domenica 10 febbraio 2019

Il Fatto 10.2.19
Il 170esimo anniversario dell’“immortale fantasma” della Repubblica romana
di Massimo Novelli


Il 9 febbraio del 1849, “a un’ora del mattino, si proclamavano il decadimento del potere temporale del Papa, e, conseguenza logica, la Repubblica. Da chi? Dall’Assemblea Costituente degli Stati romani. D’onde esciva la Costituente? Dal voto universale”. Così Giuseppe Mazzini, nel settembre del 1849, scriveva ai ministri di Francia, ricordando la nascita della Repubblica Romana che, agli inizi di luglio, era stata annientata dalle truppe mandate da Luigi Napoleone Bonaparte, futuro Napoleone III. Il 3 di luglio, dalla loggia del Campidoglio, era stata promulgata la Costituzione, la più avanzata d’Europa, che, come sarebbe stato scritto, dette “al popolo leggi giuste ispirate alla più pura democrazia”.
Durò poco l’avventura della Repubblica, con cui l’Italia, osservò Leone Ginzburg in pieno fascismo, “cominciò a scoprire la propria vocazione unitaria attraverso i giovani accorsi a Roma da ogni parte d’Italia a sacrificarsi con tranquilla consapevole serenità per la patria comune”. Dopo la fuga a Gaeta di Pio IX, spaventato dal programma liberale e nazionale propostogli, la giunta provvisoria di governo convocò l’assemblea costituente. Il 9 febbraio venne proclamata la repubblica e nominato un comitato esecutivo costituto da Carlo Armellini, Mattia Montecchi e Aurelio Saliceti, che a marzo cambiò con l’ingresso di Mazzini e di Aurelio Saffi. Alla fine d’aprile, a Civitavecchia, sbarcò il contingente francese inviato da Luigi Napoleone, presidente della Repubblica di Francia. L’assemblea della capitale decise di respingere i francesi e il corpo di spedizione borbonico, inseguito da Garibaldi. S’iniziò la gloriosa e drammatica difesa di Roma, che sarebbe crollata il 4 luglio. “La Repubblica romana è caduta”, scrisse Mazzini, “ma il suo diritto vive, immortale fantasma che sorgerà sovente a turbarvi i sogni. E sarà nostra cura evocarlo”.

La Stampa 10.2.19
Una bimba cade dal quinto piano
La sorella la prende al volo: è salva
di Monica Serra


Salva per miracolo dopo un volo di quindici metri. Afferrata dalla sorellastra di 17 anni che ha avuto la prontezza di lanciarsi verso la bimba in caduta libera ed evitare il peggio.
Si è conclusa con un grande spavento la disavventura che, ieri pomeriggio, ha visto protagonista una bambina di tre anni, precipitata dalla finestra del bagno di un appartamento al quinto piano di uno stabile al civico 111 di via Ornato.
La caduta durante un gioco
Siamo in un contesto popolare, alla periferia Nord di Milano. Davanti al palazzone di piastrelle marroni e verdi, sette piani, c’è solo il prato verde e qualche cespuglio. Proprio lì, poco dopo le 15,30, si è sfiorata la tragedia.
I genitori delle due sorelle , di origine sudamericana, erano fuori per lavoro e avevano affidato le figlie alle cure della zia. In casa c’erano anche due cugine adolescenti. Le ragazze scherzavano e si divertivano insieme. La più piccolina, per scherzo, si è chiusa a chiave in bagno e non è più riuscita ad aprire la porta da sola. Così la sorella più grande le ha passato una busta di plastica sotto la porta, dicendole di mettervi dentro la chiave e di lanciarla giù, dalla finestra, che lei l’avrebbe raccolta e sarebbe tornata ad aprire. Subito la 17enne si è precipitata nel cortile con le due cugine. Mai avrebbe immaginato che la bimba, sporgendosi dalla finestra, perdesse l’equilibrio e cadesse nel vuoto. Istanti di terrore tra le urla delle ragazze. Ma lei, la diciassettenne, che era proprio sotto la finestra, senza esitazione si è lanciata nel tentativo di prendere «al volo» la sorellina, e le ha salvato la vita.
Insieme sono cadute per terra, la più grande è riuscita a proteggere la testa e il corpo della bambina e ad attutire il colpo. Subito la zia ha lanciato l’allarme. Quando i soccorritori del 118, gli agenti delle volanti della questura e i colleghi del commissariato Greco-Turro sono arrivati davanti al palazzone, la piccola era ancora lì per terra, sotto choc, piangeva e urlava per la paura. Ma tutti, con grande sorpresa, si sono resi conto che stava bene. Parlava e si muoveva senza difficoltà. D’urgenza la bambina è stata trasportata all’Ospedale Niguarda.
Per sciogliere la prognosi i medici attendono gli esiti di tutti gli esami specifici necessari, per precauzione, a scongiurare ogni rischio. Ma la piccola sta bene e se l’è cavata solo con un grande spavento.

La Stampa 10.2.19
Raddoppiano gli adolescenti che scelgono di cambiare sesso
Il percorso di transizione è lungo e complesso: la durata media è di due anni
di Claudia Luise


Tutti gli stereotipi sono difficili da abbattere ma quelli legati all’identità di genere possono finire per annientare la propria vita e risucchiare nella depressione più cupa.
Si chiama disforia di genere, quando nasci in un corpo di un sesso che senti non ti appartenga. Dentro sei una donna ma tutti ti vedono un uomo, o viceversa. Da non confondere con l’orientamento sessuale: due cose ben distinte che hanno percorsi di consapevolezza e approcci diversi. A Torino c’è un centro dedicato alla Città della Salute, il CiDiGem (Centro Interdipartimentale disforia di genere -Molinette), che rappresenta l’eccellenza in Italia per il supporto che offre alle persone che soffrono di questa condizione. Diretto dal responsabile dell’endocrinologia Ezio Ghigo e coordinato da Fabio Lanfranco, conta un’equipe di una ventina di professionisti oltre che di endocrinologia anche di uro-andrologia, psichiatria, psicologia, chirurgia plastica, chirurgia generale e ginecologia ed è attivo dal 2005. Nell’ultimo anno l’utenza è cambiata molto. Solo nel 2018 si sono rivolte al centro 62 persone, nel 2017 erano state 55. Non è una strada semplice ma un percorso che dura anche due anni: ad oggi la struttura ha in carico 300 pazienti, in totale i casi affrontati dall’equipe sono stati 697 e si dividono equamente tra uomini che si sentono donne e donne che vogliono essere uomini.
«In questi anni - spiega Ghigo - è diventata più intensa la domanda di adolescenti e questo è un problema ancora più complesso quindi si lavora in collaborazione con la neuropsichiatria infantile. Nel 2017 sono stati 13, lo scorso anno 25. E anche l’età è sempre più precoce». Casi che vengono gestiti collegialmente, nel rispetto di protocolli specifici studiati seguendo linee guida adottate in Olanda e Regno Unito, due nazioni all’avanguardia sul tema. «Tutta la famiglia è in transizione, non solo il minore, e l’impatto sociale è forte. Ma oggi le famiglie sono più disponibili ad essere aiutate. Durante l’infanzia dal punto di vista medico non si fa nulla. Con i primi cambiamenti del corpo, se persiste il disagio, è possibile dare più tempo alla persona con dei farmaci che bloccano la pubertà. Ma - sottolineano la psicologa Chiara Crespi e l’endocrinologa Giovanna Motta - devono essere dati in casi davvero selezionati, è una sorta di aiuto alla persona ma anche ai clinici che devono valutare il percorso per confermare lo sviluppo atipico dell’identità di genere». Questi farmaci vengono usati un anno circa, poi si inizia la terapia ormonale per affermare il genere. «Il nostro è un approccio prudenziale - spiegano - abbiamo sempre pensato che non è la prima scelta. A volte anche solo accogliere la richiesta basta a star meglio senza bloccare l’evoluzione della pubertà. Nella nostra esperienza i ragazzini italiani non li richiedono, forse è anche un fattore culturale».
Attualmente sono solo due i casi di questo tipo seguiti al Regina Margherita ed entrambi nell’ultimo anno. «È altrettanto vero che sono aumentate le persone mature con matrimoni e figli e anche in questo caso le cose si complicano, serve un supporto alla genitorialità», aggiunge Crespi. Inoltre è cambiato l’atteggiamento dei medici e le terapie richieste che devono «affermare il genere predominante, mentre prima si parlava di conferma. La maggior parte delle persone però continua a desiderare l’intervento, su 10 appena 2 chiedono solo la modifica dei dati anagrafici». È un processo fatto di sofferenza e speranza, con due avvertenze: «grazie ai gruppi social si può trovare comprensione ma la terapia va personalizzata. E poi il linguaggio è importante e può offendere profondamente».

il manifesto 10.2.19
San Giovanni a tre colori: «Finalmente in piazza»
Il Corteo. La maggior parte dei manifestanti è partita di notte da tutta Italia: «Era proprio ora di tornare in corteo». Il serpentone che esonda il percorso per la troppa gente
di Riccardo Chiari


Le antiche regole della piazza dicono che una manifestazione è riuscita quando un corteo rompe gli argini del percorso fissato ed esonda nelle grandi vie limitrofe, felicemente anarchico e confusionario, lasciando i ritardatari ancora alla partenza mentre all’arrivo sono già in corso gli interventi dal palco. È quello che è successo alla prima manifestazione unitaria dei sindacati confederali dopo sei lunghi anni, baciata da un sole promettente, vissuta anche di corsa da chi è arrivato a Roma da tutti gli angoli della penisola. Perché i pullman non aspettano, e il viaggio di ritorno già incombe.
«SIETE TANTI – tirerà le somme Maurizio Landini – e molti devono ancora arrivare qui in piazza San Giovanni. Ma noi i numeri non li diamo, ce ne sono già troppi che danno i numeri, e allora diciamo: contateci voi». Gli esperti diranno 200mila, gli ottimisti il doppio. Ma davvero non importano i numeri, quando le prime parole che macchiano il taccuino del cronista sono invariabilmente: «Era ora»; «Ci voleva»; «Sempre troppo tardi»; «È solo l’inizio».
Solo dalla vicina Toscana sono stati organizzati più di 120 pullman, con partenza alle 5 del mattino, mentre i pugliesi e i veneti sono partiti a mezzanotte e a mezzanotte torneranno a casa. Quanto ai sardi, in mille sono partiti la sera prima in nave da Cagliari, e altri 600 da Olbia. Fra i mille volti di chi per vivere deve lavorare piace ricordare i ragazzi e le ragazze di Foodora, che arrivati a Cinecittà si mettono il vestito di tutti i giorni, con le grandi sacche porta-cibo agganciate alla schiena.
SI DEVE ANCHE RICORDARE, con commozione, Claudia Sorgato, 49 anni, delegata storica della Funzione pubblica Cisl di Padova, che si è sentita male prima dell’alba in un’area di sosta sul raccordo anulare. Un infarto l’ha strappata alla vita e ai suoi cari, tutti i soccorsi, pur immediati, sono stati vani. Questa gigantesca manifestazione è anche per lei, che è comunque arrivata a Roma.
Quasi si era persa la memoria dell’effetto cromatico di una manifestazione unitaria: le rosse bandiere della Cgil, l’azzurro intenso delle pettorine e dei labari della Uil, il biancoverde a righe orizzontali della Cisl. In via Fontana c’è un capannello con al centro un sorridente Nicola Zingaretti, a suo agio mentre scambia battute e strette di mano con i manifestanti. Dalle dirette dei social network rimbalzano foto che fanno divertire, compresa quella con Sergio Cofferati e Massimo D’Alema ritratti insieme, e con Guglielmo Epifani a chiudere il cerchio.
La sgarrupata ma ancor viva sinistra italiana, in tutte le sue variegate declinazioni, ha i sorrisi di Laura Boldrini ed Edoardo Speranza, di Nicola Fratoianni e Maurizio Acerbo, anche loro in cammino verso piazza San Giovanni insieme agli spezzoni dei loro partiti. C’è anche Maurizio Martina, che è dipinto da alcuni come l’erede di Matteo Renzi. Ma Renzi a una manifestazione che chiede più giustizia sociale, più lavoro di qualità con diritti e tutele, e rispetto per chi ha lavorato una vita ed è oggi in pensione, non c’è mai stato.
«ERA ORA – RACCONTA la romagnola Eliana Rosa – dobbiamo smetterla di pensare che i 5 Stelle siano di sinistra, perché hanno delle ambiguità grandi come case«. «Ci voleva – confermano i metalmeccanici reggiani Lucia Selmi e Paolo Di Bernardo, orgogliosamente Fiom – ed è solo l’inizio perché si può fare ancora meglio. Ripartendo da quello che il senso più profondo del sindacato. Ora non dobbiamo sederci e aspettare, lo abbiamo fatto fin troppo. Muoviamo il culo, e andiamo avanti».
Isabella Zibiello viene da Napoli, ha la pettorina della Cisl, e tira le somme di quanto sta accadendo tutto intorno a lei: «Si sono mossi da tutto il paese per venire qui, vuol dire che c’è un male dentro. Specialmente per i giovani, che fanno domande di lavoro e inviano curriculum, per sentirsi sempre rispondere “ti faremo sapere”… E poi non succede nulla».
Giuseppe e Iacopo Tognazzi vengono da Tivoli ma ci tengono a sottolineare le origini senesi, hanno entrambi il manifesto ripiegato nella tasca del giaccone, e sono padre e figlio: «Io dello Spi – spiega sorridendo Giuseppe – e lui della Filcams. Pensa un po’, mio padre era scalpellino, io invece ho lavorato in banca: evidentemente in quegli anni l’ascensore sociale funzionava». «Io invece sono impiegato in una società di servizi – prosegue Iacopo – mentre i figli della mia compagna di vita fanno i precari nei supermercati. Io penso che questo sia esemplificativo di quello che sta accadendo in questo paese».
CON VIA MERULANA STRAPIENA, il corteo entra anche in viale Emanuele Filiberto, frammisto a turisti divertiti che, con la loro maglietta rossa del Galles in attesa di andare a vedere i dragoni al Sei Nazioni di rugby, si intonano perfettamente al contesto. Hanno due sgargianti magliette azzurre della Uilm invece Giuseppe Autelli e Giuseppe Spediacci, arrivano da Bari dove lavorano insieme alla Skf, multinazionale leader dei cuscinetti a sfera. «Ne valeva la pena di essere qui, c’è anche il sole, che rende tutto ancora più bello». Nel mentre Maurizio Landini dal palco ricorda: «C’è l’unità di questa piazza, per unire il mondo del lavoro. E lo dobbiamo a Susanna Camusso, ad Anna Maria Furlan e a Carmelo Barbagallo, che hanno iniziato a settembre a organizzare questa giornata». A salutarlo, fra i tanti, uno striscione con su scritto: «Meno stati sui social, più stato sociale».

Il Fatto 10.9.19
I sindacati tornano in piazza: “Ora veniteci a contare voi”
Sfida al governo - Cgil, Cisl e Uil: le tre confederazioni manifestano di nuovo insieme. A San Giovanni arrivano in 200 mila. E per l’occasione Di Maio e Salvini stanno zitti
di Salvatore Cannavò


Che la manifestazione di Cgil, Cisl e Uil sia stato un successo lo si capisce dal fatto che né Luigi Di Maio né Matteo Salvini abbiano scelto la replica dello sfottò o dell’attacco frontale. Impegnati nell’ultimo miglio della campagna elettorale per l’Abruzzo, i due vicepremier hanno parlato d’altro. Ma non hanno potuto non vedere il fatto nuovo.
Di numeri non ce ne sono – “contateci voi” ha detto Maurizio Landini dal palco del comizio – ma si tratta comunque del corteo delle grandi occasioni (circa 200 mila partecipanti) e alcuni fatti molto chiari.
Il primo è che ora il governo ha un interlocutore alternativo, non ancora un avversario diretto – non siamo ancora allo sciopero generale – ma un controcanto. Secondo, il sindacato c’è, ha una forza e, soprattutto, un leader di peso, riconosciuto e che vuole farsi sentire. Terzo, Cgil, Cisl e Uil vogliono tornare a essere una controparte, contare per strappare dei risultati. “Invece di incontrare i Gilet gialli in Francia – ha detto Landini dal palco – il governo incontri il sindacato”.
La manifestazione è stata anche occasione di una rinnovata unità delle tre sigle sindacali che si erano divise nei confronti dei governi di centrosinistra. Contro il Jobs Act solo Cgil e Uil manifestarono e scioperarono. E dietro questa unità hanno sfilato anche le varie sinistre con i due candidati alla segreteria del Pd, Nicola Zingaretti e Maurizio Martina – il terzo, Roberto Giachetti era a Danzica a incontrare Solidarnosc… Hanno sfilato leader minori come Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana e Roberto Speranza, di Mdp. Ma allargando il quadro si sono visti anche altri personaggi: la foto di gruppo di Massimo D’Alema con Sergio Cofferati e Guglielmo Epifani o quella di Carlo Calenda avvolto nella bandiera Cisl (mentre il figlio sventolava una vecchia bandiera Pci). Immagini che raccontano anche i rischi che corre il sindacato a essere schiacciato sulla corsa della politica al selfie di turno. Soprattutto se questo diventa un richiamo al “frontismo” magari in nome di Emmanuel Macron.
Landini ha avvertito il rischio e ha ribadito che il sindacato vuole rappresentare “valori importanti della Costituzione”, ma per conto suo, in piena autonomia.
Alla fine della giornata, comunque, resta in campo una forza sociale e popolare che si contrappone al governo: “Contro quelli che seminano odio – spiega ancora Landini – ci sono quelli come noi che seminano solidarietà”. Il tema dei migranti, dell’antirazzismo dei valori da difendere ha percorso anche i discorsi di Forlan della Cisl e di Barbagallo della Uil. Su questo Cgil, Cisl e Uil vogliono tenere una distanza molto chiara con la narrazione di governo: “Sono più i giovani italiani che lasciano il Paese dei migranti che arrivano” ha detto Landini il quale ha ribattuto più volte su punto avvertendo del rischio che la chiusura nazionalista comporta per i diritti dei lavoratori: “Guardate Orban in Ungheria: chiude il suo paese e ai lavoratori chiede di fare fino a 400 ore di straordinario”.
L’alternatività al governo si recepisce anche sul tema sociale più importante che ha caratterizzato la manifestazione: il lavoro. “Vogliamo gli investimenti perché solo questi creano lavoro” è stato il ritornello insistito. E in questa impostazione si legge la cultura sindacale che, al fondo, contrappone il “lavoro” al “reddito” e che sull’importanza degli investimenti, e delle grandi opere, costruisce un rapporto privilegiato con le imprese. Non a caso hanno sfilato ieri, per la prima volta, anche alcune rappresentanze degli industriali.
Alternativi al governo, dunque, ma per farsi ascoltare. Anche per questo i tre segretari hanno insistito sulla propria piattaforma e sulle rivendicazioni: più investimenti, rinnovo dei contratti per il pubblico, più fondi al Mezzogiorno, no all’autonomia differenziata – tema che diventerà centrale – insufficienza delle modifiche alla legge Fornero e dubbi, tanti dubbi, sul Reddito di cittadinanza. La tesi è: “Va bene una misura contro la povertà, ma si poteva incrementare il Rei”. Soprattutto, dicono, si dovrebbero ripristinare i classici ammortizzatori sociali per il lavoro – cassa integrazione, Naspi – e creare lavoro con gli investimenti pubblici. Landini, poi, non perde l’occasione di ironizzare sui “navigator” i nuovi addetti ai centri per l’impiego che dovrebbero indirizzare i percettori del reddito di cittadinanza verso posti di lavoro: “Ma saranno assunti con contratti precari, non mi sembra una grande idea”.

il manifesto 10.2.19
Landini: «Seminiamo unità, cambiamo in meglio il paese»
Dal Palco. Il neosegretario della Cgil: «Di Maio in Francia va dai gillet gialli, da noi non ha il coraggio di incontrarci». Furlan: «Come si fa a dire che il 2019 sarà bellissimo e incredibile? Lo sarà, ma perché non ci crede più nessuno». Barbagallo: una folla così immensa il governo non la può ignorare
di Massimo Franchi


«L’aria sta cambiando, il governo inizia a capirlo e per questo ci attacca», commentano tutti sul palco. Sei anni dopo l’ultima volta, Cgil, Cisl e Uil riempiono piazza San Giovanni. Al tempo dei social, degli haters da tastiera e della propaganda populista non era affatto scontato. La manovra con Reddito di cittadinanza e Quota 100 «non dà risposte a chi per vivere deve lavorare ed è sempre più povero».
IL BATTESIMO per il Landini segretario generale della Cgil è da vero «saldatore». Diversamente dal passato in cui la confederazione più grande chiudeva i comizi, l’accordo prevede che lui sia il primo a parlare dopo i sei lavoratori che hanno raccontato «a cosa si è ridotto il lavoro (e la pensione) ai giorni d’oggi».
Landini detta la linea e scalda la piazza. «Siete uno spettacolo – dice rivolto ai manifestanti – visto che tutti danno i numeri, dei numeri noi non ne diamo: contateci voi», è la sfida ai media mainstream che hanno boicottato la manifestazione e a Lega e M5s che la bombardano da giorni.
L’attacco a Di Maio c’è subito: «A chi va ad incontrare chi protesta negli altri paesi (la delegazione di gillet gialli, ndr) chiediamo abbia un briciolo di coraggio e incontri noi che siamo il cambiamento, qui c’è il cambiamento e non abbiamo scritto “Giocondo” qui sopra» perché «abbiamo bisogno di unire questo paese, di impedire la corsa al ribasso fra lavoratori». Le bussole sono sempre la Costituzione («che va applicata anche nella parte in cui prevede effettiva partecipazione dei lavoratori») e la «questione ambientale» per cui serve «fare sistema con tutti per un nuovo modello di sviluppo». La «lotta dei lavoratori ungheresi» porta a parlare di Europa e populismi: «Non lasciamo la bandiera a chi pensa che i problemi si risolvano nei propri condomini: siamo preoccupati quando il linguaggio agisce sulle solitudini, bisogna diffidare e cambiare strada quando si incontra uno che dice che da solo risolverà tutto: vi sta prendendo in giro». E quanto alla riforme del governo le critiche sono motivate: «Il problema non è i 200-300mila persone che andranno in pensione, sono i 20 milioni che non ci andranno: i giovani, i precari, le donne, i lavori gravosi», mentre sul «reddito noi abbiamo chiesto il Rei e lo criticavamo perché aveva poche risorse; ora le risorse ci sono ma si mescola tra contrasto alla povertà e politiche per il lavoro con il rischio di non risolvere nessuna delle due».
LA RICETTA per il «cambiamento reale al primo posto ha un piano straordinario di investimenti per infrastrutture, specie sociali» perché «con la cultura si cresce» andando «a trovare i soldi dove ci sono: evasione fiscale e patrimoni, altro che tassa piatta». Le speranze che il governo ascolti – «abbiamo pazienza e glielo ripeteremo» – sono poche e allora la promessa è chiara: «Non ci fermeremo, andremo avanti sul territorio finché non otterremo risultati».
LA CHIUSURA è un riconoscimento per chi c’era e un impegno per il futuro. «Se la piazza è piena il merito non è mio: è di Susanna Camusso, Furlan e Barbagallo che a settembre hanno iniziato a prepararla decidendo che prima andasse fissata una piattaforma di proposte da discutere coi lavoratori» e se «ci sono quelli che hanno seminato odio e rancore, noi seminiamo solidarietà, idee di giustizia sociale e dimostriamo che si può cambiare», partendo dalla «coscienza di questa piazza fatta di una unità che va estesa a tutti i luoghi di lavoro». E per dare un segnale i primi lavoratori che Landini incontra appena sceso dal palco sono i rider di Firenze di Foodora che lottano da mesi contro il licenziamento di 200 di loro dopo l’acquisizione da parte di Glovo.
Tocca a Annamaria Furlan prendere il testimone da Landini e fare un comizio molto battagliero, specie sul tema dei migranti: «Se c’è gente che sta affogando la domanda non deve essere: fuggono dalla guerra o dalla fame? La risposta deve essere: noi li salviamo». L’attacco al governo della leader Cisl è diretto: «Guardate il volto della realtà di chi lavora, l’Italia reale ha bisogno di collegialità, di discutere, di affrontare assieme i problemi, basta usare la retorica della crescita che non c’è: come si fa a dire che il 2019 sarà un anno bellissimo e incredibile? Sì, incredibile perché non ci crede più nessuno».
A chiudere Carmelo Barbagallo che ha rivendicato il successo della manifestazione: «Siete un arcobaleno di colori che dà speranza, una folla immensa, il governo ne tenga conto», ha chiesto il leader Uil. «Il paese è in recessione – ha proseguito – noi siamo contro l’austerità e vogliamo batterci perché si riprenda il cammino economico e produttivo».

il manifesto 10.2.19
Dalla piazza avviso ai governanti
Manifestazione Cgil Cisl e Uil. In sostanza si reclama un vero cambiamento strutturale e si mette in evidenza il limite di una politica principalmente affidata alla redistribuzione del reddito
di Norma Rangeri

Una manifestazione contro la manovra di bilancio di un governo che certo gode di un largo consenso popolare ma che ha di fronte anche una forte opposizione che viene dal mondo del lavoro. La grande partecipazione di lavoratori che ieri ha invaso Roma e che piazza S. Giovanni non riusciva a contenere, ne è l’evidente, vitale, importante e imponente dimostrazione.
L’ultima piazza unitaria di Cgil, Cisl e Uil fu nel 2013 dell’era renziana che tante batoste avrebbe regalato ai diritti sociali e tanti soldi pubblici alle imprese. Chi stava male oggi sta peggio e chi si arricchiva con la crisi continua a farlo. Il cambiamento chiesto con il voto del 4 marzo e promesso da Lega e 5Stelle con le leggi bandiera del reddito e delle pensioni, incontra l’opposizione dei sindacati con la richiesta di un piano straordinario di investimenti e di una politica salariale contro la piaga dei lavoratori poveri, cresciuta con un incremento monstre del 30% ( chi ieri era in piazza, vale ricordarlo, ha pagato con una giornata di lavoro).
In sostanza si reclama un vero cambiamento strutturale e si mette in evidenza il limite di una politica principalmente affidata alla redistribuzione del reddito.
A onor del vero la manifestazione di ieri ha messo in evidenza anche limiti e contraddizioni, come testimoniava la presenza al corteo di una delegazione di imprenditori emiliani favorevoli alle trivellazioni nell’Adriatico. E bisognerebbe finalmente metterla all’ordine del giorno la questione del rapporto tra crescita e qualità dello sviluppo, almeno finché la resistenza ecologica del pianeta ce lo consente.
Il governo dovrebbe ascoltare e chiamare al confronto una piazza così per due ordini di ragioni. Innanzitutto perché è la voce di un paese che vuole poter vivere di un lavoro dignitoso e godere di servizi sociali, questi sì, di livello europeo. Ma anche perché i vecchi, storici sindacati italiani, con tutti i limiti di strutture anchilosate, burocratiche e sopravanzate dalla rivoluzione tecnologica dei nuovi padroni del capitalismo globale, esprimono tuttavia culture politiche, sociali, costituzionali che nessun partito oggi rappresenta. Purtroppo non è l’ascolto, né il confronto la cifra distintiva di una maggioranza che, ogni giorno di più, si rivela, all’opposto, allergica al rispetto della rappresentanza, incline all’occupazione del potere e incapace di contrastare una rovinosa recessione economica.

Repubblica 10.2.19
Welfare
La maledizione dei working poors
Un milione e mezzo di lavoratori poveri non avrà il reddito di cittadinanza
Esclusi dalla misura nonostante il basso tenore di vita perché superano di poco i requisiti richiesti
Le famiglie povere che avranno invece diritto all’assegno senza l’obbligo di accettare altri lavori
di Marco Ruffolo


ROMA Working poors, poveri malgrado il lavoro. Sono oltre due milioni e mezzo di persone, un milione di famiglie. Il 37% (un po’ meno di 400 mila) potrà godere del reddito di cittadinanza, il restante 63% no. Ma c’è di più: quelle 400 mila famiglie continueranno a prendere il sussidio senza essere obbligate ad accettare altri lavori. Si creeranno così due gruppi di lavoratori poveri: il primo non solo accederà al beneficio ma lo conserverà praticamente senza condizioni, a differenza dei disoccupati che invece dovranno accettare le offerte di lavoro. Il secondo gruppo, molto più nutrito, resterà invece escluso perché supera, sia pure di poco, i requisiti richiesti.
Che il reddito di cittadinanza non potesse raggiungere la totalità dei poveri, era già noto. È ormai lontano il tempo delle mega-promesse, a partire da quella iniziale di beneficiare i 9,3 milioni che vivono in condizioni di povertà relativa (ossia sotto la media). Di mese in mese, si è scesi prima a 6,5, poi a 5 (i poveri assoluti) e ora la stessa Relazione del governo li stima in circa 3,7 milioni. Quel che non si sapeva è che la maggior parte dei poveri che restano fuori non è fatta, come si potrebbe pensare, da disoccupati ma da lavoratori: è quel 63% di working poors: circa 600 mila famiglie (più di un milione e mezzo di individui).
Come si arriva a queste conclusioni? Dai fattorini ai magazzinieri, il mondo dei working poors è fatto di famiglie per lo più monoreddito appese a collaborazioni da fame, a part time involontari, a contratti di pochi giorni. Secondo l’Istat il 6,1% dei nuclei con capofamiglia occupato è in povertà assoluta, non riesce a permettersi un paniere di beni essenziali.
Essendo 15 milioni e mezzo le famiglie con almeno un lavoratore (dati Anpal), quelle povere sono quasi un milione. In che misura saranno coperte dal reddito di cittadinanza? Sia l’Ufficio parlamentare di bilancio sia l’Inps parlano di 400 mila famiglie di lavoratori con i requisiti, ossia il 37% dei working poors. Tutti gli altri, circa i due terzi, resteranno fuori. Cosa dovranno fare quelle 400 mila famiglie per continuare ad avere il beneficio? Il decreto del governo disegna un percorso dettagliato per tre categorie. Per i disoccupati e gli inattivi disposti a lavorare, il reddito sarà condizionato al Patto del lavoro.
Per le famiglie la cui povertà non è legata solo alla mancanza di lavoro, il beneficio sarà condizionato al Patto di inclusione. I pensionati, infine, avranno l’assegno di cittadinanza per tutta la vita. Il decreto nulla dice invece sul futuro delle 400 mila famiglie di working poors in possesso dei requisiti. L’unica cosa certa è che dopo un anno e mezzo, come succederà ai disoccupati, il sussidio sarà sospeso per un mese, ma poi, se i requisiti permangono, verrà rinnovato. Tuttavia, mentre nel frattempo i disoccupati dovranno accettare le offerte di lavoro e perderanno il sostegno, le famiglie di lavoratori poveri non hanno condizioni da rispettare perché già lavorano. «Il mantenimento di un’occupazione, seppure a bassa retribuzione – spiega Giuseppe Pisauro, presidente dell’Upb, nella sua audizione – consente di essere sollevati dall’obbligo di accettare le offerte congrue». Insomma, il precario single in affitto che alla fine del mese riceve 500 euro sarà sicuro che lo Stato integrerà quel salario fino a 780. Per quanti anni?
Non si sa. Fuori dal recinto del reddito di cittadinanza resteranno invece 600 mila famiglie di working poors. Che a quel punto faranno di tutto per rientrare nei requisiti, abbassando il proprio conto in banca e magari anche il salario. Ad essere spiazzati dal beneficio offerto dal governo non saranno però solo la gran parte dei lavoratori in povertà assoluta, ma anche tutti quelli che hanno un reddito da lavoro vicino a quello di cittadinanza, e in molti casi anche minore. Secondo l’Inps, il 10% dei dipendenti a più basso salario in Italia ha un reddito inferiore ai 500 euro al mese, che è il valore mediano offerto dal reddito di cittadinanza. E il 45% dei dipendenti privati nel Sud prende meno di 780 euro. Insomma, uno dei primi effetti del nuovo decreto potrebbe essere la separazione delle famiglie a più basso reddito in tre categorie con trattamenti e diritti diversi. La prima è quella dei "precari assistiti a vita", ossia lavoratori poveri che godranno del beneficio senza dover rispettare condizioni e limiti temporali. Alla seconda appartengono i "disoccupati assistiti a tempo", che per continuare ad avere il sussidio devono accettare le offerte di lavoro (se arrivano). Infine c’è un terzo gruppo ancora più nutrito: è quello degli "spiazzati", lavoratori non necessariamente poveri, esclusi dal beneficio e scoraggiati a lavorare perché il loro reddito è molto vicino ( in qualche caso persino inferiore) a quello di cittadinanza. Che sia forte la tentazione di questi ultimi di farsi licenziare per accedere al sussidio?

Il Fatto 10.2.19
Torino, la protesta degli anarchici diventa guerriglia
Cassonetti incendiati, un bus assaltato: per ore la città assediata da oltre mille manifestanti. Dodici i fermati
di Stefano Bertolino


La risposta allo sgombero del centro sociale torinese L’Asilo, a Torino, era attesa ed è arrivata.
Una fitta nebbia avvolge corso San Maurizio, buona parte del quartiere Vanchiglia, fino in Corso Regina. L’aria è irrespirabile. Il fumo dei lacrimogeni entra nei locali della movida dove la gente si barrica spaventata e impaurita. Chi è per strada scappa con le mani sul viso, le sciarpe fin sugli occhi per coprirsi, scansando pali divelti, cassonetti incendiati e il tappeto di cocci e pietre che ricoprono strade e marciapiedi. Bombe carta e sirene squarciano la tranquillità del sabato sabaudo.
Il bilancio dei violenti scontri tra gli 800 anarchici e forze dell’ordine parla di 4 feriti, di cui uno in codice rosso, 12 manifestanti fermati, e un bus di linea assaltato. “Non ho mai visto niente di simile – ha raccontato l’autista – sono saliti incappucciati sfasciando tutto. Tremo ancora adesso”. Un gruppo di manifestanti è salito a bordo, spaccando i vetri e lanciando i lacrimogeni raccolti per strada all’interno del mezzo, mettendo in fuga i due passeggeri e il conducente.
“Galera per questi infami! Ridotti quasi a zero gli sbarchi, adesso si chiudono i centri sociali frequentati da criminali”, tuona il ministro dell’Interno Matteo Salvini, ma lo sgombero del centro sociale di via Alessandria per il momento è solo riuscito a far salire la tensione in città. Già giovedì sera infatti un corteo di circa 300 persone si era scontrato per le vie del quartiere Aurora proprio per protestare contro l’operazione della Questura di Torino. Lo stesso questore Francesco Messina affermava in conferenza stampa di non temere la risposta degli anarchici: “Non temiamo nulla, mai avuto timore, siamo addestrati e capaci di affrontare l’ordine pubblico”.
Eppure, nonostante l’ingente schieramento di mezzi e uomini tra polizia e carabinieri, gli 800 incappucciati provenienti da tutta Italia e dalla Francia, sono riusciti a tenere in scacco la città. Anzi ad essere in difficoltà per lunghi tratti sono sembrate proprio le forze dell’ordine pressate dall’incessante lancio di sassi e bombe carta (fonti di polizia sottolineano di aver comunque impedito una nuova occupazione dell’Asilo, obiettivo degli antagonisti). Anche tra i negozianti di corso Regina si è scatenato il panico quando il corteo ha incendiato i bidoni dell’immondizia, usandoli come barricate: “Ho dovuto chiudermi dentro con i clienti, erano tutti terrorizzati. C’erano anche dei bambini all’interno del locale”, racconta il gestore di un bar.
La condanna di quanto avvenuto è arrivata anche dal governatore Sergio Chiamparino e da Chiara Appendino: “Quanto sta accadendo in queste ore non può essere confuso in alcun modo con l’esercizio della democrazia”, ha twittato la sindaca. Proprio nel mirino dei manifestanti è finita anche l’amministrazione pentastellata, accusata di riqualificare i quartieri periferici a discapito degli spazi sociali. Un’accusa diretta ad Appendino che nei giorni scorsi aveva espresso piena soddisfazione per lo sgombero dello spazio occupato, ringraziando la Questura e gli agenti, sottolineando che l’operazione era stata lungamente attesa da tutta la città.
“L’Asilo non si tocca, ce lo riprenderemo”, si legge sui muri dopo il passaggio del corteo. E se la promessa di scontri è stata pienamente mantenuta c’è da aspettarsi che i gruppi anarchici cittadini non lasceranno passare molto tempo prima di trovare nuovi spazi da occupare. Con buona pace del ministro Salvini e della sindaca Appendino.

Il Fatto 10.2.19
Gli antagonisti in pista contro il Viminale
Gli obiettivi - La difesa degli spazi occupati e la guerra contro Cpr e Cie
di Davide Milosa


La guerriglia anarchica di Torino ieri. Tre giorni fa lo sgombero dell’asilo occupato di via Alessandria. Un luogo decisivo per le lotte anti-sistema. Non a caso l’operazione della polizia è arrivata dopo che il giudice di Torino ha dato l’ok all’arresto di sei persone. Secondo fonti dell’intelligence l’asilo, negli anni, è stata la camera segreta da cui sono partiti attentati contro il sistema dell’immigrazione. Battaglia nota, che passa sotto il nome di I Cieli bruciano. Obiettivo: prima i Cie, poi i Cpr e oggi di nuovo le politiche del governo in tema di immigrazione con la volontà dichiarata di riaprire i Cpr. Chi è stato indagato è accusato di aver colpito tutte quelle aziende che lavorano nell’indotto. Pacchi bomba destinati anche alle Poste, e in particolare alla compagnia aerea (Mistral) che riporta le persone espulse nei loro paesi. Insomma, lo sgombero dell’Asilo ha dato fuoco alle polveri di un movimento anarchico che da mesi si sta ricompattando. Calamita nota: la politica del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Solo pochi giorni fa a Milano nel quartiere del Ticinese è comparsa questa scritta: “Non sparare a salve, spara a Salvini”. I fermati di ieri sono 12, uno di loro è spagnolo. Oltre 150 gli identificati. A Torino c’erano anarchici arrivati da Germania, Spagna, Francia, Serbia. Presenti anche dal nord Italia, da Trento e Rovereto, da Bologna e da Milano. E che la guerriglia di ieri rappresenti un dato politico importante lo dimostra il volantino anarchico girato giorni fa e che già annunciava la manifestazione di ieri. Si legge: “(…) Con l’accusa di associazione sovversiva per via della partecipazione alle lotte contro i Cie e i Cpr o per essere stati catturati nelle ore di scontri che hanno seguito lo sgombero. La lotta, l’autogestione, le occupazioni e la solidarietà sono sotto attacco, in pieno clima securitario salviniano, col pieno supporto dei Cinque stelle sindaca in primis. Rivendichiamoci 24 anni di occupazione, rivendichiamoci la lotta contro le infami gabbie dei Cpr, rivendichiamoci la lotta contro il decreto Salvini”. Il tema è dichiarato. Al centro della lotta anche le politiche per la casa e le nuove accelerazioni governative per gli sgomberi. È successo a Torino con l’Asilo. È capitato a Milano. Obiettivo Villa Vegan, altro simbolo anarchico occupato da circa vent’anni. Anche in quel frangente gli anarchici milanesi hanno avuto l’aiuto di buona parte dell’area antagonista del nord Italia. Risultato: sgombero rinviato. Sempre a Milano il tema dell’occupazione delle case è stato rilanciato dall’arresto di 9 autonomi accusati di aver messo in piedi un’associazione a delinquere “non a scopo di lucro ma per una giustizia sociale”. Tutti sono stati mandati a processo. Solidarietà è arrivata dal centro sociale torinese Askatasuna. L’onda anarchica oggi è una concreta allerta. Alfredo Cospito, condannato per l’attentato all’ex ad di Ansaldo nucleare Roberto Adinolfi, in una lettera al giornale anarchico Vetriolo ha parlato di un ritorno “alla lotta armata”. Non solo, gli attentati rivendicati online raggiungono la frequenza di uno al mese. L’ultimo è quello della Fai (Federazione anarchica informale) che risale al 24 dicembre. Obiettivo: l’Istituto italiano di tecnologia a Genova. Dalla Liguria al Piemonte ieri. Con Milano in allerta per la riapertura del Cpr di via Corelli.

La Stampa 10.2.19
Bombe carta e paura
Gli anarchici scatenano la guerriglia a Torino
La protesta contro lo sgombero dell’Asilo occupato. Dodici fermati Strade bloccate, cassonetti in fiamme e un autobus di linea devastato
di Irene Famà e Lodovica Poletto


Bruciano i cassonetti non lontano dal centro. Si sgretolano le vetrate. Nel sabato dello shopping, quando la movida sta per iniziare, quando le famiglie stanno ancora passeggiando davanti alle vetrine, esplode la follia di chi, vestito di nero, con i caschi e le maschere sul viso, vuol vendicarsi di un «sopruso» che sopruso non è. La Polizia ha chiuso L’Asilo, storica casa del mondo anarchico torinese. Lo ha fatto dopo 25 anni. E dopo che la Digos ha arrestato sei persone sospettate di 23 attentati commessi in giro per l’Italia. Buste esplosive, essenzialmente. E la base dove tutto veniva organizzato era proprio l’Asilo di via Alessandria: due piani, un vecchio edificio di una certa bellezza. È per questo che è nata la vendetta. Il sabato di delirio in centro.
Erano partiti in poco più di mille: destinazione non ufficiale era andare a riprendersi l’Asilo. I duri e puri dell’anarchia indigena e gli amici arrivati da fuori. Dal Veneto, da Milano e da altre zone. E poi la terra di mezzo di gente solidale, ma non anarchica. Solidali per lo sgombero, come i pochi del centro sociale più politico del Nord Italia, Askatasuna. È finita come raccontano le immagini di questa giornata. Strade bloccate, ovunque cassonetti in fiamme. E il fiume Dora che fa da spartiacque: sui ponti non si passa perché dall’altra parte sarebbe fin troppo facile arrivare attraverso mille strade all’Asilo.
E sono quattro ore di delirio assoluto. Di sirene e uomini con caschi e scudi che corrono da tutte parti. È il fumo dei lacrimogeni sparati per tentare di disperdere non chi vuole protestare, ma quelli che cercano a tutti i costi il contatto con la polizia. Elencare tutti i fatti e gli scontri sarebbe inutile e quasi impossibile. Ma c’è una serie di episodi che fanno impressione e che raccontano di una violenza inutile e insensata che nulla ha a che fare con la protesta. Corso San Maurizio, arriva la marea di chi cerca lo scontro. Le scritte sui bus sono scontate. Ciò che è inquietante è l’assalto ad un mezzo da parte di un gruppo con il viso coperto. Passamontagna e caschi. A bordo ci sono due donne e l’autista. È il delirio. I mascherati sfondano i vetri con le spranghe. La gente scappa. Loro devastano. Gratis. Come gratis sono le vetrine mandate in frantumi del palazzo di «Smat», la società partecipata che gestisce l’acqua potabile. Arrivano sfondano e scappano. Inseguiti da manganelli e sirene.
Volano bombe carta tra le gambe dei poliziotti e volano sanpietrini. E la risposta sono le cariche e i lacrimogeni. Che rendono l’aria irrespirabile, che fanno piangere la gente che passa, oppure che arriva quando gli scontri sono già da un’altra parte della città. È il prezzo da pagare in questa giornata di delirio. Che va in scena nella zona a cavallo tra il centro e il quartiere Vanchiglia.
«È finita la pacchia», scrive su Facebook il ministro dell’Interno Matteo Salvini. «Torino ostaggio di qualche centinaio di delinquenti dei centri sociali: tutto il mio supporto ai Torinesi e alle Forze dell’Ordine». La sindaca Appendino replica parlando di «episodi di violenza di una gravità inaudita». Scrive: «Quanto sta accadendo in queste ore non può essere confuso in alcun modo con l’esercizio della democrazia».
Se in via Bava la sentissero dire queste cose mentre gli anarchici saltano sulle auto e sfondano i parabrezza per il gusto di farlo allora ci sarebbero per lei applausi pubblici. Ma in strada, quando è finita la buriana, la gente protesta. Contro gli anarchici e contro la sua maggioranza. Che oggi non sfila con chi protesta. Si appalesa soltanto una ex Cinquestelle, la Montalbano, che difende l’Asilo: «Altro che sgombero, bisognava dialogare con questi. E di politico in strada ci sono soltanto io. Mi sentiranno lunedì in Consiglio».
E mentre lei difende chi sfonda vetrine e auto in via Bava e via Artisti bruciano cassonetti e saltano vetri. E la polizia alla fine riesce a placcarne e bloccarne una dozzina. Manette e tutti seduti a terra. Per loro la guerra stasera è finita. Anzi finirà in questura. Per gli altri, invece, c’è la fuga verso piazza Santa Giulia.
Quando nei locali della movida inizia ad esserci super affollamento la giornata è finita. Per ora. Dodici arresti. Un manifestante in ospedale in «codice giallo» come dicono quelli del 118.Un manipolo di poliziotti anch’essi in pronto soccorso a farsi medicare. È finita, per ora, ma la notte rischia di essere una altro momento di delirio. L’Asilo non sarà preso. Perché la Questura lo difende. Come Fort Knox.

La Stampa 10.2.19
Prato
La scossa a sinistra: pranzi anti-crisi alle Case del popolo
di Mario Neri


Quando va bene alla mensa della Caritas gli rifilano una rosetta di scorta. «Ma dopo una notte al freddo il pane si secca» e a lui non resta che uno sconsolato gorgoglìo nello stomaco. Luigi, 71 anni, 36 passati da «stradino» e manovale a cottimo, una pensione minima e nulla al mondo oltre a se stesso, s’è «già segnato per venire tutti i giorni».
In fondo «l’obiettivo di questa tavola», dicono Elisa Barni e Simonetta Bernardini, assistenti sociali, «è cambiare la prospettiva della giornata a queste persone». E se Luigi dorme in macchina da sei anni solo con i suoi pensieri, i tortelli con il ripieno di mortadella devono per forza darti la netta sensazione di aver svoltato. «Avere almeno un posto dove mangiare per me è ottimo».
Ottimo, come un buon pasto, che sa di ottimismo, dice questo ex muratore che la retorica delle periferie abbandonate definirebbe uno dei «forgotten» della sinistra, finiti fuori dall’agenda politica del Pd, che qui a Prato, quartiere Grignano, è sprofondato diventando una delle nuove enclave grillo-leghista. Per questo «C’è posto per te» non è solo un progetto dell’Arci. A Prato i pranzi gratis organizzati dall’associazione in tre Case del popolo delle periferie un tempo oasi rosse della classe operaia stanno diventando un modello per la sinistra e i dem ancora scombussolati dalla scoppola del 4 marzo. Non è un caso che fra i tavoli dei circoli, da lunedì, giorno dell’inaugurazione, il sindaco renziano Matteo Biffoni sia una presenza fissa. Questa tavola insomma è un sussulto, un pranzo anti-recessione, una forma di protesta contro il cattivismo. Per questo il Pd s’è messo in scia. A maggio ci sono le elezioni. «C’è posto per te» l’hanno chiamato i volontari dell’Arci «per far capire che in un periodo in cui le porte si chiudono, noi siamo quelli che le tengono spalancate», dice il presidente dell’associazione Enrico Cavaciocchi. La formula è semplice: dal lunedì alla domenica, nei quartieri popolari, anziani poveri o anche semplicemente soli possono avere un pasto gratis e una tavolata di amici con cui parlare, scherzare, giocare a carte, oppure leggere libri. Raffaele Vita, 66 anni, pensionato, dice di essersi affacciato al circolo di via Bambini con un po’di imbarazzo: «Io vivo solo e mi fa piacere pranzare con altre persone, ascoltare i loro problemi. Mi dispiace perché magari là fuori c’è qualcun altro che ha più bisogno». Ma Raffaele non è affatto fuori posto. «Questa iniziativa – spiega Luigi Biancalani, assessore al Sociale – punta ad intercettare gente che sfugge ai servizi sociali, perché magari non è abbastanza povera per l’emergenza ma non per questo si può dire non sia finita in un vicolo cieco». In un fondo chiuso della solitudine. Una settimana fa, all’inaugurazione a Borgonuovo s’erano presentati più politici locali e funzionari del Comune che anziani. Più palco che realtà. «Questo progetto – dice il sindaco – riconnette chi è fragile o vive nella solitudine con una comunità, tramite i circoli si riaggancia al mondo». E tramite i circoli i dem, magari, si riagganciano a un popolo perduto.

Il Fatto 10.2.19
Roma e Parigi in lite pure sul viaggio del presidente Xi
Nella partita con la Francia anche gli accordi con Pechino. Il leader cinese ha deciso di incontrare prima il governo italiano
di Luca De Carolis


D’accordo, in palio adesso ci sono innanzitutto i voti per le Europee, e per farsi la guerra (mediatica) basta e avanza. Ma dietro all’assalto dei Cinque Stelle a Macron e alla controffensiva del presidente francese, quello che salutò il governo gialloverde appena formato parlando di “lebbra populista”, c’è anche una partita che vale miliardi e influenza politica, ed è quella per costruire un canale commerciale privilegiato con la Cina.
L’altro gigante assieme a Usa e Russia, con cui l’esecutivo italiano e in particolare il M5S vogliono rafforzare sempre di più i rapporti, come provano i viaggi di Luigi Di Maio e di mezzo governo a Pechino e in altre città cinesi. E proprio dalla Cina arriverà a breve un segnale a cui i gialloverdi tengono moltissimo. Perché nella seconda metà di marzo il presidente Xi Jinping arriverà in visita ufficiale in Europa. E sarà anche a Roma, probabilmente il 24 marzo. Ma soprattutto, incontrerà prima il governo italiano e solo dopo ripartirà con destinazione Parigi. E passare prima dalla capitale italiana avrà un suo peso, secondo i codici della diplomazia, specialmente in una fase così delicata per l’Europa che va verso il voto.
Lo scorso 1° febbraio il Fatto aveva raccontato come il ministro dello Sviluppo economico Di Maio, ispirato dal suo sottosegretario Michele Geraci (economista e docente a Shangai, fautore dell’accordo di governo tra M5S e Carroccio), sia un convinto sostenitore della nuova “via della seta”, un sistema di infrastrutture e investimenti che Pechino spinge per allargare la sua piattaforma commerciale. E la sostanza alla fine è semplice: la Cina promette soldi, tanti, per migliorare gli scali europei (e italiani) in cambio di condizioni privilegiate per le sue merci. Ed è un’offerta che ingolosisce i gialloverdi.
Tanto che in primavera Di Maio è atteso in Cina per firmare un memorandum con le autorità locali. Anche se gli Stati Uniti, ovvi avversari di Pechino, non gradiranno affatto. Ma Roma, spiegano, punta sull’asse con la Cina. E anche per questo i gialloverdi fremono per incassare la visita di Jinping prima di Parigi e quindi di Macron, l’eterno avversario sul piano internazionale (basti pensare alla Libia).
Un appuntamento preparato lo scorso fine gennaio dalla visita a Roma del ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi. “Avere qui da noi prima della Francia il presidente cinese sarà un successo d’immagine e commerciale” assicura una fonte di governo, che rivendica “il lavoro di continuità” per consolidare i rapporti con Pechino. Fatto di visite ufficiali in Cina con vari ministri (dal titolare dell’Economia Tria a quello dell’Agricoltura, Centinaio) e sottosegretari. Anche perché non è solo questione di affari. Ma anche di sponda a livello geopolitico, “perché i cinesi hanno investito molto in Africa, e noi dobbiamo lavorare in quel continente per gestire il fenomeno migratorio”. Ed è l’ennesimo tema su cui gli interessi italiani incrociano quelli francesi. E d’altronde le posizioni di Roma e Parigi di questi tempi sono opposte più o meno su tutto. Quindi anche sul Venezuela. Perché Macron è stato rapidissimo nel riconoscere come nuovo presidente l’autoproclamatosi Guaidò. Mentre il governo italiano, l’unico tra gli esecutivi dei paesi europei di peso, non lo ha fatto su spinta dei Cinque Stelle. Con Alessandro Di Battista a fare da traino. Anche se Matteo Salvini rema in direzione contraria, tanto che domani incontrerà una delegazione di parlamentari inviatagli proprio da Guaidò.
Ma il governo, e soprattutto il premier Giuseppe Conte, per ora tengono la linea della neutralità tra il 35enne aspirante leader e l’ancora in carica Maduro, a cui negli anni i Cinque Stelle hanno dato sostegno anche con mozioni parlamentari. “Siamo rimasti fermi sulla nostra posizione per mostrare che siamo equidistanti dai blocchi, dagli Stati Uniti come dalla Cina, e rivendicare l’autonomia di questo governo” sostengono dal M5S. Dove raccontano di “pressioni fortissime” da parte di Washington e dell’Unione europea in favore di Guaidò. Per poi ricordare che mercoledì l’ambasciatore di Caracas, nominato ovviamente da Maduro, riferirà in Senato alla commissione Esteri, presieduta dal 5Stelle Vito Petrocelli. E lo stesso Petrocelli al Fatto assicura: “Nessuna attenzione particolare per Maduro, vogliamo solo favorire il dialogo restando sempre neutrali”. A differenza di Macron, naturalmente.

il manifesto 10.2.19
Foibe, la memoria corta degli italiani
Se nello sterminio degli ebrei furono complici dei nazisti, nel caso delle foibe furono coinvolti da un insieme di circostanze più complesse, che solo la memoria corta degli italiani e l’ipocrisia di buona parte della classe dirigente hanno espulso dalla memoria collettiva
di Enzo Collotti


A poco più di due settimane dal giorno della Memoria in ricordo della Shoah, gli italiani sono chiamati a celebrare con il giorno del Ricordo l’orrore e la tragedia delle Foibe. In entrambi i casi come vittime, ma in entrambi i casi come vittime non innocenti. Se nello sterminio degli ebrei furono complici dei nazisti, nel caso delle foibe furono coinvolti da un insieme di circostanze più complesse, che solo la memoria corta degli italiani e l’ipocrisia di buona parte della classe dirigente hanno espulso dalla memoria collettiva.
Già altre volte abbiamo sottolineato le responsabilità del regime fascista nella snazionalizzazione degli sloveni e dei croati che dopo il 1918 vennero a trovarsi entro i confini dello stato italiano. Nel 1941 l’aggressione dell’Italia alla Jugoslavia e l’annessione violenta della provincia di Lubiana a Regno d’Italia contribuirono in modo decisivo alla dissoluzione dello stato Jugoslavo e alla apertura della fase storica che sfociò nella Jugoslavia di Tito. In ciascuna di queste fasi le autorità politiche e militari italiane, al di là di ogni problema geopolitico, si mossero nel presupposto che le popolazioni slave rappresentassero, come ebbe a dire nessun altri che Mussolini, una razza inferiore e barbara nei cui confronti fosse possibile e lecito imporre il pugno duro e purificatore dei dominatori.
Le foibe si inseriscono in questo contesto e nella spirale di violenze che fecero seguito. Al di fuori di questo quadro non c’è la possibilità di comprendere le ragioni degli orrori dei quali parliamo e dei quali rischiamo di tornare a rimanere vittime. Nessuna menzogna potrebbe capovolgere questa realtà della storia o avvelenare la nostra memoria, impedendo la consapevolezza e le nefandezze di un passato che avremmo potuto considerare ormai alle nostre spalle. Se così non è dobbiamo tornare a riflettere sulla superficialità con la quale i politici di turno si sono impossessati di una questione di forte impatto emotivo per alterare la storia e la memoria e sfruttare la credulità di una opinione pubblica anestetizzata dalla retorica patriottarda.
A pensarci bene la questione delle foibe serve a coprire il vuoto di consapevolezza a decenni di distanza della vera realtà della sconfitta del Paese, ma anche della capacità della popolazione di rialzare la testa e di affrontare i sacrifici che hanno consentito la ricostruzione. Mettere al centro dell’attenzione le foibe non serve a sottolineare le offese subite ma a perpetuare uno sterile vittimismo che non contribuisce a fare i conti mancati con il passato, ma neppure a consolidare il consenso a questa nostra democrazia minacciata da tante insidie. Una di queste è la negazione della verità che mistifica la menzogna e alimenta l’ipocrisia.
L’enfatizzazione delle foibe ha ritardato la riconciliazione con le vicine popolazioni slave, ha reso più difficile la cicatrizzazione delle ferite della guerra, ha oscurato i drammi veri delle popolazioni costrette a lasciare le loro case e la loro terra, le uniche che abbiano pagato per tutti gli italiani le malefatte di un regime criminale senza che ci siano stati gesti ufficiali da parte dello Stato democratico di rottura e di risarcimento nei confronti di un passato da condannare senza riserve.
La prassi tutta italiana di coprire con l’oblio passaggi storici che avrebbero meritato un forte impegno di autocritica e di verità in questo, come in tanti altri casi, si è alleata alla rimozione di memorie scomode e allo loro banalizzazione. L’orrore delle foibe deve servire a richiamarci periodicamente alle nostre responsabilità storiche e non certo a rinnovare il rito del nostro vittimismo. E alla fine spiace constatare che il presidente della Repubblica Mattarella non condivida questa per noi ovvia conclusione.

La Stampa 10.12.19
Foibe, il ricordo che divide
La destra contro gli storici e l’Anpi
di Mario Baudino


Non appena la Quarta armata jugoslava entrò in Trieste, gli agenti della polizia politica di Tito si dettero da fare: la loro prima preoccupazione fu di arrestare e eliminare i membri del Comitato di Liberazione Nazionale, i leader italiani della Resistenza. Sul confine orientale l’unico antifascismo doveva essere quello dell’esercito vincitore, dei croati, degli sloveni e dei serbi. L’equazione italiano-fascista era funzionale alla geopolitica, e attecchì bene: la marea dei profughi giuliano-dalmati, che per anni si riversarono al di qua del confine abbandonando terre e proprietà, venne spesso accolta in modo oltraggioso dagli esponenti della nostra sinistra (non a Torino, però, dove il sindaco comunista Celeste Negarville organizzò accoglienza e aiuti). Alla Spezia, durante la campagna per le elezioni politiche del ’48, un dirigente della Camera del Lavoro si abbandonò durante un comizio a un gioco di parole piuttosto agghiacciante: «In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani».
La tragedia delle foibe si ripeté due volte: i partigiani jugoslavi erano infatti dilagati in Venezia Giulia nel settembre del ’43 (con l’eccezione di Pola, Fiume, Trieste), per essere poi ricacciati dai tedeschi nell’ottobre nello stesso anno. Ma subito erano cominciate le esecuzioni sommarie (rese pubbliche dalla propaganda bellica della Rsi, e destinate a ripetersi in misura assai maggiore nel ’45) in base all’identificazione dei italiani come nemici, con le vittime annegate in mare o gettate nelle profonde cavità carsiche. E quella tragedia a lungo rimossa in un’Italia che non voleva ammettere né la sua sconfitta né le violenze commesse nei Balcani, ignorata a sinistra fino al 2002 quando un libro molto fortunato di Gianni Oliva affrontò il tabù, ancora divide, nonostante l’istituzione - anch’essa nata da una tormentatissima discussione - del «Giorno del Ricordo». Aveva appunto lo scopo di conciliare le memorie: in parte raggiunto, in parte no.
È di questi giorni la polemica innescata a destra - da Fratelli d’Italia a Casa Pound, proprio gli eredi di quel fascismo che con la sua politica di aggressione e nazionalizzazione è uno dei protagonisti del dramma - contro alcuni convegni, da Parma a Trieste, definiti «negazionisti». È stata diffusa una dichiarazione di Matteo Salvini che chiedeva di rivedere i contributi alle associazioni, «come l’Anpi, che negano le stragi fatte dai comunisti nel dopoguerra». Il clima si è surriscaldato all’insegna, come ormai accade puntualmente, della competizione politica. Nel mirino gli storici, che col procedere della ricerca hanno puntualizzato ad esempio le cifre del massacro di italiani, indagato sui silenzi del Pci e di Togliatti e anche su quelli imbarazzati dei governi post bellici.
Le foibe rimangono uno spaventoso episodio di pulizia etnica - a lungo rimosso -, qualunque ne sia la portata «numerica». Farne oggetto di propaganda è un insulto alla memoria delle vittime. Ne discutono in questa pagina due storici, al di là delle polemiche contingenti.

La Stampa 10.2.19
Gonfiare le cifre serve solo a alimentare l’odio
di Eric Gobetti


Si è parlato in questi giorni di «negazionismo delle foibe», accusando Anpi e amministrazioni locali di offrire tribune pubbliche a storici schierati politicamente per sminuire la tragedia delle foibe e dell’esodo. La colpa di questi studiosi sarebbe quella di voler contestualizzare il fenomeno, spiegandone le radici con la violenza fascista e la guerra, analizzando puntualmente i fatti, cercando spiegazioni, non giustificazioni. Purtroppo però la terribile tragedia vissuta dalle popolazioni dell’Alto Adriatico in quegli anni è sempre più spesso strumentalizzata.
Si è imposta, a livello politico e mediatico, una versione distorta e in gran parte errata dei fatti. Si tende a semplificare forzatamente le «complesse vicende del confine orientale» menzionate nella legge istitutiva del Giorno del Ricordo, parlando sbrigativamente di massacri e di pulizie etniche, senza alcuno sforzo di comprensione. Con analoga sufficienza si tratta il conteggio delle vittime delle foibe e dell’esodo. Ovviamente non importa quante siano state le vittime: anche solo due sono troppe, quando si tratta di vittime innocenti o di violenze gratuite. Tuttavia gonfiare le cifre a dismisura, raddoppiando o triplicando il numero dei morti, non rende giustizia alle vittime e finisce con l’alimentare un dibattito sterile, basato su dati falsati.
Nonostante infatti le comprensibili differenze interpretative tra studiosi di diversa estrazione e orientamento politico, sui dati di fatto c’è ampia concordanza di vedute. Nel «vademecum» scaricabile on line dal sito dell’Istituto storico della Resistenza di Trieste (prodotto con l’ausilio di numerosi storici riconosciuti a livello nazionale, tra cui spicca Raoul Pupo) si parla di tremila-quattromila uccisi. Secondo la stessa fonte sarebbero circa 250.000 i profughi da quelle regioni. Non sono cifre esatte, per una serie complessa di ragioni, ma rendono l’idea della grandezza del fenomeno.
Discostarsi da queste cifre, come viene spesso fatto sui molti media e purtroppo anche ad alto livello istituzionale, è un errore storico grossolano. Perché dunque si continua a sbagliare? Perché la fiction prodotta dalla Rai Il cuore nel pozzo parla di 10.000 morti? Perché il più recente Rosso Istria, andato in onda venerdì su Rai 3, continua a parlare di 7000 vittime? Perché la cifra di 300.000 o 350.000 esuli continua a essere la più usata quando tutte le ricerche serie hanno appurato la verità?
Purtroppo questo uso strumentale della storia non serve a nessuno e finisce solo col suscitare nuovo odio. Capire è molto più difficile che odiare. Negare la verità, ignorare il pensiero complesso, covare la rabbia… ci siamo già passati molte volte, in passato, ed è sempre finita male.

La Stampa 10.2.19
La storia utilizzata come un randello nel confronto politico
di Giovanni De Luna


Nel dibattito sulle foibe gli storici vengono relegati in secondo piano; è sempre stato così, a partire dalle polemiche che accompagnarono l’approvazione della legge che istituiva il Giorno del Ricordo, approvata il 16 marzo 2004. La proposta, presentata dall’on. Roberto Menia, trovò un consenso quasi unanime. Ci si divise però sulla data: il centrodestra aveva subito proposto il 10 febbraio; il centrosinistra aveva replicato con il 20 marzo, giorno della partenza dell’ultimo convoglio di profughi italiani da Pola. Fu il sen. Servello (ex Msi) a illustrare le ragioni della scelta del centrodestra: il 10 febbraio era «il giorno del Trattato di Parigi che impose all’Italia la mutilazione delle terre adriatiche». Il fatto che nessuna delle due date fosse legata effettivamente alle foibe non sembrava degno di interesse. Menia citava il numero dell’11 febbraio 1947 del giornale Il grido dell’Istria: «Finis Histriae: 10 febbraio. L’Istria non è più Italia». Non le foibe bisognava ricordare il 10 febbraio, ma l’«infame diktat di Parigi».
Nell’argomentare le varie posizioni ci si confrontò del tutto marginalmente con le ricerche degli storici. I sostenitori (il relatore Luciano Magnalbò) del provvedimento citavano un rapporto della Special Intelligence (?) datato 30 novembre 1944 e pubblicato sul Corriere della Sera («Ci viene riferito che in tutto i partigiani jugoslavi hanno gettato parecchie centinaia di persone nelle foibe»). Altri (Piergiorgio Stiffoni) si riferivano genericamente a documenti dell’Oss, dai quali «risultava evidente che gli alleati, americani e inglesi, fin dall’autunno 1944 ebbero notizia delle foibe ma preferirono non intervenire per non irritare Tito che consideravano un alleato sul fronte antinazista». A sostegno degli oppositori c’erano le conclusioni dei lavori della commissione bilaterale italo-slovena e i Quaderni della Resistenza pubblicati dall’Anpi del Friuli-Venezia Giulia. Questo era tutto.
Quanto alla bibliografia, tutti tirarono in ballo gli stessi libri, quelli dello storico Gianni Oliva: mentre Servello ne citava un brano usandolo per denunciare il mito «autoassolutorio» della Resistenza, sul fronte opposto, Vittoria Franco ne utilizzava un’altra frase all’interno di una impegnata perorazione perché le foibe fossero considerate «un fenomeno dovuto sia alla politica di italianizzazione forzata da parte del fascismo, che mirava all’annullamento dell’identità nazionale delle comunità slovene e croate, sia alla politica espansionistica di Tito per annettersi Trieste e il goriziano».
Nell’uso pubblico della storia era così allora ed è così oggi: non tesi che si confrontano sulle fonti e sui documenti, ma argomentazioni che diventano nodosi randelli da brandire contro i propri avversari. E le vicende del passato sono degradate a puri pretesti.

il manifesto 10.2.19
La guerra civile di Guaidó e Trump senza il popolo
Venezuela. In preparazione un attacco militare al Venezuela di Maduro. Ma otto venezuelani su dieci sono contrari all’intervento: dialogate. E le forze armate rimangono compatte al fianco del governo bolivariano
di Claudia Fanti


Sordo agli appelli al dialogo provenienti da ogni parte, il presidente fantoccio Juan Guaidó va avanti senza esitazioni per la strada indicatagli dall’amministrazione Trump. Ed esattamente come il presidente Usa, che aveva definito il ricorso alle armi «un’opzione», anche il leader di estrema destra non ha voluto escludere la possibilità di una guerra. Interrogato sulla sua disponibilità ad autorizzare un intervento militare, Guaidò alla Afp ha risposto: «Noi faremo tutto il possibile. È ovviamente un tema molto polemico, ma facendo uso della nostra sovranità, nell’esercizio delle nostre competenze, faremo il necessario».
Già precedentemente l’autoproclamato presidente ad interim aveva voluto mostrare i muscoli: «Il 90% dei venezuelani non teme una guerra civile perché vuole un cambiamento». E ciò malgrado un sondaggio dell’istituto Hinterlaces indicasse tutto il contrario: l’86% della popolazione si oppone a un intervento militare e l’84% è a favore del dialogo tra governo e opposizione.
A prendere molto sul serio la minaccia di una guerra è sicuramente la diplomazia russa. In conferenza stampa, la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha definito «ovvia» la conclusione che «Washington ha deciso di ricorrere alla forza» e che «tutto il resto non è altro che un’operazione di copertura».
Già il 30 gennaio l’analista militare Dylan Malyasov informava su Facebook che l’esercito statunitense aveva cominciato a predisporsi per la guerra. Il Venezuela, scriveva, «ha 90 giorni di tempo. È stato emesso un ordine relativo alla preparazione di un attacco aereo contro i principali centri militari e politici del paese, le basi di difesa aerea e le forze navali», combinato con un «dispiegamento di truppe terrestri in Colombia».
Tuttavia, secondo, quanto scrive sull’agenzia russa Sputnik l’antropologo venezuelano José Negrón Valera, esperto di guerra non convenzionale, controterrorismo e intelligence, le cose non sarebbero così semplici. L’esercito parallelo che gli Stati uniti stanno organizzando in Colombia, costituito per lo più da paramilitari e bande criminali legate al narcotraffico, sarebbe del tutto inadeguato a contrastare una forza armata come quella bolivariana (Fanb), con i suoi circa 250mila militari e gli avanzati armamenti russi a sua disposizione, a cominciare dagli aerei da combattimento Su-30MK2.
Senza contare l’incorporazione nella Fanb di più di due milioni di miliziani, nell’ottica della dottrina militare venezuelana di difesa integrale del territorio, quella della «guerra di tutto il popolo».
È per questo che la priorità degli Usa, secondo l’esperto militare russo Yuri Liamin, è minare la compattezza delle forze armate bolivariane, finora con scarsi risultati. Nell’attesa, Juan Guaidó si è rivolto di nuovo alla piazza, convocando manifestazioni per oggi e martedì, allo scopo di esigere la fine definitiva dell’«usurpazione» di Maduro. «Continueremo fino a raggiungere il nostro obiettivo», ha detto, ribadendo il suo impegno a «far arrivare l’aiuto umanitario».
Benché sia chiaro che non è questa la via per rovesciate Maduro, la presenza di gente per le strade si rivela comunque utile sul piano mediatico, specialmente di fronte al sistematico oscuramento da parte della grande stampa delle mobilitazioni del popolo chavista, impegnato in questi giorni in una grande raccolta di firme contro un possibile intervento militare statunitense.

La Stampa 10.2.19
Venezuela, la crisi sulla pelle delle donne
A Bogotà il 90% delle prostitute arriva dal Venezuela
Quando sono arrivate hanno scatenato una guerra dei prezzi acconlocalidi un sesto della paga delle colleghe
Migliaia di giovani fuggite in Colombia sono costrette a prostituirsi: “Maduro ha distrutto il nostro Paese”
di Filippo Femia


To be or not to be: that is the question: whether 'tis nobler in the mind to suffer whe slings and arrows of outrageous fortune, or to take arms against a sea of troubles, and by opposing end them? To die: to sleep; no more; and by a sleep to say we end the heart-ache and the thousand natural shocks that flesh is heir to, 'tis a consummation devoutly to be wish'd. To die, to sleep; to sleep: perchance to dream: ay, there's the rub; o sleep: perchance to dream: ay, there's the rub; for in that sleep of death what dreams may come when we have shuffled off this mortal coil, must give us pausssscssxscscscscscce:a bare bodkin?
In un giorno Salomé guadagna il doppio di quello che prendeva in Venezuela in un mese. È fuggita come quattro milioni di connazionali, molte di loro donne. Maestre, impiegate statali, negozianti, che la fame e la disperazione hanno trasformato in prostitute. È l’effetto dell’iperinflazione - stimata in 10 milioni per cento per il 2019 - e dell’economia al collasso vissuta sulla pelle delle donne che hanno scelto la vicina Colombia (dove la prostituzione è legale). L’altra faccia della crisi in cui il governo Maduro ha sprofondato il Paese.
Tutte sono arrivate con un titolo in mano in cerca di lavoro. La realtà è stato uno schiaffo doloroso. Le più fortunate hanno trovato lavoro nei bordelli o nelle case di appuntamento di lusso. Molte sono rimaste invischiate nei circuiti dello sfruttamento e della schiavitù sessuale.
Secondo i dati dell’Osservatorio sulle donne e l’uguaglianza di genere di Bogotà, nella capitale colombiana tre prostitute su dieci sono venezuelane, il 90% delle squillo straniere. «Più che un’invasione è diventata un’epidemia», dice Alejandra, una madame, come sono chiamate le maîtresse, con dieci anni di esperienza. L’arrivo delle venezuelane ha scatenato una guerra per le tariffe. «Loro si accontentavano di 60 mila pesos (20 euro), una miseria per chi come noi ne chiedeva 250 mila (90 euro)», racconta. Ma invece dello scontro, ha scelto l’alleanza: le ha portate nel suo bordello e ora lavorano per lei. Il fascino esotico delle venezuelane, racconta, ha conquistato i clienti. Molte colombiane hanno iniziato a simulare l’accento caraibico per risultare più attraenti.
Tutte le venezuelane sperano di tornare, poche ci riescono. Per questo non mostrano il volto, perché i familiari non sappiano cosa fanno in Colombia. «Credono che a casa non sospettino nulla, ma si illudono. Arrivano soffrendo la fame e d’improvviso inviano soldi alla famiglia, come lo spiegano?», chiede Alejandra.

La Stampa 10.2.19
Armi, alleanze militari e aiuti finanziari
La Cina stringe l’assedio attorno all’India
Dal Bhutan allo Sri Lanka, la Repubblica popolare espande il suo controllo nel Sudest asiatico
di Carlo Pizzati


Con pazienza e perseveranza la Cina continua a tessere la sua collana di perle attorno all’India. Più che una collana, sembra un cappio attorcigliato da una strategia politica e militare mirata a contenere il sub-continente. Pechino piazza le sue pedine per un controllo sempre più stretto in una zona che parte dal Sudest asiatico e termina in Africa, passando per il Pakistan a ovest, il Bangladesh a est, le nazioni dell’Himalaya a nord e, a sud, Maldive, Sri Lanka, Seychelles e Mauritius.
Le alleanze
Tira di nuovo un brutto vento tra i picchi ghiacciati delle montagne più alte del mondo. L’ambasciatore cinese a New Delhi è andato in visita nel Bhutan proprio questa settimana, mettendo in agitazione gli indiani. Difatti, meno di due anni fa a Doklam ci fu un mezzogiorno di fuoco tra l’esercito popolare cinese e i militari indiani ai confini del Sikkim. La questione pareva risolta, ma oggi le foto satellitari mostrano che cresce lo spiegamento di caccia da guerra cinesi, nei due aeroporti a nord del Bhutan, e di quelli indiani nei due aeroporti a sud della frontiera. La Cina ha poi sfoggiato il suo drone armato da alta quota, il GJ-2, facendolo volare sull’Everest. Individua e uccide terroristi uiguri, ha detto Pechino. Ma stabilisce anche controllo di intelligence e una superiorità nelle battaglie d’alta quota che preoccupano New Delhi. Tant’è che il governo Modi ha appena annunciato, in risposta, la costruzione di 44 strade strategiche lungo il confine di 2100 km con la Cina.
In Nepal, l’alleanza di governo comunista vede con favore gli accordi appena firmati con Pechino su carburante e trasporti, in risposta a un’eccessiva dipendenza dagli aiuti indiani. Nel Tibet occupato, la Cina costruisce dighe che rallentano il flusso del fiume Brahmaputra verso l’Assam indiano. E allora New Delhi firma un nuovo progetto ferroviario per consolidare l’apertura verso il Sudest asiatico attraverso il Bangladesh. E l’Afghanistan resta il secondo beneficiario di aiuti indiani per stabilire un passaggio a nord del Pakistan filo-cinese, aggirando il nemico, e raggiungere il porto iraniano di Chabahar.
I Paesi più piccoli approfittando di questo gioco di scacchi tra colossi. Maldive e Sri Lanka sono l’esempio perfetto per capire come funziona questo “smart game”: si ottiene assistenza militare ed economica dalla Cina, magari all’interno dell’iniziativa cinese Belt and Road che mira a finanziare progetti di infrastrutture e sviluppo, e poi l’India è costretta ad alzare la posta e offrire di più. Come ha dichiarato il ministro per i progetti speciali dello Sri Lanka: «L’India è nostro fratello, ma la Cina è il nostro amico».
Il prezzo politico di questo gioco è alto, come s’è visto nel mezzo colpo di stato un anno fa alle Maldive, ora con governo pro-India, e nel fallito colpo di stato autunnale nello Sri Lanka, dove a dicembre è tornato al potere, per ora, un premier pro-Occidente.
Ma l’Oceano Indiano, secondo i più pessimisti, rischia di divenire sempre più un Oceano Cinese: protetto a ovest dalla base militare cinese a Djibouti, passando per la base prevista in Pakistan e arrivando nei porti commerciali di Sri Lanka, Maldive, Bangladesh e Birmania.
La risposta di Delhi
Cosa farà l’India? Si appoggerà sempre più al Quadrilatero voluto da Trump, con Giappone e Australia? Opterà per un ritorno all’antico non-allineamento di Nehru, mettendosi alla guida dei Paesi più piccoli per salvarsi da uno scontro Cina-Usa?
Per ora Delhi allunga le mire verso l’Africa, aumentando gli aiuti economici a Seychelles e Mauritius. Nella gara per il mare nostrum asiatico al momento la lotta è impari, però gli scenari di un’improbabile, ma non impensabile, guerra navale sino-indiana non sono netti. Vero, la Cina spende tre volte tanto l’India in armamenti e difesa, ha 73 sottomarini da guerra contro i 17 indiani, 92 fregate e corvette, contro le 32 indiane. Se scoppiasse una guerra in questi mari, sarebbe Godzilla contro Bambi. Ma il Bambi indiano è una potenza nucleare che ha dalla sua la vicinanza geografica del possibile teatro di battaglia, l’appoggio di partner potenti e una marina protetta da un’aviazione di piloti esperti.
«Solo i numeri possono annientare» diceva l’ammirevole ammiraglio Horatio Nelson. Ma in questo punto caldo dell’Asia, la partita è ancora aperta.

Il Fatto 10.2.19
Dietro al Muro di Trump anche la star di Cuarón
Messico - Alla notte degli Oscar il 24 febbraio potrebbe non arrivare Jorge Guerrero, protagonista di “Roma”, uno dei tanti “straccioni” a cui gli Usa hanno rifiutato il visto
Jorge Guerrero: “Se si riuscisse a far leggere a qualcuno dell’ambasciata le lettere di invito agli Oscar, forse capirebbe la mia figura artistica e lo scambio culturale che è in atto tra le due nazioni”
di Alessia Grossi


Non ci sono soltanto le migliaia di centroamericani della carovana dei migranti a spingere alla frontiera del Messico con gli Stati Uniti. Pericolosi perché “trafficanti di droga”, secondo l’ultima campagna del Presidente Donald Trump. A chiedere di scavalcare il muro, quello che già c’è a Tijuana e quello che The Donald vorrebbe costruire, c’è anche Jorge Antonio Guerrero, Fermin, uno dei protagonisti del film Roma di Alfonso Cuarón, candidato agli Oscar 2019 con 10 nomination. L’attore messicano, classe ‘93, infatti, pare non sia persona gradita negli States, essendosi visto rifiutare per tre volte il visto di ingresso. Motivo per il quale Cuarón dovrà accontentarsi di portare – come già per i Golden Globes – al Dolby Theatre di Los Angeles il 24 febbraio un cast ridotto rispetto alle statuette che potrebbero essergli assegnate. Paradosso nel paradosso, visto che il lavoro racconta proprio il Messico col quartiere Roma di Città del Messico, con la sua miseria, le sue violenze e la sua disperazione.
Ma Guerrero non è certo l’unico “discriminato” della pellicola già vincitrice del Leone d’Oro alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia. Ad essere diventata quasi più famosa di Trump – per le sue doti attoriali e per la sua storia – è la candidata agli Oscar come miglior attrice protagonista di Roma,Yalitza Aparicio, prima donna messicana dopo 17 anni, cioè dopo la nomination di Salma Hayek nei panni di Frida (Khalo), a contendersi la statuetta d’oro con volti del calibro di Lady Gaga o Melissa McCarthy. Ah, povero Donald: aivoglia a ripetere “America First”.
Di origine mixteca, Yalitza è passata dalle aule di campagna di Oaxaca, regione messicana attraverso cui proprio in questi giorni transita la seconda carovana di migranti e dove lei insegnava ai bambini della materna alla copertina di Vogue Messico. Come nelle migliori tradizioni dei provini, infatti, sua sorella maggiore, nel vederla afflitta dalle lotte sindacali per ottenere una cattedra fissa, le suggerisce di presentarsi a un casting segreto. Così, lei che per Cuaron è “una donna impressionante. Senza aver mai calcato un set cinematografico, il secondo giorno di riprese aveva già interiorizzato tutto il processo ed era entrata nel personaggio di Cleo”, ha raccontato il regista, ora è in odore di Oscar. Pensare che solo tre anni fa, Aparicio era una delle centinaia di abitanti a rischio povertà del municipio di Tlaxiaco: 40 mila residenti, 4 su 10 senza rendita fissa e un sindaco assassinato pochi minuti dopo aver giurato. Yalitza d’altronde conosce bene la violenza. Sua madre, Margarita, è un’indigena triqui originaria di San Juan Copala, una comunità stravolta dalle faide politiche. Lei e i suoi tre fratelli vivono in una colonia di Tlaxiaco, una ex pista d’atterraggio clandestina. Per tirare avanti nel tempo libero dopo le lezioni aiuta la famiglia a costruire pignatte. Ma un altro destino l’attende e non è quello della tratta di donne, come lei teme al sentir parlare di provino segreto. Yalitza supera le selezioni in città e parte per Città del Messico accompagnata dalla sua traduttrice Nancy Garcia, che nel film di Cuaron sarà Adela.
È tutto così assurdo che neanche lei ci crede: quando le dicono il nome del regista con cui avrebbe girato lo cerca su Google, non ha idea di chi sia, ma le foto che trova sono vecchie e allora torna a temere che l’uomo che ha davanti la stia ingannando: che si tratti di reclutamento di cammelli per il traffico di droga. Prova a scappare dal set, ma Cuaron la bracca: somiglia troppo alla donna che diventò la sua tata nella casa del quartiere Roma Sur, anche detto “La Roña”, dove il regista è tornato in questi giorni, per lasciarsela scappare. Perché è proprio qui che è iniziato tutto: nel sogno residenziale della borghesia messicana dei primi del 900, convertitosi – 18 anni dopo – nel quartiere bohemien della Rivoluzione, fino a diventare – dopo i crolli e l’abbandono post-sisma dell’‘85 la periferia degradata per antonomasia. Quella che Trump vuole cancellare dalla coscienza collettiva o far passare come fonte di ogni male, aizzandone l’ombra sul muro divisorio. Ma Jorge e Yalitza sono l’incarnazione della risposta alla domanda: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? ”.

Repubblica 10.2.19
Anja Rubik
In Polonia una top model sfida il governo in nome del sesso sicuro
di Andrea Tarquini


Di che cosa stiamo parlando
Dal momento del suo arrivo al potere nel 2015, il partito Legge e Giustizia, PiS, di Jaroslaw Kaczynski ha spostato la Polonia verso posizioni sempre più chiuse e conservatrici. Varsavia ha scontri continui con la Ue su temi come gestione dei migranti, l’indipendenza della magistratura e anche la memoria dell’Olocausto. Dal punto di vista sociale, il PiS ha sposato le posizioni più conservatrici della Chiesa in tema di aborto, fecondazione assistita e anche sulla possibilità che le donne lavorino

La nuova sfida della società civile alla maggioranza di governo polacca ha il volto di una delle più celebri top model del Paese, testimonial per grandi marchi, da Louis Vuitton a Dolce e Gabbana. Si chiama Anja Rubik, e ha ingaggiato una battaglia contro la politica arci-conservatrice del partito al potere dal 2015 (PiS, Prawo i Sprawiedlywosc cioè Legge e Giustizia). Una battaglia in nome del diritto dei giovani all’educazione sessuale.
Per ragazze e ragazzi, Anja è diventata un’eroina. I suoi 14 video che spiegano tutto ai giovani su amore, sesso sicuro, contraccezione e precauzioni contro malattie veneree, vanno a ruba. Il suo libro, Sexedpl, ha venduto oltre 130mila copie.
Era pensato come libro di testo per le scuole e scritto in conformità alle leggi sui testi scolastici, ma l’esecutivo lo ha vietato. Anja Rubik aveva cominciato a lanciarsi nell’impegno politico partecipando attivamente alla lotta del movimento femminile polacco per le pari opportunità e contro ogni discriminazione.
A cominciare dalle durissime leggi che vietano l’interruzione di gravidanza e ogni anno costringono migliaia e migliaia di polacche a recarsi in Germania, Cechia o Paesi nordici per l’intervento, con salati costi. Adesso ha concentrato il suo attacco contro la crescente offensiva per i valori ultra-tradizionalisti lanciata dal governo, dalla maggioranza della Chiesa cattolica (che spesso censura Papa Francesco) e dall’emittente integralista Radio Maryja. Per la quale ovviamente la top model è un’incarnazione del diavolo.
«Ormai mancano soltanto cacce alle streghe con roghi e leggende con malvagi draghi demoniaci», ha dichiarato Rubik. Spiegando: «Nelle scuole viene detto ai bambini che le mestruazioni sono grida lanciate dall’utero per volere di Dio, grida perché la donna non è incinta e non mette al mondo bambini, figli del signore...con questo governo anziché andare avanti nei diritti delle donne e nella gender equality stiamo regredendo al 19mo secolo e oltre indietro. E la politica governativa contro l’educazione sessuale e l’informazione dei giovani sul tema è una violazione dei diritti all’informazione garantiti dalla nostra Costituzione».
Posizioni e campagna di Anja Rubik sono in rotta di collisione con la politica governativa. Il leader storico del PiS in persona, Jaroslaw Kaczynski (noto agli italiani per il suo recente vertice con Salvini per un’alleanza tra sovranisti alle elezioni europee) ha chiesto e di fatto imposto al governo un’offensiva «per curare l’Europa malata nell’etica di secolarismo, e riportarla sulla via della salute, della vera libertà, del rafforzamento della nostra civiltà basata sui valori cristiani». Nelle scuole viene insegnata l’etica della vita familiare, col primato della famiglia in base a una rigida divisione di ruoli privati e pubblici tra donne e uomini.
Anja Rubik e le sue amiche dei movimenti femminili come Klementyna Suchanow ora vogliono organizzare workshops sull’educazione sessuale e lanciare un appello alle grandi aziende (polacche e di altri Paesi che investono in Polonia) perché sponsorizzino la campagna in nome della modernizzazione del Paese.

Il libro #Sexedpl La modella polacca Anja Rubik, 35 anni, alla presentazione del suo libro "#Sexedpl": doveva essere un manuale scolastico sull’educazione sessuale, ma è stato vietato

Repubblica 10.2.19
Cina
Gli intrighi alla Città proibita non piacciono al partito Censurata la serie dei record
di Filippo Santelli


PECHINO Chi pensa di ostacolare Wei Yingluo non si faccia ingannare dal suo bel visino: «Ho mille modi per colpirlo».
Strategia e inganno, veleno e violenza, solo così una ragazza entrata alla corte dell’imperatore da serva, per vendicare l’assassinio della sorella, può finire per diventarne la consorte.
Ma c’è un avversario di fronte a cui pure questa Kill Bill versione cinese, epoca Qing, ha dovuto piegarsi: l’implacabile censura del Partito comunista. Le serie televisive ambientate nel periodo imperiale hanno una «influenza negativa sulla società», ha scritto qualche giorno fa il settimanale di dottrina politica (sic) dell’ufficialissimo Beijing Daily, perché promuovono uno stile di vita basato sul lusso e sul piacere anziché virtù socialiste come «frugalità e duro lavoro». E tra le serie incriminate il dito non poteva che puntare verso quella che ha ipnotizzato i giovani cinesi, battendo ogni record di popolarità: la Storia del Palazzo Yanxi, l’epopea stalle-stelle di Wei Yingluo. Critica ispirata dall’alto, che è subito arrivata a chi di dovere, visto che dopo poche ore il telefilm era sparito dai palinsesti delle televisioni nazionali. Poco male, verrebbe da dire, visto che come molti dei prodotti più avanzati dell’intrattenimento mandarino Yanxi Palace nasceva per lo streaming, prodotta e distribuita dalla piattaforma iQiyi, la Netflix cinese. Ed è in Rete che tra lo scorso luglio e ottobre i suoi 70 episodi hanno stracciato i primati di visualizzazioni (15 miliardi in totale) conquistando il pubblico, soprattutto quello femminile, con la magnificenza dei costumi, le coltellate alle spalle tra concubine di corte e la novità della figura di Wei Yingluo, così diversa dalle dimesse e accondiscendenti protagoniste dei precedenti drammi in costume. La cosa più vicina a un simbolo femminista che il mondo cinese abbia avuto di recente. In quei giorni in metropolitana gli occhi erano tutti agli smartphone, sintonizzati sull’ultimo episodio uscito. Insomma se l’obiettivo della censura era evitare che gli eccessi di corte ammaliassero il popolo, ormai il danno è fatto. Ma se la potente Amministrazione nazionale di radio e televisione ha ritenuto comunque di intervenire, il messaggio non va sottovalutato.
L’ennesimo segnale che la libertà di creazione sotto il regime del presidentissimo Xi Jinping si sta restringendo. Anche le piattaforme online, finora vissute in una bolla di relativa autonomia rispetto a cinema e tv di Stato.
Negli ultimi mesi, in rapida successione, sono arrivati attacchi contro i reality e la cultura del divismo, contro i tatuaggi esposti al pubblico, contro il talent show Rap of China, altro enorme successo ma giudicato troppo esplicito nei suoi versi, e ora contro le serie in costume, un classico dell’industria cinematografica locale. «Non ci resta che guardare i drammi di guerra anti-giapponesi», commentava qualcuno in Rete, sconsolato. Perché il salto di qualità delle nuove serie online, per quanto non ancora a livello di quelle americane, è evidente: Yanxi Palace è stata esportata in 70 Paesi, forse approderà in versione ridotta persino negli Stati Uniti. E pur essendo girata prima dello scandalo evasione fiscale che ha colpito la superstar Fan Bingbing, la produzione era già in linea con la nuova austerità imposta dal governo: il cachet degli attori ha assorbito appena un decimo dei costi, gran parte dei quali dedicati a ricostruire la Città proibita di epoca imperiale. Eppure neanche questo ha risparmiato ai creatori l’accusa di mettere «il profitto al di sopra dell’indirizzo spirituale» dei cittadini. Qualunque cosa voglia dire.

Il Fatto 10.2.19
Il primo re fonda Roma e il Fascismo
di Furio Colombo


Il primo re nasce in un gruppo di uomini nudi che si massacrano senza sosta. Istinto e forza animale guidano a scartare il peggio (la mazza chiodata sul cranio) per poter trapassare da parte a parte il nemico. Visto dalla lontananza dei secoli, non è chiaro chi sia il nemico, nel groviglio dei corpi. Poi si capisce la regola: perde il massacrato e vince il massacratore. C’è sangue e fuoco e fango (fango di guerra, forse premonizione della trincea di tanti secoli dopo) e questi uomini del primo re non hanno altro che i corpi (di idee non se ne parla) per offendere o per vincere, consacrando la vittoria con l’estrazione e il pasto di viscere del nemico.
Nemico è chiunque non sia, anche per caso, dalla tua parte, oppure mostri di ribellarsi. Sangue e carni squarciate, ce n’è per tutti. La differenza è vivere ben schizzati di sangue e segnati di gloriose ferite, col piede su un uomo morto. O essere l’uomo morto, ucciso nel più violento dei modi. Donne, nessuna. Nel senso che una donna, una sola, lugubre, e con l’aria di aspettarsi il peggio, ha il ruolo di sacerdotessa o di maga, osserva cauta e prende ordini dai maschi insanguinati, tenuto conto che uccidono. Altre donne sono intraviste come bambine o come popolo che aspetta il re, quello che ucciderà di più. È il re perché, persino trapassato da un’enorme lama, ecco che torna, e guida e decide subito che chi non è con lui è in soprannumero.
Scordatevi la gioia, benché il racconto (ovvero il film di Rovere, che si intitola Il primo re) si proponga di narrarci la riuscita carriera politica di Romolo. Dunque il sentimento è la ferocia, con il respiro e i tratti della ferocia, mostrata come il volto giusto del guerriero. E il guerriero è presentato come la sola possibile incarnazione dell’uomo. Che altro fare se non uccidere? Il futuro è sempre al di là di cataste di corpi sterminati. Nelle pause, il sentimento è progetto di morte: “E adesso a chi tocca sottomettersi o finire squarciato?”.
Prima dei titoli di coda, su fondo nero, compare la scritta “Roma. Tremate”. Poiché, quando compare quella scritta, tutti hanno già visto il film, sappiate che nessuno, in sala, ha voglia di scherzare, benché quella frase, in quel punto e contesto, sembri scritta da Propaganda Live. L’umore cupo del regista e del film ormai è calato su tutti. Perciò la scritta sullo schermo può essere letta con le parole di “Sole che sorge” o della strofa chiave di “Fuoco di Vesta”, inno quotidiano dei bambini delle scuole fasciste: “Verrà, quel dì verrà, che la gran madre degli eroi ci chiamerà. Una maschia gioventù, con romana volontà combatterà”. Lo spettatore, stordito da un ritorno così rapido e disinvolto del fascismo, senza trucchi e senza inganni (non il fascismo come insulto, ma il sistema politico che per un periodo ha dominato la storia italiana, così come lo trovate scientificamente descritto sulla Treccani), si domanderà perché nessuno glielo ha detto.
Per questo ho letto volentieri, sul Fatto Quotidiano, ciò che ne ha scritto Pietrangelo Buttafuoco. Ha visto il film per quello che è, un buon lavoro cinematografico di questo regime, come Luciano Serra Pilota e L’Assedio dell’Alcazar lo erano stati per il regime finito (temporaneamente, adesso sappiamo) nel 1945. La vigorosa scrittura di Buttafuoco fa onore al film esattamente per quello che è: la celebrazione dei “colli fatali di Roma”. Eppure non è tutto. Tenete conto che questo è il tempo di Kerigma, il libro in cui il sottosegretario Ceresani (che è stato con la Boschi a Palazzo Chigi e, in omaggio al “cambiamento”, sta adesso con Fontana-Salvini al ministero della Famiglia) ha annunciato l’Apocalisse e ha scritto: “La scomparsa della Verità, dietro il nuovo dogma imperante del relativismo etico, condusse a legittimare le pratiche più disumane come l’aborto e l’eutanasia.” Il primo re, condotto sui sacri colli dall’attento regista, lo sa e capisce che diventerà re (a Roma) solo se si schiera con Dio. Remo invece deve essere ucciso perché osa dirsi non credente. Ha così luogo il primo Concordato, nel senso che Roma non può nascere senza un accordo, anche un po’ costoso, con Dio.
Non so, invece, se attribuire a Romolo o a Rovere la fondazione contestuale del sovranismo. Romolo, a differenza di Remo, che è élite, non vuole confini aperti e fa mettere fuochi tutto intorno a ciò che sarà Roma. Chi finge di non vederli farà, da subito, la fine degli immigrati tanti secoli dopo, quando la guardia costiera italiana e quella libica non sentono le chiamate disperate di soccorso di chi sta affogando.
Ma secondo il primo re e l’ultimo governo, Roma è sempre stata così, salvo un breve intervallo di democrazia.

Corriere La Lettura 10.2.19
Tutte le morti di Alessandro Magno
di Francesco Maria Galassi


La morte di Alessandro Magno, avvenuta nel giugno del 323 a.C. a Babilonia, rappresenta da 2.342 anni il più grande mistero medico della storia. La sola idea che un condottiero capace, così giovane, di piegare l’antico ed acerrimo nemico dell’Ellade, l’Impero persiano, in pochi anni, estendendo i confini del mondo greco all’Egitto e all’India, potesse spegnersi così repentinamente, il solo pensiero che una storia così travolgente potesse interrompersi proprio nel momento in cui le armate macedoni stavano per invadere — e scoprire — l’Arabia, è stata assai difficile da accettare per generazioni di appassionati di storia antica. Questa mancata accettazione di un fenomeno naturale, la morte, insieme alla miriade di versioni contrastanti, spesso di dubbia veridicità, degli ultimi giorni di vita del condottiero, è all’origine della lunga lista di interpretazioni sulla fine di Alessandro.
Quot capita, tot sententiae, avrebbero detto gli antichi… noi parafrasiamo «quanti gli esperti, altrettanti i pareri». E di pareri ne sono stati formulati davvero tanti, raggruppabili in due macro-aree, quella a cura degli storici e quella prodotta dai medici appassionati di storia. La prima schiera si è sostanzialmente attestata su due teorie: l’avvelenamento (teoria facilmente confutabile e più volte confutata, ma antica e ciclicamente riproposta) e la malaria, malattia infettiva oggi di fatto scomparsa alle nostre latitudini, ma un tempo flagello del mondo mediterraneo. La seconda schiera, anche grazie al superiore grado di approfondimento delle scienze biomediche, è stata quella più prolifica nel produrre nuove interpretazioni sulla morte di Alessandro, tra cui l’intossicazione acuta da alcol, l’epatopatia alcolica, una depressione seguita da immunodepressione, dissecazione post-traumatica della carotide interna, sindrome di Boerhaave, encefalite causata dal virus del Nilo occidentale, leucemia, ecc. In Italia, la teoria che ha avuto più successo, anche in conseguenza dall’ampio spazio datole dal celebre romanziere Valerio Massimo Manfredi nel suo saggio La tomba di Alessandro, è quella che vuole il re vittima di una pancreatite acuta necrotizzante, una infiammazione devastante del pancreas, teoria proposta per la prima volta da Sbarounis negli anni Novanta. Non si può negare che alcune fonti antiche, quali Giustino e Diodoro Siculo, menzionino un dolore improvviso, quasi venisse trafitto da un giavellotto, avvertito da Alessandro (evento che precede l’inizio del suo declino fisico). La diagnosi di pancreatite acuta necessiterebbe, però, anche di altri sintomi, tra cui il vomito e la dolorabilità addominale, mai citati nelle fonti antiche.
L’ultima ipotesi è quella della dottoressa neozelandese Katherine Hall, che propone una malattia neurologica autoimmune, la sindrome di Guillain-Barré, quale spiegazione del decesso di Alessandro, che addirittura sarebbe stato considerato morto, pur essendo ancora vivo. Da qui è derivata e si è diffusa in maniera virale la versione vulgata, ancora più fantasiosa, secondo cui «Alessandro fu sepolto vivo». Giova ricordare che il cadavere del Macedone non fu mai sepolto, bensì venne imbalsamato. Tolomeo, un tempo generale di Alessandro e ormai padrone dell’Egitto, non perse tempo e si impossessò del feretro che trasportava le spoglie del suo antico signore: la mummia di Alessandro venne trasportata nella terra dei Faraoni. Per secoli la mummia si trovò ad Alessandria d’Egitto, città fondata da Alessandro stesso, e fu oggetto di visite celebri, forse anche di quella di Giulio Cesare, certamente da parte di Augusto che, piegandosi su di essa, finì per fratturarne accidentalmente il naso, per concludere con l’intervento dell’imperatore romano Caligola, che fece rimuovere la corazza del condottiero per possederla egli stesso.
Sul finire dell’antichità classica, in seguito alle numerose devastazioni della città di Alessandria, si è perso traccia sia della tomba che della mummia di Alessandro. Questo solo elemento — l’assenza del corpo — limita fortemente la nostra capacità di effettuare una diagnosi retrospettiva accurata, determinando una volta per tutte la causa mortis. Rimangono le già citate fonti, successive peraltro all’epoca in cui si svolsero i fatti, che richiedono grande cautela interpretativa. Formulare nuove ipotesi sulle cause di morte dei grandi del passato è senz’altro legittimo e lo studio della Hall presenta elementi di grande interesse, quali l’effettiva capacità degli antichi di certificare il decesso di un individuo sulla base dei parametri fisiologici (circolazione, respirazione).
Questo genere di studi, tuttavia, per poter rivendicare credibilità in seno alla ricerca, dovrebbe seguire le linee guida proposte dalla Paleopathology Association o, comunque, sforzarsi di raccordare le interessanti speculazioni mediche con la storia della malattia analizzata e con il contesto storico e culturale in cui questa diagnosi è formulata. Lo studio della Hall, per esempio, omette di analizzare filologicamente nelle lingue originali (greco e latino) i passi chiave portati a supporto della propria tesi, non fornisce argomentazioni sufficienti a confutare teorie proposte in precedenza, non considera il fatto che non c’è prova dell’esistenza della sindrome di Guillain-Barré nel IV secolo a.C. (venne descritta scientificamente solo nel 1916), come pure manca l’evidenza (e le fonti letterarie comunque non basterebbero a fornirci questo dato) che Alessandro avesse sviluppato un’infezione da Campylobacter pylori o altri patogeni, a cui sarebbe seguita una risposta del sistema immunitario capace di aggredire paradossalmente il corpo del Macedone. Infine, il dato più contestabile: la probabilità della diagnosi asserita sulla base della attuale epidemiologia della sindrome nell’Iraq contemporaneo!
Attenendoci ai dati ricavati dalle fonti antiche, analizzati attraverso le lenti della filologia e della medicina moderna, le due diagnosi più probabili e realistiche nel caso di Alessandro restano la malaria terzana maligna e il tifo addominale, tesi quest’ultima sostenuta da Ernesto Damiani nel suo saggio meticoloso La piccola morte di Alessandro il Grande (Padova, 2012).
Il caso è aperto, forse lo sarà per l’eternità, ma il fatto che non possa essere messa la parola fine al mistero non significa che qualsiasi diagnosi possa essere formulata in barba al rigore logico e ai dati a nostra disposizione. Il dibattito andrà avanti ancora per molti anni. A vincere sarà forse il diagnosta più preciso oppure quello più spettacolare? Alessandro stesso, in punto di morte, a chi gli domandava a chi avrebbe lasciato il suo regno pare abbia risposto: «Al più forte». Così forse sarà anche nell’agone intorno alle cause del suo decesso.

Corriere La Lettura 10.2.19
La persistenza del mito
L’ardore di Achille la mente di Ulisse
E la terra ammutolì al suo cospetto
di Valerio Massimo Manfredi


La mitologia del re macedone nasce quando il suo corpo è ancora caldo: presi da liti furibonde fra chi vuole mantenere l’unità del suo impero fino a che nasca un figlio maschio dalla sua sposa Rossane e chi vuole dividerlo in vari regni, i suoi generali dimenticano che il suo corpo giace da parecchi giorni abbandonato nel palazzo reale di Babilonia, nel colmo della calura dell’estate mesopotamica. Quando finalmente vengono inviati gli imbalsamatori a prendersi cura della salma di Alessandro, invece di un cadavere in avanzato stato di putrefazione trovano un corpo intatto che emana un profumo celestiale tanto che si rifiutano di toccarlo temendo di profanare il corpo di un dio. Nello stesso tempo gli agiografi del re macedone avevano creato la notizia giunta fino a noi che al suo arrivo a Babilonia Alessandro aveva trovato ambasciate da tutto il mondo (Roma compresa!) per riconoscerlo come sovrano universale.
Già si era diffusa la favola che Alessandro non era figlio di Filippo II ma di Zeus Amon che aveva posseduto sua madre Olimpiade sotto le sembianze di un serpente. Ma il mito nacque anche dallo stesso Alessandro: la sua morte prematura faceva immaginare cosa avrebbe fatto se ne avesse avuto il tempo, l’incredibile coraggio che gli fece guidare la carica di Gaugamela in sella a Bucefalo quando tutto ormai sembrava perduto, l’apparente invulnerabilità che egli rese autentica mostrando il torso nudo tempestato di cicatrici ai suoi soldati in rivolta; il suo sguardo ardente, la vitalità senza limiti che lo faceva riapparire sui campi di battaglia quando ormai tutti lo credevano morto, la possanza guerriera di Achille e la mente di Odisseo, il furore selvaggio del guerriero arcaico e la mente riflessiva del filosofo, l’eloquenza travolgente, la sua iconografia affidata al genio plastico di Lisippo e a quello pittorico di Apelle e a nessun altro.
Non fu l’immensità dei territori conquistati a farlo grande, ma la grandezza dei suoi pensieri e dei suoi sogni. La capacità di fondere insieme mondi che neppure sapevano l’esistenza gli uni degli altri e amalgamarli come in un crogiolo per crearne un altro nuovo e diverso. Fu quel mondo a costruire la più grande nave che avesse solcato i mari, la più grande statua mai innalzata, la più grande biblioteca, la torre del Faro il cui raggio era visibile da quaranta chilometri. Per questo ancora oggi continuiamo a cercare il suo corpo e la sua tomba perduta. Per questo il primo libro dei Maccabei descrive così l’effetto della sua titanica apparizione: et siluit terra in conspectu eius, «e la terra ammutolì al suo cospetto».

Correre La Lettura 10.2.19
Miseria e lussuria
Il destino di Weimar
Cent’anni fa nasceva la prima repubblica tedesca, fragile e delegittimata
Una Costituzione avanzata, una vita culturale intensa, costumi disinibiti, ma anche inflazione edisoccupazione incontenibili, famiglie alla fae
Berlino sembrava la nuova Babilonia del vizio e dello splendore, ma tutto venne stroncato dall’avvento al potere di Adolf Hitler
di Ranieri Polese


Alla vigilia delle elezioni europee, torna il ricordo dei brevi, tempestosi anni della Repubblica di Weimar. La prima repubblica della storia tedesca, nata all’indomani della sconfitta e dell’abdicazione del Kaiser Guglielmo II (novembre 1918), durò fino alla presa del potere di Adolf Hitler nel 1933. Parlando dell’edizione italiana di D eutschland, Deutschland über alles (appena uscita da Meltemi), violento manifesto di satira politica di Kurt Tucholsky con le immagini di John Heartfield, pubblicato nel 1929, Vittorio Giacopini scrive: «Torniamo a leggere questo libro adesso, tristissimamente è il momento giusto». E così, sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», Wolfgang Schneider: «Di questi tempi, ripensare alla Repubblica di Weimar provoca un diffuso senso di angoscia», nel timore appunto che la sorte di quella «democrazia poco amata» possa ripetersi. Siamo del resto in presenza di una crisi economica che, se non può essere paragonata all’iper-inflazione del 1923 e al crollo del 1929-30, genera comunque crescente disagio e scontento. Qualcuno, addirittura, ha rievocato la durezza con cui i vincitori della guerra costrinsero la Germania a pagare le riparazioni di guerra (nel 1923 l’esercito francese occupava la Ruhr) parlando del modo con cui Bruxelles e Berlino hanno trattato la Grecia.
Se infinite tracce (una sterminata bibliografia, nuovi studi, ristampe di opere di allora, cinema e mostre d’arte) ci riportano a Weimar, si torna a ricordare la sfortunata Repubblica anche perché, cento anni fa, nell’agosto del 1919, il presidente Friedrich Ebert promulgava la nuova Costituzione votata dall’Assemblea nazionale riunita in quella città della Turingia. Prendeva forma, con quel testo, una Repubblica semipresidenziale che introduceva il suffragio universale per uomini e donne. Se quella democrazia fu poco amata, spiegano gli storici, fu perché nell’opinione corrente era stata imposta dai vincitori della guerra e perché dovette sottoscrivere le pesanti riparazioni di guerra previste dal trattato di Versailles. Inoltre circolava con crescente successo la teoria della «pugnalata alla schiena»: se i tedeschi avevano perso la guerra, la colpa era dei ricchi banchieri ebrei.
Esposta a continui attacchi da destra e sinistra, la Repubblica ebbe una vita difficile: a renderla fragile cooperavano miseria, disoccupazione, scioperi, disordini nelle strade. Ci furono tentativi di golpe della destra estrema: quello di Wolfgang Kapp (1920: fu bloccato dallo sciopero generale) e quello di Hitler a Monaco, il «Putsch della birreria» del 1923 (Hitler, arrestato e processato, finì in prigione, dove scrisse Mein Kampf). Terroristi di destra uccisero, nel 1921, il politico cattolico Matthias Erzberger e, l’anno dopo, il ministro degli Esteri Walther Rathenau, entrambi colpevoli di aver sottoscritto gli impegni di Versailles. Anche l’estrema sinistra tentò di rovesciare la Repubblica per creare uno Stato socialista sul modello sovietico: nel gennaio del 1919, l’esercito e le squadre armate dei Freikorps («Corpi franchi», milizie di destra) soffocarono nel sangue la rivolta, e il 15 gennaio Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, fondatori del Partito comunista tedesco (Kpd), furono arrestati e uccisi. Il presidente della Repubblica, il socialista moderato Friedrich Ebert, aveva stretto un patto con lo stato maggiore dell’esercito e aveva dato mano libera ai Freikorps: questo «tradimento» segnò per sempre la frattura tra i comunisti e i socialisti, che presentandosi divisi alle elezioni non riusciranno a contrastare l’avanzata di Hitler.
Eppure, superato l’inverno del 1923 («l’inverno dei cavoli» perché erano l’unica cosa da mangiare), per la Repubblica di Weimar si apriva un periodo migliore. Grazie agli americani, il piano Dawes — una sorta di anticipazione del piano Marshall del secondo dopoguerra — fece arrivare in Germania una grossa quantità di dollari come investimenti nelle industrie tedesche. Per cinque o sei anni (dal 1924 al 1930) l’economia riprese a funzionare, Berlino diventò una delle più vive e attraenti capitali europee. Sono gli anni in cui il ministro degli Esteri Gustav Stresemann ottenne una revisione del trattato di Versailles e fece entrare la Germania nella Società delle Nazioni. Con la sua morte nell’ottobre del 1929 e l’arrivo in Europa delle conseguenze del crollo della Borsa di Wall Street, gli «anni d’oro» finirono. La depressione produsse una enorme disoccupazione e ad approfittare del malessere fu l’estrema destra, il Partito nazista, le cui squadre d’assalto, le SA, seminavano il terrore. L’ultimo atto si consumò nel gennaio 1933, quando il presidente von Hindenburg affidava a Hitler, che aveva ottenuto il 33 per cento dei voti alle elezioni politiche del novembre 1932, l’incarico di formare il governo. Dopo l’incendio del Parlamento (Reichstag) di cui venne incolpato un comunista olandese (27 febbraio) e l’arresto dei deputati della Kpd, nelle nuove elezioni del marzo Hitler ottenne il 43,9 per cento e con i voti dell’alleato Partito popolare nazionale tedesco e del Centro cattolico fece approvare la legge dei pieni poteri (24 marzo), che segnò l’inizio della dittatura.
Anni folli
All’inizio del 1919, Harry Graf Kessler, aristocratico, diplomatico, collezionista d’arte, scriveva nel suo diario: «Stiamo ballando sulla bocca di un vulcano». E un americano in visita in quei giorni a Berlino raccontava che tutti i locali notturni di Friedrichstrasse — bar, cabaret, sale da ballo — erano pieni. Ma quando si usciva, ci si trovava in mezzo agli scontri a fuoco fra comunisti spartachisti e soldati: questo però non scoraggiava i frequentatori di quei luoghi di piacere.
L’aneddoto si trova nel libro Es wird Nacht im Berlin der Wilden Zwanziger («Scende la notte sulla Berlino dei folli anni Venti»), pubblicato da Taschen un anno fa e ora uscito in edizione inglese e francese. Il testo è di Boris Pofalla, scrittore e critico d’arte del quotidiano «Die Welt», mentre Robert Nippoldt è l’autore delle bellissime illustrazioni: immagini che riprendono fotografie dell’epoca che Nippoldt traduce in un contrastato bianco e nero a cui aggiunge campiture di beige a far da sfondo, a suggerire luci e ombre. Correda il volume un Cd con registrazioni d’epoca (Marlene Dietrich, Anita Berber, Jan Kiepura, Lotte Lenya, Kurt Weill, Friedrich Holländer fra gli altri). Gioca, il titolo del libro, sull’equivoco: può voler indicare le folli notti di Berlino-Babilonia, champagne, droga, sesso; ma vuole anche alludere alla buia notte della dittatura che nel 1933 chiuderà i brevi anni della Repubblica di Weimar.
Certo, comunque, testo e immagini raccontano il clima frenetico e tragico di quel periodo, di cui si ritrova l’eco nei romanzi di Volker Kutscher (Feltrinelli pubblica adesso il secondo volume della serie berlinese: La morte non fa rumore) tradotti maestosamente nel film-tv Babylon-Berlin trasmesso da Sky Atlantic. Anni durissimi con migliaia di reduci di guerra senza lavoro, famiglie senza più casa né cibo. Il culmine venne toccato nel 1923, con la iper-inflazione, quando un semplice pezzo di pane arrivò a costare milioni di marchi. È quello il mondo rappresentato dai disegni e dai dipinti di George Grosz, con i mutilati di guerra che chiedono l’elemosina e i ricchi speculatori che bevono champagne.
Eppure, le notti di Berlino continuavano a essere eccitanti... Ecco, in questa contemporanea presenza di piaceri e tragedia, di lussuria e miseria, risiede il fascino inquietante, perverso di quella Berlino. Il cui simbolo, forse, è il ritratto della cantante di cabaret Anita Berber eseguito da Otto Dix. Giovanissima, Anita aveva dato scandalo presentandosi nuda sul palcoscenico; poi, molto prima di Marlene Dietrich, andava in scena vestita da uomo, con lo smoking e il cappello a cilindro. Nel dipinto, fasciata in un abito rosso fuoco, sguardo sprezzante, la bocca rossa come una ferita, Anita Berber esibisce una faccia bianca, quasi spettrale. Un effetto della cocaina, spiega lo storico dell’arte Rainer Metzger. Del resto, il suo soprannome era «la regina della neve». Morì nel 1928, a soli 29 anni per un eccesso di droga e alcol.
Quando, nel 1924, la situazione tedesca aveva cominciato a migliorare, Berlino, città senza tabù, divenne il luogo in cui scrittori, intellettuali, artisti arrivavano per cercare stimoli e ispirazione. È quello che si legge nel libro di Luigi Forte, Berlino città d’altri (Neri Pozza), dove si raccontano i soggiorni berlinesi di Joseph Roth, Luigi Pirandello, Simone Weil, Georges Simenon, Thomas Wolfe, Vladimir Nabokov, Boris Pasternak. Senza dimenticare gli inglesi Wystan Hugh Auden, Christopher Isherwood, Stephen Spender, che vissero a Berlino negli ultimi anni della Repubblica. Isherwood nel 1929 raggiungeva l’amico Auden, che gli aveva descritto il clima euforico di una città dove c’erano tanti ragazzi bellissimi e disponibili. Dei tre, Isherwood rimase a Berlino fino alla primavera del 1933, quando ormai Hitler era al potere. Ebbe il tempo di vedere la fine di Babilonia, e la persecuzione di comunisti, omosessuali ed ebrei.
Di questa tragica delusione parlano i suoi romanzi berlinesi, Mr Norris se ne va e Addio a Berlino (quest’ultimo, nel 1972, sarebbe diventato il musical Cabaret di Bob Fosse, con Liza Minnelli, vincitore di otto Oscar). Folle e spensierata, comunque, è la Berlino di Lili Grün, la ragazza ebrea di Vienna che arrivava in cerca di musica e divertimento. Il suo romanzo Tutto è jazz (tradotto da Enrico Arosio per Keller) è una cronaca allegra. La vita di Lili Grün fu invece tragica: fuggita da Berlino dopo l’arrivo di Hitler, nel 1942 si trovava in Ucraina. Rastrellata insieme agli altri ebrei dai nazisti che avevano invaso l’Unione Sovietica, fu uccisa e gettata nelle fosse comuni.
Babylon Berlin
Berlino, in quegli anni, è il cinema (Friedrich Wilhelm Murnau, Fritz Lang, Georg Wilhelm Pabst), è il teatro (Max Reinhardt, Bertolt Brecht), è la letteratura (Alfred Döblin, Erich Kästner, Heinrich e Klaus Mann, Else Lasker-Schüler, Gottfried Benn e Vicki Baum), è l’arte (George Grosz, Otto Dix, Christian Schad), è l’architettura e il design della scuola del Bauhaus. Ma è anche la capitale dove tutto è permesso. A farci da guida in quel mondo c’è il libro di Pofalla e Nippoldt, che fa il ritratto di politici, uomini di cultura, attori e attrici, musicisti e cantanti. Ma insieme elenca grandi magazzini, ristoranti, caffè, locali notturni, club; descrive le mode che imponevano alle ragazze pettinature a caschetto alla Louise Brooks e gonne corte (ma anche pantaloni da uomo), mentre tutti sembravano impazzire per il jazz e i nuovi balli (tango, fox-trot, charleston). Nel 1932, ricorda Pofalla, si contavano 119 licenze per night-club di lusso e 400 per bar e sale da ballo. I ristoranti con licenza erano 20 mila, uno ogni 280 abitanti (a New York la proporzione era di uno ogni 433). Notti illuminate, quelle di Berlino ribattezzata «Città della luce»: nel Tiergarten, la ditta Osram aveva eretto una Torre della luce alta 25 metri (ma nel 1939 il regime nazista collocò al suo posto la Colonna della vittoria); sulle facciate e sulle torri dei grandi magazzini Karstadt (1929) una cinquantina di colonne di luce davano l’immagine di un imponente castello.
Per i piaceri consentiti, il luogo preferito era Haus Vaterland vicino a Potsdamerplatz: dodici ristoranti con le cucine del mondo, un cinema da 1.400 posti, una sala da ballo e una terrazza-ristorante in cui si riproduceva il suono del temporale. Ma poi c’erano tutti i peccati possibili, dalla cocaina al sesso in ogni sua declinazione e varietà. Fa testo un libro uscito nel 1931, Berlino, guida alla capitale dei vizi (ripubblicato di recente da be.bra Verlag), il cui autore, lo scrittore Kurt Moreck, proponeva al lettore «in cerca di esperienze, avventure, sensazioni forti» un viaggio nelle notti della moderna Babilonia, la città in cui — scriveva Spender — «non ci sono vergini, nemmeno fra i gatti». Notte e giorno, in ogni parte della città, si trovavano prostitute, quelle registrate presso la polizia e sottoposte a controllo medico, ma anche donne che avevano perso il lavoro, impiegate, madri di famiglia che occasionalmente battevano il marciapiede. Uno studio recente calcola che negli anni Venti c’erano circa 130 mila prostitute. Ma altrettanto numerosi erano i gay: nel rapporto di un commissario di polizia nel 1922 risultano 100 mila, di cui 25 mila minorenni. Nonostante il paragrafo 175 del Codice penale, che puniva l’omosessualità come un reato, c’erano circa 170 bar, pub, sale da ballo per gay: il più famoso era l’Eldorado, per omosessuali maschi e femmine e travestiti (ma era frequentato anche da eterosessuali, in cerca di eccitanti novità). Il Top-Keller era solo per lesbiche. La più grande sala da ballo per gay e lesbiche, il Nationalhof, proponeva serate a tema come il «Ballo degli Apache».
Berlino era anche la sede dell’Istituto per la ricerca sulla sessualità, fondato e diretto da Magnus Hirschfeld, paladino della depenalizzazione dell’omosessualità, morto in esilio in Francia. Luci, musiche, piaceri che non bastavano a nascondere l’altra metà della capitale, il sotto-mondo della miseria. Berlino era divisa in due, l’Ovest ricco e pieno di bar e cabaret alla moda, l’Est miserabile e disperato. A Est c’erano mense per poveri e dormitori pubblici affollati. Alcuni dei quali, con lo spirito caustico dei berlinesi, erano stati ribattezzati con i nomi di locali di lusso: Le Palme, Sala da ballo Froebel.
Marlene se ne va
La sera del 1° aprile 1930, al Gloria Palast di Berlino, ci fu la prima mondiale del film L’angelo azzurro di Josef von Sternberg, con Marlene Dietrich nel ruolo di Lola-Lola, la cantante che porta alla rovina il timido e puritano professor Unrat. Quando si accesero le luci, applausi e ovazioni salutarono la nuova divina. Che, subito dopo, correva a prendere il treno per Amburgo, da dove si sarebbe imbarcata per l’America. Immagine simbolo della Germania sull’orlo dell’abisso, Marlene arrivava al cinema dopo qualche apparizione in spettacoli di varietà. Per il provino, cantò un fox-trot da un film appena uscito, Wer wird denn weinen, wenn man auseinander geht («Perché piangere se uno se ne va, tanto all’angolo di strada ne trovi subito un altro...»). La sfacciata postura e il canto allusivo affascinarono von Sternberg.
Molti anni dopo, nelle sue memorie piene di bugie, di falsità e di risentimenti, Leni Riefenstahl avrebbe raccontato che anche lei aveva sostenuto il provino, «ma il regista cercava una puttana, perciò scelse la Dietrich». Grazie a quel film Marlene sarebbe diventata una star internazionale nemica giurata del nazismo, la Riefenstahl sarebbe stata la regista prediletta di Hitler.

Il Sole Domenica 10.2.19
Il ricordo. È passato un anno dalla morte di Giuseppe Galasso
Per una funzione sociale della storiografia
di Emilio Gentile


«Qualche volta agli amici che mi rivolgono la consueta domanda: “Come state?” rispondo con le parole che Salvatore di Giacomo udì dal vecchio duca di Maddaloni, il famoso epigrammista napoletano, quando, in una delle sue ultime visite, lo trovò che si scaldava al sole e gli rispose in dialetto: “Non lo vedi? Sto morendo”. Ma non è già un lamento che mi esca dal petto, ed è invece una delle solite reminiscenze di aneddoti letterari che mi tornano curiosamente alla memoria e mi allegrano. Malinconica e triste che possa sembrare la morte, sono troppo filosofo per non vedere chiaramente che il terribile sarebbe se l’uomo non potesse morire mai, chiuso nel carcere che è la vita, a ripetere sempre lo stesso ritmo vitale che egli come individuo possiede solo nei confini della sua individualità, a cui è assegnato un compito che si esaurisce.[…] La morte sopravverrà a metterci in riposo, a toglierci dalle mani il compito a cui attendevamo; ma essa non può fare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare».
Aveva 85 anni Benedetto Croce quando nel febbraio del 1951 scrisse questo soliloquio sulla morte, che lo colse l’anno successivo, seduto nella sua biblioteca, dove aveva continuato a lavorare fino all’ultimo giorno. Aveva compiuto 88 anni da pochi mesi Giuseppe Galasso, quando la notte del 12 febbraio 2018 la morte giunse silenziosamente a interrompere il suo compito di storico, al quale attendeva da oltre settanta anni. Solo tre giorni prima, aveva partecipato all’adunanza dei soci dell’Accademia nazionale dei Lincei, con la sua gioviale vitalità; e a chi gli rivolse la consueta domanda, rispose diversamente da Croce: «Caro amico, sto lavorando. E questo fa bene». Non era risposta di circostanza, per fugare un’intima malinconia, come quella che pur traspare nella meditazione di Croce sulla morte, perché poco indulgeva Galasso al pessimismo, anche se era giunto all’ultimo quarto della sua giornata.
Nel ricordare lo storico scomparso all’Accademia dei Lincei l’11 gennaio scorso, Luigi Mascilli Migliorini ha evocato «il rispetto che un grande storico» come Galasso «manteneva per la storia, cioè per la vita, bella perché imprevedibile, terribile perché imprevedibile. Quella vita che egli aveva sempre amato e che aveva insegnato ad amare e che lo ha ripagato con una morte priva degli insulti che solitamente la annunciano. Una morte giovane, si potrebbe dire, una intelligenza intatta che ci ha lasciato in una notte di febbraio».
Eppure, come già su queste pagine abbiamo avuto occasione di osservare (si veda l’articolo del 5 febbraio 2017 dal titolo «Storiografia in crisi d’identità»), ormai da alcuni anni si avvertiva negli scritti dello storico napoletano una crescente preoccupazione per la «emarginazione della storia», come egli stesso la definì in uno dei suoi ultimi interventi, pubblicato dopo la sua morte, che egli aveva presentato il 28 ottobre 2016 in un convegno su questo tema al Centro europeo di studi normanni.
“Crisi”, intesa come periodo di difficoltà, era parola che allo storico non piaceva, eppure della «crisi della storia come stagione storiografica» Galasso trattò in quell’occasione, avvertendo che «una certa crisi della storia – nel senso corrente della parola – è reale», e si manifesta «in una certa insicurezza circa l’identità e le funzioni della storia nel contesto culturale e civile in cui gli storici si muovono». E che sia crisi «non affatto immaginaria o poco evidente» lo conferma, osservava Galasso, la «continua emarginazione della storia nei programmi scolastici», che a sua volta rivela una più grave carenza di coscienza civile nell’opinione pubblica e nei responsabili «di un settore fondamentale, e anzi determinante, per tutto lo sviluppo materiale e morale della società – qual è quello della scuola», dal momento che la storia non è più «ritenuta una materia essenziale per la formazione, oltre che per l’istruzione, dei giovani che formeranno le future classi dirigenti del Paese».
Manifestazione ancora più inquietante è la «messa in discussione della storicità come dimensione del mondo e dell’uomo», che Galasso vedeva «in relazione profonda con la crisi dell’identità europea», perché la storiografia così come si era sviluppata nel corso dell’Ottocento e del Novecento, contemporaneamente all’ascesa della civiltà europea all’egemonia planetaria, aveva rappresentato «il culmine della visione europea del mondo».
Napoletano, italiano ed europeo per cultura e coscienza civile, Galasso vedeva nella crisi della storia la crisi della stessa civiltà europea nel mondo contemporaneo. Contro gli andazzi delle mode antistoricistiche e sociologizzanti, «per cui molti ritengono che la nostra stagione storiografica si contorca e si agiti in una riceerca di novità che si rivelano troppo spesso insoddisfacenti escogitazioni di metodo o di problematiche non sorrette da un reale vigore di pensiero storico», Galasso perorava la riconquista dell’autonomia e della specificità della storia. A ciò non lo spingeva una qualche nostalgia per la tramontata egemonia europea, ma la consapevolezza che la coscienza storica, la storiografia «è stata e rimane uno dei contributi più originali e rilevanti che il pensiero europeo, l’umanità europea hanno portato alla world history, al progresso intellettuale, morale e civile di tutta l’umanità».
Rivendicare alla civiltà europea la scoperta della storicità, come dimensione della esistenza e della coscienza umana, era per Galasso un modo per riaffermare la indispensabile funzione sociale della storiografia, come disse in un altro dei suoi ultimi interventi, edito dopo la sua morte. Si tratta della conferenza che egli, allievo nel 1953-54 dell’Istituto italiano per gli studi storici, fondato da Benedetto Croce nel febbraio 1947, tenne il 13 ottobre 2017, nella sede dell’Istituto, per l’inaugurazione della Associazione degli ex allievi. Ricordando il discorso di Croce all’inaugurazione dell’istituto, dedicato al «concetto moderno della storia», Galasso ribadiva la piena attualità della circolarità fra storia e vita civile, posta a fondamento della funzione sociale dello storico, come l’aveva concepita e praticata Croce, e lo stesso Galasso, collocandola a un’altitudine etica e culturale che nulla ha in comune con la storia politicizzata né con l’uso pubblico della storia. E anche nei pensieri espressi in quella occasione, sulla funzione sociale dello storico, si avverte forte l’inquietudine di chi, al tramonto di una lunga vita dedicata al mestiere dello storico, era consapevole che lo la perdita della coscienza storica comporterebbe un’irreparabile menomazione della moderna civiltà umana.

Emarginazione della storia e nuove storie a cura di Giuseppe Galasso
Rubbettino, Soveria Mannelli,
pagg. 132, € 13 Studi storici e vita civile, a cura di Giuseppe Galasso
il Mulino, Bologna, pagg. 107, € 12

Il Sole Domenica 10.2.19
Ricostruzioni. Uno studio lo libera dai residui di cent’anni di socialismo
Il pensiero di Karl Marx attraverso la biografia
di Giuseppe Vacca


La fine dell’Unione Sovietica interruppe la pubblicazione delle Opere Complete di Marx ed Engels che aveva avuto inizio a Mosca negli anni Venti, ma poco tempo dopo, quando ancora non s’erano placate le futili dispute sulla «fine della storia», il progetto editoriale fu ripreso in Europa. Esso si giova di una mole di scritti inediti ancora più grande e di una rete di studiosi di tutto il mondo che lo stanno portando a termine alacremente, con acribia filologica e grande dedizione.
Marcello Musto s’inserì in quella rete quando era ancora un giovane dottorando e da quindici anni si dedica allo studio della vita e del pensiero di Marx per “liberarlo” dalle sedimentazioni di cent’anni di socialismo. La sua biografia, pubblicata in Italia da Einaudi, è un esempio perspicuo della storiografia internazionale che procede a ripristinare e innovare la figura del filosofo di Treviri, argomentandone la perdurante vitalità.
Il pensiero di Marx scaturì dalla mondializzazione della modernità europea nella seconda metà dell’Ottocento e Musto sottolinea la coincidenza temporale fra l’avvio della critica dell’economia politica e la prima crisi economica mondiale innescata dal capitalismo americano nel 1857. La sua vitalità si misura nell’analisi dei processi mondiali odierni, caratterizzati dall’esaurimento della centralità globale dell’Occidente. La ricostruzione rigorosamente storiografica del pensiero marxiano è stata concepita da Musto in modo da interessare le diverse aree del mondo, limitandosi al periodo in cui Marx elaborò la critica dell’economia politica. Nell’attuale congiuntura mondiale, segnata da una impressionante ripresa dell’interesse per Marx, considero feconda la scelta di utilizzare la disponibilità di nuove fonti, di una nuova ermeneutica e di una nuova filologia per ricostruire la genesi e la stesura del Capitale.
Musto ha incrociato le ricerche economiche, storiche, filosofiche, teorico politiche, antropologiche di Marx con l’analisi minuta della sua attività di leader politico della Prima Internazionale. In tal modo ha tolto ogni alibi a chiunque voglia continuare a “filosofeggiare” sul pensiero marxiano ignorandone l’interazione con la biografia. E non sono meno importanti la restituzione degli affetti domestici, delle incredibili sofferenze procurategli dai malanni e dagli stenti, la memoria delle tragedie familiari fra cui si dipanò in quegli anni la sua esistenza poiché la conoscenza dell’umanità di Marx è un antidoto altrettanto valido sia contro le mitizzazioni, sia contro le perduranti demonizzazioni del suo “fantasma”.
Quello di Musto è dunque uno scavo imprescindibile per accostarsi all’opera fondamentale del pensatore di Treviri che, com’è noto, quando era in vita pubblicò solo il primo libro del Capitale, mentre la pubblicazione degli altri tre volumi, avvenuta dopo la sua morte, avviò la crescente “invadenza” degli inediti alimentando le più varie e selettive letture, “revisioni” e “combinazioni” del suo pensiero che ne hanno condizionato e distorto l’immagine e la ricezione per oltre un secolo.
La storia degli ultimi centocinquant’anni è solcata dal contrasto fra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica ma la vita intellettuale è rimasta fortemente ancorata alle vicende politiche nazionali. In Italia la diffusione delle opere di Marx ebbe un vero exploit subito dopo la seconda guerra mondiale, ma la loro interpretazione fu influenzata da correnti filosofiche attratte e contaminate dagli scritti giovanili pubblicati prevalentemente negli anni Trenta. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta ci fu una nuova fioritura di pubblicazioni che introdussero Il Capitale nella cultura filosofica italiana. Ma anche essa fu condizionata dal dibattito filosofico europeo che non nutriva interessi storiografici per i nessi fra la vita e il pensiero di Marx. Si verificò quindi un fenomeno paradossale: la preponderanza dell’inedito giunse a bandire Il Capitale dalla ricerca culturale. Ne presero il posto i Grundrisse, cioè i lavori preparatori, che meglio si prestavano a nuove combinatorie filosofiche culminate, alla fine degli anni Settanta, nella proclamazione della “crisi della ragione”.
Nel lavoro di Musto la ricostruzione storiografica degli scritti marxiani si svolge invece attraverso un costante riscontro degli inediti sugli editi, ritessendo le fila d’una ricerca incompiuta ma ininterrotta, che proseguì fino alla fine dei suoi giorni. Un work in progress, che dimostra come Marx non si fermasse all’analisi dei rapporti di produzione, ma proiettasse il suo sguardo su quelli che già allora apparivano gli aspetti distruttivi della natura e della vita generati dalla globalizzazione del capitalismo.
La struttura del libro dà conto pienamente del perché, «tra i classici del pensiero economico e filosofico, Marx sia quello il cui profilo è maggiormente mutato nel corso degli ultimi anni». L’autore parte dalla critica dell’economia politica affiancandovi subito la ricostruzione dell’attività politica di Marx nel quindicennio considerato, esplora poi le ricerche antropologiche dell’ultimo triennio e conclude ripercorrendo la teoria politica che attraversa tutta la sua vita. L’afflato “militante” della biografia di Musto si risolve quindi nella rivitalizzazione del laboratorio analitico marxiano, fondamentale per giungere a una narrazione storica sensata del mondo contemporaneo, distinta e distante dalle diatribe correnti sulla “globalizzazione” e sul “disordine mondiale”.
Karl Marx. Biografia intellettuale e politica (1857-1883) Marcello Musto Einaudi, Milano, pagg.344,€ 30


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