Repubblica 10.2.19
Cina
Gli intrighi alla Città proibita non piacciono al partito Censurata la serie dei record
di Filippo Santelli
PECHINO Chi pensa di ostacolare Wei Yingluo non si faccia ingannare dal suo bel visino: «Ho mille modi per colpirlo».
Strategia
e inganno, veleno e violenza, solo così una ragazza entrata alla corte
dell’imperatore da serva, per vendicare l’assassinio della sorella, può
finire per diventarne la consorte.
Ma c’è un avversario di fronte a
cui pure questa Kill Bill versione cinese, epoca Qing, ha dovuto
piegarsi: l’implacabile censura del Partito comunista. Le serie
televisive ambientate nel periodo imperiale hanno una «influenza
negativa sulla società», ha scritto qualche giorno fa il settimanale di
dottrina politica (sic) dell’ufficialissimo Beijing Daily, perché
promuovono uno stile di vita basato sul lusso e sul piacere anziché
virtù socialiste come «frugalità e duro lavoro». E tra le serie
incriminate il dito non poteva che puntare verso quella che ha
ipnotizzato i giovani cinesi, battendo ogni record di popolarità: la
Storia del Palazzo Yanxi, l’epopea stalle-stelle di Wei Yingluo. Critica
ispirata dall’alto, che è subito arrivata a chi di dovere, visto che
dopo poche ore il telefilm era sparito dai palinsesti delle televisioni
nazionali. Poco male, verrebbe da dire, visto che come molti dei
prodotti più avanzati dell’intrattenimento mandarino Yanxi Palace
nasceva per lo streaming, prodotta e distribuita dalla piattaforma
iQiyi, la Netflix cinese. Ed è in Rete che tra lo scorso luglio e
ottobre i suoi 70 episodi hanno stracciato i primati di visualizzazioni
(15 miliardi in totale) conquistando il pubblico, soprattutto quello
femminile, con la magnificenza dei costumi, le coltellate alle spalle
tra concubine di corte e la novità della figura di Wei Yingluo, così
diversa dalle dimesse e accondiscendenti protagoniste dei precedenti
drammi in costume. La cosa più vicina a un simbolo femminista che il
mondo cinese abbia avuto di recente. In quei giorni in metropolitana gli
occhi erano tutti agli smartphone, sintonizzati sull’ultimo episodio
uscito. Insomma se l’obiettivo della censura era evitare che gli eccessi
di corte ammaliassero il popolo, ormai il danno è fatto. Ma se la
potente Amministrazione nazionale di radio e televisione ha ritenuto
comunque di intervenire, il messaggio non va sottovalutato.
L’ennesimo
segnale che la libertà di creazione sotto il regime del presidentissimo
Xi Jinping si sta restringendo. Anche le piattaforme online, finora
vissute in una bolla di relativa autonomia rispetto a cinema e tv di
Stato.
Negli ultimi mesi, in rapida successione, sono arrivati
attacchi contro i reality e la cultura del divismo, contro i tatuaggi
esposti al pubblico, contro il talent show Rap of China, altro enorme
successo ma giudicato troppo esplicito nei suoi versi, e ora contro le
serie in costume, un classico dell’industria cinematografica locale.
«Non ci resta che guardare i drammi di guerra anti-giapponesi»,
commentava qualcuno in Rete, sconsolato. Perché il salto di qualità
delle nuove serie online, per quanto non ancora a livello di quelle
americane, è evidente: Yanxi Palace è stata esportata in 70 Paesi, forse
approderà in versione ridotta persino negli Stati Uniti. E pur essendo
girata prima dello scandalo evasione fiscale che ha colpito la superstar
Fan Bingbing, la produzione era già in linea con la nuova austerità
imposta dal governo: il cachet degli attori ha assorbito appena un
decimo dei costi, gran parte dei quali dedicati a ricostruire la Città
proibita di epoca imperiale. Eppure neanche questo ha risparmiato ai
creatori l’accusa di mettere «il profitto al di sopra dell’indirizzo
spirituale» dei cittadini. Qualunque cosa voglia dire.