetta in fuga in elicottero con i cagnetti corgy è una bella scena per il prossimo James Bond, ma è la cosa meno probabile in tutto il caos della Brexit. Visto che la famiglia reale non ha lasciato Buckingham Palace sotto le bombe tedesche nel 1940, è alquanto inverosimile che fugga adesso. Anzi, ho aggiunto, proprio in questi giorni la regina, in visita nella contea di Norfolk, si è lasciata scappare una frasetta in cui esortava i politici, di qualsiasi colore, a mettersi d’accordo su questa benedetta Brexit per il bene del Paese. E siccome Elisabetta II non parla mai, perché il suo ruolo istituzionale prevede il silenzio, quelle rarissime volte che le fugge una parola, è sempre un messaggio molto forte alla nazione. Lo fece, per esempio, con il referendum della Scozia, per tenere unito il regno.
Non ne avevano parlato, alla radio, dell’appello di Elisabetta? Ho chiesto a mia madre. Certo è meno spettacolare dell’elicottero sul prato del palazzo, ma perché la Brexit viene sempre raccontata in Italia con questa grande enfasi negativa, con un allarmismo e un sensazionalismo che non rispecchia mai la realtà?
Un’altra storia fantastica è quella dei supermercati: code per approvvigionarsi in caso di uscita traumatica, con conseguente blocco delle frontiere e quindi gente che fa scorte di cibo e beni di prima necessità. Qualche fanatico l’avrà anche fatto, ma è come dire che la Terra è piatta perché una manciata di idioti si ritrovano a convegno per discuterne. Brexit è stato uno di quei grandi errori in cui la storia incappa per accidente. Ma ormai ci siamo e cerchiamo di farci tutti meno male possibile. Invece in Europa c’è questo sottofondo vendicativo, una compiacimento punitivo che non giova a nessuno. Theresa May ha preso un’altra porta in faccia a Westminster? Ben le sta, così ci pensavano prima questi supponenti di inglesi. Una porta in faccia anche a Bruxelles? Meglio, così vedranno come si sta male fuori dall’Ue. Con un corollario di frasine, che ci riportano diritti diritti agli Anni Trenta e a una certa retorica fascista: chi si credono di essere, questi inglesi? Perfidi albionici, non ci sono più Francis Drake né la regina Vittoria, né l’Impero. Che finiscano nella pece e questo valga da monito per tutti gli altri con velleità anti-europeiste, in Italia e altrove.
Ma ci dimentichiamo che in Inghilterra vivono quasi un milione di italiani. Sono per lo più giovani, studenti e non, cervelli o meno, molte braccia anche, di camerieri, cuochi e commessi. Tante famiglie, che qui hanno trovato un futuro e un lavoro ben pagato, quando in Italia erano disoccupati o veniva loro offerto uno stipendio da fame. Perché comunque, nonostante questo clima di incertezza che ha rallentato la crescita dell’economia inglese, gli stipendi nel 2018 sono cresciuti del 14 per cento (secondo l’ultimo report dell’Ons, Office for National Statistic, l’Istat di qui), l’incremento più alto di tutto il decennio. Augurando all’Inghilterra di finire male, non vi viene in mente che finiranno male anche i nostri concittadini? Volete che tornino in Italia, a casa dalla mamma, a ingrossare le frotte dei richiedenti reddito di cittadinanza? E che dire dell’export? Delle aziende? Delle migliaia di attività italiane qui? Qualunque cosa accada al Regno Unito dopo la Brexit, ci riguarda direttamente, che ci piaccia o no.
Altro discorso è il clima di xenofobia che si respira in giro. Ma questa è tutta un’altra storia, di cui parleremo un’altra volta.

Repubblica 11.2.19
Il reportage
Le conseguenze del referendum
Viaggio al confine della Brexit dove le paure degli irlandesi incrociano il futuro dell’Europa
Lo stallo della politica un’autobomba e il ritorno delle fratture nella società
Siamo andati a vedere che cosa succede se torna la frontiera
di Antonello Guerrera


CONFINE IRLANDA- IRLANDA DEL NORD Davanti al tribunale, un operaio su una gru ripara i danni.
L’autobomba del 19 gennaio a Derry, rivendicata dall’ennesima "Ira", ha riaperto le cicatrici di una fragile pace. Nessuna vittima, ma il gesto è sconvolgente, qui nella sanguinosa storia delle due Irlande della Bloody Sunday. Secondo una giornalista locale, «da anni stanno ricrescendo l’odio e la violenza settaria in città tra cattolici e protestanti, soprattutto i più giovani. Ma l’incertezza della Brexit aggrava la situazione». In Irlanda del Nord, a cento anni esatti dallo scoppio della guerra che provocò la prima indipendenza della Repubblica d’Irlanda e i confini attuali, la maggioranza della popolazione (55,7%) ha votato contro la Brexit, mentre a favore il 65% degli unionisti e il 59% dei protestanti e solo il 14% del partito repubblicano Sinn Féin e il 15% dei cattolici. C’è anche un vuoto politico: da due anni l’esecutivo e il Parlamento locali sono bloccati dopo le dimissioni da vicepremier dell’ex colonnello dell’Ira, Martin McGuinness, poi morto nel 2017; e dallo scontro sulla "prima ministra" nordirlandese Arlene Foster, leader del partito unionista Dup stampella di Theresa May a Westminster, per un’inchiesta di fondi pubblici. La Brexit, invece, è inchiodata sul nodo del confine irlandese. La fluidità e invisibilità di quest’ultimo sono il pilastro della pace del Venerdì Santo (1998) dopo 3.500 morti nei "Troubles" scatenati negli anni ‘60 contro le discriminazioni subìte dai cattolici al Nord e dall’imperitura voglia di un’Irlanda unita. Dopo la Brexit, un confine andrà rimesso, ma come? E dove? Il dilemma pare irrisolvibile.
Le due Irlande hanno poi 208 "border crossings" lungo 499 chilometri di confine, cioè punti dove si può attraversarlo, mentre, per esempio, la frontiera orientale dell’Ue solo 120. Così siamo andati lungo il confine a raccontare le storie di chi vive "in bilico", di chi ha paura e di chi crede che le tenebre del passato non torneranno.

Repubblica 11.2.19
"Sterlina in calo, dazi e lunghe code in auto la dogana ci porterebbe indietro di 30 anni"
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MUFF (IRLANDA) Sulla strada che da Derry porta a Muff, estremità settentrionale del confine con l’Irlanda, si addensano stormi di corvi, mentre le vetture sfrecciano rapidissime, come se volessero scappare da un’area a rischio. Qui troviamo Áine Mullan, 41 anni, titolare del birrificio artigianale "Boghopper": «Subito dopo il referendum la sterlina ha perso valore e in questa regione molte persone lavorano in Irlanda del Nord ma vivono qui in Donegal (Irlanda), i loro stipendi si sono ridotti anche del 10-15%, devono pagare il mutuo in Irlanda in euro e magari risparmiano sulla birra. Se qui torna un "hard border" e io lo ricordo bene negli anni Ottanta quando ero bambina, provocherà disagi e lunghe file di veicoli». Seppur gestisca solo una piccola impresa locale, una frontiera commerciale per Áine sarebbe un disastro: «Le bottiglie arrivano attraverso il Regno Unito, il materiale per impacchettarle pure. Anche se la maggior parte del luppolo proviene dagli Stati Uniti o dalla Nuova Zelanda, questo passa sempre per il Regno Unito, perché è la via delle nostre materie prime. Perciò la Brexit per noi può essere un problema in termine di costi, per non parlare delle implicazioni di eventuali dazi».

Repubblica 11.2.19 
Mio nonno comprò queste terre nel 1910 spero proprio di non rivedere i checkpoint"

COSHQIN ( IRLANDA DEL NORD) — BRIDGE END ( IRLANDA)
A una decina di chilometri da Áine c’è la fattoria di David Crockett, a metà tra Irlanda del Nord e Irlanda. «Mio nonno comprò queste terre nel 1910», racconta il 70enne Crockett, «all’epoca era parte del Regno Unito, poi nel 1922 è stata divisa. Allora, proprio come adesso con la Brexit, nessuno sapeva che cosa sarebbe successo. Poi il confine è comparso da un giorno all’altro. Spero e credo che non tornino i checkpoint». «La svolta è stata quando Regno Unito e Irlanda sono entrati in Europa», continua, «magari rimanessimo in Ue, ora l’Irlanda è unita, ma in Europa… un "hard border" non conviene a nessuno». Prima di morire, il padre del signor Crockett, allora 94enne, è voluto andare a tutti i costi a votare al referendum per restare in Ue, nonostante la salute terminale e la sedia a rotelle: «Lui, come me e come chi vive al confine, sa la differenza tra essere in Europa ed esserne fuori». Qui vicino, a un chilometro dalla casa del signor Crockett, il 24 ottobre del 1990 il cuoco Patsy Gillespie venne costretto dall’Ira a guidare un furgone carico di esplosivo verso i soldati britannici al confine. «Lì c’era un checkpoint fisso», ricorda Crockett, «ci fu una autobomba fortissima, uccise 6-7 soldati, vennero giù le porte e il tetto di casa».

Repubblica 11.2.19"La mia città ha avuto il record di bombe ora non provate ad ammazzare le imprese"

STRABANE ( IRLANDA DEL NORD) Strabane è una delle città più martoriate dai Troubles e dall’Ira.
Suo l’atroce record della "più bombardata d’Europa" negli Anni ’70 e ’80. Qui oggi c’è il quartiere generale di O’Neills, famosa azienda di articoli sportivi nel Regno Unito che, dall’altra parte del confine, produce praticamente tutte le magliette degli sport irlandesi, come il Gaelic Football: «Bisogna arrivare a una soluzione», dice il patron Kieran Kennedy, un idolo da queste parti per i posti di lavoro che sforna da 40 anni dopo la catastrofe del conflitto civile.
«Il No Deal — prosegue — sarebbe letale per tutti gli imprenditori, anche quelli grandi come noi: abbiamo una catena di produzione che attraversa il confine fino a otto volte per un singolo prodotto. E non possiamo permetterci ritardi al confine, altrimenti salta tutta la catena. La tecnologia non può sostituire in alcun modo la frontiera, gli europei mi hanno assicurato che non tornerà. La soluzione è il piano May con il backstop (la controversa clausola della Ue per mantenere il confine fluido) o far sì che Nordirlanda, Scozia e Galles rimangano nell’unione doganale e in parte nel mercato unico, come vogliono i laburisti. Punto».

Repubblica 11.2.19"Ero un paramilitare, sono sopravvissuto non possiamo tornare a quell’inferno"

PETTIGO ( IRLANDA — IRLANDA DEL NORD) Ottant’anni, la sua officina è il primo edificio della parte nordirlandese di Pettigo, un piccolo villaggio che si trova sia in Irlanda che in Irlanda del Nord: il confine sono un fiumiciattolo e il ponte. Mervyn Johnston è protestante, ex pilota automobilistico, poi paramilitare dell’Ulster Defence Force negli anni Settanta e Ottanta, oggi meccanico: «Sono stati tempi drammatici, potevi essere sparato o morire in un’esplosione in ogni istante, per fortuna sono vivo, ma l’azienda della mia famiglia è stata fatta saltare in aria con quattro bombe incendiarie. Nell’officina dove siamo c’era un ufficio postale, qui è morto un uomo che ha provato ad azionare una bomba. Hanno sparato anche a me una volta: uno dell’Ira mi ha chiesto come mi chiamassi, ha tirato la pistola e ha sparato. Mi ha colpito solo al braccio. Sono stato fortunato, molti miei amici sono morti.
Non sappiamo cosa accadrà adesso, ma non torneremo a quell’inferno». Dall’altra parte del ponte, il primo edificio è l’ufficio postale irlandese. Lo gestisce James, 75 anni, cattolico. Mostra alcuni moduli: «Le richieste di passaporto irlandese sono cresciute sei volte tanto dal 2016».

Repubblica 11.2.19"Ma ora dobbiamo avere la possibilità di votare anche per unificare il Paese"

AUGHNACLOY ( IRLANDA DEL NORD) «L’unità dell’Irlanda non è più un sogno, ora ci vuole un referendum sul confine». Michelle Gildernew, 48 anni, è la seconda donna del partito nazionalista irlandese (ex braccio politico dell’Ira) eletta a Westminster, anche se come tradizione di Sinn Féin non occupa il seggio per protesta contro Londra. È amatissima dalla folta comunità cattolica locale, qui nel distretto elettorale nordirlandese di Fermanagh e Tyrone, e ora il suo sogno di una vita potrebbe diventare realtà: «Le persone devono avere l’opportunità di votare e esprimersi sull’unione alla quale preferirebbero appartenere: l’Unione Europea o l’Unione con la Gran Bretagna. La Brexit polarizza le nostre comunità. Dobbiamo far sì che qui la vita continui come sinora, dal 1998 il confine è stato smantellato, non possiamo permettere in alcun modo che venga reinstallato, perché altrimenti potrebbe tornare la violenza, anche se l’Ira non esiste più. In passato, anche io ho subito varie minacce di morte, ho perso molti cari nel conflitto. L’Irlanda unita non è solo un sogno, ma un’aspirazione politica sancita dalla pace del Venerdì Santo.
L’obiettivo ora è un referendum, per diventare un Paese tollerante, all’avanguardia e unito».

Repubblica 11.2.19"Un muro qui stravolgerebbe le nostre vite la Ue non può difenderci, tocca a noi"

RAVENSDALE ( IRLANDA - IRLANDA DEL NORD) «Siamo pronti a tutto, anche ad abbattere fisicamente i checkpoint e le frontiere che verranno». Damian McGennity, irlandese, 45 anni, quattro figli, impiegato all’ufficio postale di un villaggio vicino e agricoltore, si fa trovare in un albergo al confine, alla Junction 20 dell’autostrada nei pressi di Newry. Qui c’è ancora una rarissima "casetta" dei soldati britannici all’ex frontiera e a metà gennaio c’è stata una clamorosa protesta degli abitanti locali "contro un nuovo muro": «Non torneremo mai al passato», racconta, «non lo permetteremo: un confine qui stravolgerebbe le nostre vite e la nostra economia e poi finalmente ci sentiamo in un’Irlanda unita: nonostante i due Stati, possiamo avere entrambi i passaporti, lavorare e vivere dove ci pare.
Siamo in pace adesso, cambiare è inaccettabile, questo sarebbe il nostro "muro di Berlino", potrebbe tornare l’incubo della guerra dopo un processo di pace meraviglioso, non possiamo dare il fianco agli estremisti che non hanno sostegno nella nostra comunità ma che potrebbero tornare a colpire. Temo che l’Unione Europea non potrà aiutarci in questo imminente disastro. Toccherà a noi difenderci».

Repubblica 11.2.19
I Democratici Usa
La riscoperta di Bernie Sanders
di Federico Rampini


La marcia dei democratici Usa verso la Casa Bianca riparte dalle diseguaglianze. Il tema dell’eccessiva concentrazione di ricchezze torna in primo piano come ai tempi di Occupy Wall Street, dopo la crisi del 2008. Forse un giorno la storia ricorderà un singolo investimento immobiliare come la goccia che fece traboccare il vaso. È l’acquisto di un appartamento al 220 Central Park South. Ha polverizzato record perfino per Manhattan: 238 milioni di dollari, pagati a gennaio dal finanziere Kenneth Griffin di Chicago.
O forse a scatenare una reazione è stata un’altra vicenda newyorchese, l’annunciata costruzione del secondo quartiere generale di Amazon. Proprio mentre Jeff Bezos denuncia di essere "sotto ricatto ed estorsione" da parte di un tabloid vicino a Donald Trump (per le foto hard inviate alla sua amante), l’accusa di estorsione fiscale riecheggia contro di lui: a proposito della nuova sede progettata a Long Island City nel quartiere di Queens. Amazon, regina dell’economia digitale che vale 780 miliardi di dollari in Borsa, ha strappato al Comune e allo Stato di New York sgravi sulle imposte locali per 3 miliardi: il conto lo paghiamo noi contribuenti normali, che non abbiamo quella capacità di pressione. Intanto New York ha servizi pubblici in declino — una metropolitana da Terzo mondo — e vede crescere l’esercito degli homeless.
La misura è colma, almeno secondo i nuovi leader della sinistra. Elizabeth Warren, la senatrice del Massachusetts candidata alla nomination democratica, propone una tassa patrimoniale del 2% dai 50 milioni di dollari di ricchezza in su. Colpirebbe 75.000 famiglie, una frazione minuscola in una nazione di 315 milioni di abitanti. Ma proprio perché la ricchezza è spaventosamente concentrata in poche mani, la sua patrimoniale può generare un gettito di 2.750 miliardi in un decennio.
Bernie Sanders, il senatore del Vermont che si proclama socialista e non esclude di ricandidarsi come nel 2016, vuole imposte di successione al 45% dai 3,5 milioni di eredità in su. Stima che colpirebbe solo ottomila famiglie, con un gettito di 315 miliardi in dieci anni. Tra le paladine di nuove tasse sui ricchi c’è anche la giovane deputata newyorchese Alexandria Ocasio- Cortez, una star della nuova sinistra radicale. La neo- eletta propone di alzare l’aliquota marginale dell’imposta sul reddito a carico di chi guadagna più di dieci milioni di dollari all’anno, portandola dall’attuale 37% al 70%. Colpirebbe solo 16.000 famiglie ma il gettito anche in questo caso non sarebbe irrisorio: 350 miliardi.
Donald Trump fiuta un’opportunità per lui: nel suo discorso sullo Stato dell’Unione una settimana fa ha denunciato "chi invoca il socialismo in America". In altre occasioni ha paragonato l’ala sinistra del partito democratico all’autocrate Maduro che ha ridotto alla fame il popolo del Venezuela. È un assaggio della sua linea di attacco, se nel 2020 si troverà di fronte un rivale o una rivale dai propositi radicali. Socialismo è una parola che fa ancora paura agli americani, trent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino? In realtà un sondaggio della Fox News rivela che perfino una maggioranza dei repubblicani è favorevole ad alzare le tasse su chi guadagna oltre dieci milioni l’anno. Sanders si considera l’erede di una tradizione anti- monopolista e di una battaglia contro le oligarchie del denaro che risale a un grande presidente repubblicano, Ted Roosevelt. In quanto all’aliquota marginale Irpef ventilata dalla Ocasio-Cortez, era in vigore sui più ricchi tra le presidenze di Eisenhower ( repubblicano) e Kennedy ( democratico), anni Cinquanta e Sessanta, Età dell’Oro che vide una crescita economica record.
L’ala sinistra dei dem dovrà prima convincere il proprio partito. Il New York Times ricorda che dai tempi di Bill Clinton, la leadership del partito ha abbracciato il pensiero unico neoliberista. «Dichiaro la fine dell’era del Big Government » ( cioè lo " Stato grosso"), disse Clinton negli stessi anni in cui firmava la deregulation finanziaria e i trattati di libero scambio. Poi venne lo shock del 2008; gli slogan di Occupy contro l’un per cento. Ma quel movimento ebbe vita breve, più duratura e potente fu la reazione contro il salvataggio dei banchieri da parte del populismo di destra, quel Tea Party che spianò la strada a Trump. La contraddizione è ai massimi proprio qui a New York. I maxi- sussidi fiscali concessi ad Amazon sono stati sostenuti da un potere locale tutto democratico, il sindaco Bill de Blasio e il governatore Andrew Cuomo.

Repubblica 11.2.19
Israele
Un brutale assassinio riaccende la crisi con i palestinesi
di Vincenzo Nigro


In piena campagna elettorale israeliana il barbaro omicidio di una giovane ebrea di 19 anni da parte di un giovane palestinese rischia di innescare una crisi profonda fra Israele e l’Autorità nazionale palestinese. Ori Ansbacher, figlia di un rabbino, giovedì notte è stata ritrovata barbaramente seviziata e uccisa in un bosco alle porte di Gerusalemme. L’assassino è stato arrestato a Ramallah. Arafat Irfaiya, originario di Hebron, era schedato dalla polizia come autore in passato di atti minori di terrorismo. Nella sua famiglia ci sono sostenitori di Hamas: sembra sia stato rintracciato grazie al Dna lasciato sul luogo dell’omicidio. Già prima che lo Shin Bet lo definisse un "atto terroristico", il Paese si è infiammato. La ministra della Giustizia Ayelet Shaked, il ministro della Polizia Gilad Erdan e altri deputati hanno chiesto la pena di morte per il palestinese.
Il premier Benjamin Netanyahu vuole varare una legge per congelare i dazi doganali che ogni mese Israele versa all’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen. Israele fa sbarcare nei suoi porti merce diretta alla Anp, riscuote i dazi e poi li versa ai palestinesi.
Netanyahu vuole il congelamento perché l’Anp versa dei contributi alle famiglie dei palestinesi che commettono atti di "ribellione" contro Israele, quindi anche atti di terrorismo. E l’assassino di Ori potrebbe farsi passare per un "combattente" proprio per avere i soldi dell’Anp.

La Stampa 11.2.19
Erdogan sfida Xi sugli uiguri
“Chiudere subito i campi”
di Marta Ottaviani


Tensione fra Turchia e Cina e, come altre volte in passato, ci sono di mezzo gli uiguri, la minoranza musulmana che parla una lingua derivante dall’ottomano e che vive nello Xinjiang, una regione nella parte Nord-occidentale del Paese asiatico. 
Il casus belli che ha fatto scoppiare il nervosismo fra i due governi è la presunta morte, smentita da Pechino, del poeta e musicista Abdurehim Heyit, che ieri è poi apparso in un video diffuso dal governo, dopo che Ankara aveva reiterato le consuete, dure accuse contro il colosso asiatico. 
Secondo la Turchia, la Cina detiene in strutture simili a campi di concentramento un milione di persone appartenenti all’etnia uigura. Prima che il video venisse diffuso, Hami Aksoy, il portavoce del ministro degli Esteri, aveva dichiarato che l’artista era stato torturato fino a venire ucciso e che le persone rinchiuse in questi campi subiscono veri e propri lavaggi del cervello.
La condanna di Heyit
Abdurehim Heyit si trova in una di queste strutture da due anni, dopo essere stato condannato a otto anni di reclusione per alcuni suoi componimenti. Il destino del popolo uiguro, per la Turchia, sarebbe «un imbarazzo per l’umanità». Per questo, la Mezzaluna, sta facendo appelli ad altri Stati e pressioni sul Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, perché intervengano contro quella che è una «tragedia umanitaria».
La Turchia segue con particolare attenzione le sorti della minoranza uigura per motivi etnici, linguisti e religiosi. Il popolo uiguro è il parente più prossimo delle popolazioni che abitavano l’Asia Centrale e che migrarono verso l’attuale Turchia. Il presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, ha più volte preso posizione contro le decisioni di Pechino che, dopo gli scontri etnici degli ultimi anni, ha messo la minoranza sotto stretta sorveglianza, radunandola in campi di «rieducazione». L’intento ufficiale è quello di tenerli lontani da organizzazioni terroriste. Ma secondo la Turchia è in corso un vero e proprio tentativo di assimilazione della popolazione, sopprimendo le loro peculiarità linguistiche e religiose. 
Il portavoce Aksoy, ha comunque voluto sottolineare che i rapporti fra Turchia e Cina «sono generalmente buoni». Pechino è uno dei partner commerciali principali e proprio dall’Anatolia passerà la Road Belt Initiative, la Via della Seta del XXI secolo, destinata a modificare gli scambi nei prossimi decenni.

La Stampa 11.2.19
Ritrovata una città perduta in Sudafrica. Ed è molto più grande del previsto

Le immagini qui
di Noemi Penna

Non è così antica. Ma nonostante tutte se ne erano perse completamente le tracce. Dopo anni di ricerche, grazie all'impiego della tecnologia laser, gli archeologi hanno ritrovato la fiorente città di Kweneng all'interno di quello che oggi è la riserva naturale di Suikerbosrand, in Sudafrica.
Siamo a 50 chilometri da Johannesburg e l'insediamento è esistito per circa quattrocento anni, per poi essere distrutto e abbandonato intorno al 1820, probabilmente a causa delle guerre civili. Qui risiedevano 10 mila persone di etnia Tswana e i loro discendenti da allora lottando per far riconoscere Kweneng come patria.
Alcune rovine di Kweneng erano già state individuate. Ma solo ora è stato possibile scoprire molto di più sul suo passato e la sua estensione, decisamente maggiore rispetto a quanto si pensava. «Dai risultati ottenuti grazie ai laser, pare che Kweneng fosse divisa in tre quartieri distribuiti su 20 chilometri quadrati, con due grandi recinti in pietra che probabilmente venivano impiegati per il bestiame», spiega il professor Karim Sadr.
La Witwatersrand University aveva individuato nella zona delle strutture pre-coloniali durante un'indagine aerea già nel 1968. «Ma erano molto meno di quanto siano effettivamente presenti». Questo perché «la città è nascosta da uno spesso strato di vegetazione». Ora però «abbiamo trovato oltre 900 strutture, e molti indizi testimoniano il ruolo importante che aveva questa città nell'economia locale e non solo».
Grazie ai dati forniti dal lidar - tecnica di telerilevamento che permette di determinare la distanza di un oggetto o di una superficie utilizzando un impulso laser - è stato anche possibile ricostruire in 3D la città perduta, creando una nuova mappa topografica della zona e «riempiendo un enorme divario storico, dato che la storia pre-coloniale dell'Africa meridionale non ha tracce scritte».

La Stampa 11.2.19
La prima globalizzazione
Da giovedi a CagliariIl Mediterraneo di 4000 anni fa un mondo interconnesso con la Sardegna come crocevia
La mostra è promossa da Regione Sardegna, Polo museale della Sardegna Comune di Cagliari, Fondazione di Sardegna, Museo dell’Ermitage
di Giorgio Ieranò


Era un mare su cui correvano gli uomini e le merci, le tecniche e le idee. Il baricentro di un mondo interconnesso e globalizzato già duemila anni prima di Cristo. Una rete di traffici collegava le coste della Spagna alle rive del Mar Nero, i porti della Siria a quelli del Nord Africa. Negli scali del Mediterraneo si commerciavano olio e cereali, ceramiche e metalli. Ma i marinai condividevano anche racconti e immagini, mitologie e favole. Fondamentale, nelle rotte marittime dell’Età del bronzo, fu il ruolo svolto dalle grandi isole mediterranee sia come giacimenti di materie prime sia come scali commerciali. È il caso di Creta, innanzitutto, centro di irradiazione di una civiltà marinara che i greci riassunsero poi nella figura del «talassocratore» Minosse. E poi di Cipro, perno del commercio mediterraneo, snodo cruciale tra il Levante e la Grecia. Ma è il caso anche della Sardegna che gli scavi archeologici stanno sempre più rivelando come un’isola integrata in un sistema di scambi internazionali e non così periferica come poteva apparire un tempo.
Un relitto rivelatore
Proprio la Sardegna ospita ora una mostra che racconta la «proto-globalizzazione» mediterranea di quattromila anni fa: «Le Civiltà e il Mediterraneo», che si terrà dal 14 febbraio al 16 giugno nelle due sedi del Museo Archeologico Nazionale e del Palazzo di Città di Cagliari. Saranno esposti oltre 550 pezzi archeologici, molti dei quali prestati da musei stranieri (in primis l’Ermitage di San Pietroburgo e il Museo di Preistoria di Berlino). Reperti che permetteranno un confronto diretto tra la civiltà nuragica sarda e civiltà come quelle della Grecia micenea o del Caucaso: mondi in apparenza lontanissimi ma in realtà più vicini di quanto comunemente si pensi.
La comprensione di quanto il Mediterraneo del II millennio a. C. fosse uno spazio integrato è in realtà acquisizione abbastanza recente. Solo nel 1982, per esempio, un pescatore di spugne diciassettenne ha scoperto per caso il relitto di una nave dell’Età del bronzo nelle acque di Uluburun, al largo della Turchia. La scoperta è importantissima perché ci restituisce una fotografia dal vivo del commercio mediterraneo nell’età del bronzo. La nave, di legno di cedro, lunga circa 15 metri e affondata intorno al 1300 a. C., si è conservata con tutto il suo carico che comprende oggetti delle più diverse provenienze: monili egiziani in oro e argento, uno scarabeo con il sigillo della regina Nefertiti, statuette di origine siro-palestinese, sigilli mesopotamici, spade di bronzo di fattura micenea, vasi e ceramiche, zanne di elefante e denti di ippopotamo.
Prima di fare naufragio, il capitano aveva evidentemente toccato diversi porti del Mediterraneo. Tra gli scopi principali del suo viaggio doveva esserci l’approvvigionamento di metalli. Sulla nave erano stivate ben dieci tonnellate di rame: 348 lingotti a forma di pelle di bue. Questa forma era diffusa in tutto il Mediterraneo. Chi visiterà la mostra cagliaritana troverà lingotti analoghi scoperti però in Sardegna. Forse, in entrambi i casi, la provenienza è cipriota. Cipro era infatti la grande miniera di rame del Mediterraneo. Poi il bronzo si produceva legando il rame allo stagno che, a sua volta, arrivava dagli altopiani dell’Asia, portato dai mercanti assiri fino all’Anatolia, oppure scendeva dal Nord Europa alle rive del Mediterraneo sui barconi che percorrevano i grandi fiumi.
La leggenda del Vello d’oro
Nella seconda metà del secondo millennio a. C. tra i maggiori protagonisti del commercio mediterraneo ci furono i greci micenei, la cui civiltà è testimoniata da diversi oggetti presenti in mostra. Anche in questo caso, solo grazie a ricerche archeologiche relativamente recenti la capillarità della rete commerciale micenea sta emergendo in tutta la sua articolazione. Proprio in Sardegna, nel nuraghe di Antigori, sono stati trovati così tanti frammenti di ceramica micenea da far pensare ad alcuni studiosi che già 1300 anni prima di Cristo alcuni artigiani greci si fossero trasferiti nell’isola. I micenei, probabilmente, navigavano di cabotaggio lungo la costa dell’Africa settentrionale e da lì risalivano verso la Sicilia, la Sardegna e poi fino alla Spagna.
Ma la mostra, soprattutto grazie ai reperti prestati dall’Ermitage, apre una finestra anche verso Oriente. Figurine di uomini e animali, gioielli e asce trovati nelle tombe principesche del Caucaso suggeriscono singolari assonanze e imprevedibili analogie con altri oggetti provenienti invece dal bacino del Mediterraneo. Somiglianze solo casuali? Chissà. Di certo i greci hanno iniziato a frequentare presto le sponde asiatiche del Mar Nero. E, secondo una leggenda marinara forse più antica della stessa Odissea, è proprio verso il Caucaso che l’eroe Giasone dirige la prua della nave Argo, per andare in cerca del favoloso Vello d’oro.

Corriere 11.2.19
In Puglia
«Noi archeologi offriamo le cene preistoriche»
di A.Gr


«Serviamo cibo che si presuppone si consumasse sei mila anni fa». Mimmo Lorusso, speleologo e guida turistica, non scherza. Spiega come ha messo in pratica in Puglia, con l’associazione «Archeoluoghi», il turismo esperienziale. «La nostra terra, l’alta Murgia (Bari) è ricca di siti. Con l’aiuto di archeologi abbiamo realizzato le cene preistoriche».
Come avete fatto?
«Dai reperti, cocci di terracotta, abbiamo riprodotti gli stessi vasi in cui mangiavano gli uomini sei mila anni fa. E sulla base di altre ricerche, supposto quale fosse la loro dieta».
Che proponete ai turisti che visitano i siti.
«Esatto».
Il menu?
«Carne di pecora bollita, maiale stufato, orzo e farro, grano della zona e cicoria. Un vero successo. Abbiamo dovuto rinunciare a molte prenotazioni».

Repubblica 11.2.19
La scelta di Meryl Streep "Volevo questa serie tv. È la mia droga"
L’attrice americana cede alle lusinghe del piccolo schermo ed entra nel cast della seconda stagione di "Big little lies", storia corale tutta al femminile con Nicole Kidman, Reese Witherspoon e Laura Dern
di Filippo Brunamonti


PASADENA ( LOS ANGELES) Ancora più bugie, per favore». Lo ha chiesto Meryl Streep ai produttori, prima di iniziare a girare la seconda stagione di Big little lies, in onda a giugno su Sky (disponibile sia su Sky Atlantic che su Sky on Demand) in contemporanea con Hbo. «Ho sempre amato Big little lies. È la mia droga», sorride Meryl quando la incontriamo al Langham Hotel.
Alla fine, anche "la più grande attrice vivente", tre premi Oscar, nomination da Guinness dei primati (ben 21), il remake di Piccole donne in arrivo, ha ceduto alle lusinghe di una serie tv: «È stata una scelta personale» precisa lei. «Quando ho lavorato per la tv in passato mi sembrava che non fossero i tempi giusti.
Stavolta, invece, ho sentito di avere un pubblico pronto, dalla mia parte. Volevo immergermi proprio in quel mondo (tratto dal best seller di Liane Moriarty, ndr) in cui il non detto, il non noto e il non mostrato si mescolano, un microcosmo di donne che tocca la vetta dell’ambiguità». Ad accoglierla, cinque star sfigurate dai traumi e dalle bugie della prima stagione: Laura Dern, Zoë Kravitz, Reese Witherspoon, Nicole Kidman e Shailene Woodley. Meryl Streep interpreta Mary Louise, la suocera di Celeste (Kidman), una parte scritta apposta dagli autori con Meryl in testa, senza sapere ancora se avrebbe detto sì. Non a caso il vero nome della diva all’anagrafe è Mary Louise. «Il mio personaggio affronta come può le sue carenze nel ruolo di genitore e si accorge di non poter tornare indietro e aggiustare le cose. Ho sentito che, con questo ruolo, avrei potuto dare qualcosa di importante a Big little lies. Sarete voi a giudicare». E aggiunge: «I segreti di famiglia flirtano con il mistero della vita. Straordinario che una serie tv, coi suoi toni da fiaba e da noir, riesca a mostrarci il confine tra quello che sappiamo e quello che non sappiamo delle persone». Tra le produttrici esecutive, Kidman e Witherspoon sono state le prime a credere che la storia di Big little lies non si sarebbe conclusa nel 2017.
«Quando il pubblico ha reclamato a gran voce il nostro ritorno e la serie ha fatto incetta di premi, ci siam dette: facciamolo!», racconta Kidman, «Moriarty ha scritto un romanzo che è come una lettera aperta alle donne, lo puoi chiudere e riaprire e farne ciò che vuoi». Il creatore della serie, David E. Kelley, ha cominciato il nuovo script domandandosi: "La bugia avrà mai una sua vita?". Le cinque femmes fatales della serie sono la risposta. Per Streep gli episodi della serie sono «un atto provocatorio di emancipazione, una riflessione sul potere maschile e su quello femminile».
Quasi quanto la sua scelta di fare l’attrice: «Tutti si sorprendono quando mi sentono cantare in Mamma mia! o Into the woods ma mescolare le arti è una gioia che mi porto dentro da quando avevo sedici anni». Oltre a Big little lies, Meryl, settant’anni a giugno, ha un’altra dipendenza. E si chiama Barbra Streisand. «Ha sempre dichiarato di essere, prima di tutto, un’attrice che canta, e non una cantante che recita. I suoi testi sono piccole storie drammatiche». Leader dei movimenti per l’uguaglianza, Meryl pensa ci sia ancora bisogno di storie per "superfemmine"?
Occhi accesi e asticelle sul mento: «Sentite, le donne sono più libere e determinate rispetto a quando?
A quarantamila anni fa, può darsi.
È un’emancipazione abbastanza recente. Attenzione a non sopravvalutare l’effettiva libertà delle donne oggi. Solo perché abbiamo più voce in capitolo e camminiamo in vestiti di seta frusciante o pantaloni, non vuole dire che ci siamo lasciate alle spalle il XX secolo». E a sua figlia, Mamie Gummer, dà mai consigli?
«È un’attrice di talento, onesta e dotata di ironia e senso del dovere. Se le dico qualcosa, vedo le parole spiccare il volo dalla mia bocca, attraversare l’aria e restare impigliate nei suoi capelli. Ecco che fine fanno i consigli di una madre. Ed è giusto così. Non occorre parlare, basta osservare: i figli sono i primi spettatori di noi attori». I primi a scoprire le nostre piccole, grandi bugie.

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