Repubblica 11.2.19
Il volume autobiografico di Luigi Saraceni
La storia d’Italia raccontata in tre vite
Dal padre socialista alla figlia terrorista
di Giancarlo De Cataldo
«Il
racconto comincia con l’assassinio di un re con qualche colpa e trova
il presupposto della sua conclusione nell’assassinio di un uomo senza
colpe». L’esordio narrativo di Luigi Saraceni è un formidabile memoir
che abbraccia, come recita il titolo, "un secolo e poco più" di storia
italiana.
Il "re con qualche colpa" è Umberto I, ucciso
dall’anarchico Gaetano Bresci agli albori del Novecento. È proprio la
sera dopo il regidicio che un ragazzaccio calabrese di vent’anni si
mette a suonare la serenata alla morosa, e quando le guardie gli
ingiungono il silenzio, perché è morto il re, lui risponde spavaldo e
beffardo: «Ma noi siamo repubblicani». E finisce diritto in gattabuia.
Quel ragazzo è Silvio Saraceni, il papà dell’autore. Avvocato, metà
anarchico e metà socialista, padre di cinque figli (fra cui Luigi) nati,
con grave scandalo dei benpensanti, da un’unione fuori dal sacro
vincolo matrimoniale, e poi sindaco che, letteralmente, apre i granai e
distribuisce il pane al popolo nell’affamata Calabria del dopoguerra,
meritando - lui, da sempre antifascista - la galera democratica.
Leggi
le pagine affettuose e vibranti del figlio e cogli subito il legame fra
un tipo come Silvio, romantico uomo della sinistra di una volta, e
Luigi: giudice fra i fondatori di Magistratura Democratica, poi avvocato
(fra gli altri, del leader curdo Ocalan) e parlamentare negli anni
dell’Ulivo. Ha poco più di trent’anni, Luigi, ed è agli inizi come
magistrato, quando scopre di essere stato schedato dal Sifar del
generale De Lorenzo. La sua colpa: è figlio di un incendiario, ed è
socialista.
Ma che magistratura è quella che accoglie il presunto
sovversivo? Una casta che si è formata negli anni del Fascismo e mostra,
nei vertici, una non dissimulata ostilità verso la Costituzione, talora
temperata da un antico buon senso venato d’ironia: irresistibile il
passaggio in cui l’autore ricorda la sentenza che manda assolto un
cacciatore di frodo perché «nella stagione di caccia chiusa la prensione
con mano dell’uccello adulto non costituisce reato».
Ma anche sul corpo più chiuso soffia il vento del cambiamento.
Saraceni
racconta appassionatamente l’evoluzione di una giustizia che, grazie ai
suoi uomini migliori, si lascia contaminare dai grandi cambiamenti
sociali, sino a diventarne parte propulsiva.
Accade nella stagione
delle riforme: dal diritto di famiglia allo Statuto dei lavoratori,
dalla legge Basaglia al divorzio, dieci anni che cambiano il volto
dell’Italia. E la politica progressista- sembra incredibile, ma è
accaduto- si apre alla società civile, pesca vocazioni nello spettacolo,
nella cultura, persino nella magistratura. Saraceni approda in
Parlamento. La ricostruzione dell’esperienza dell’Ulivo è minuziosa, e
narra di un sogno conflittuale, forse inizialmente insperato, naufragato
poi fra rivalità narcisistiche e errori politici.
Questo libro,
si diceva, nasce con l’assassinio di un re con qualche colpa e sfocia in
quello di un innocente. L’innocente è Massimo D’Antona, ed è di questo
crudele omicidio commesso dalle "nuove" Brigate Rosse che verrà accusata
e condannata la figlia Federica.
Saraceni non elude il tema.
Accetta
il verdetto, ma non lo condivide. In pagine molto intense l’uomo di
legge, il nemico di ogni forma di violenza, il tenace difensore del
principio di una giustizia che non dovrebbe mai farsi vendetta, racconta
con lucido dolore il conflitto fra il rispetto delle vittime e l’amore
paterno, e mai smette di domandarsi come possa l’ansia di cambiare il
mondo degenerare in pulsione di morte.