L’Espresso 10.2.19
Disuguaglianze, indietro tutta
Hanno prodotto ingiustizia, rabbia e sovranismo
Eppure si possono ridurre, invertendo una tendenza trentennale. Le proposte del Forum di Fabrizio Barca
di Alessandro Giulioli
Dopo
quasi due anni di lavoro sottotraccia - lontano dai riflettori, dai
partiti e dalle controversie quotidiane di palazzo - il Forum delle
disuguaglianze e delle diversità è arrivato al dunque. Cioè alla
pubblica presentazione (il 25 marzo a Roma) delle sue analisi e delle
sue prime proposte per una maggiore giustizia sociale in Italia. Il
Forum è un cartello di associazioni, economisti e studiosi il cui volto
più noto è Fabrizio Barca, ex ministro, nome storico della sinistra
italiana. Ma sarebbe sbagliato ridurre l’iniziativa a lui perché invece
ha una vasta e doppia anima: quella di chi sta ogni giorno sul
territorio con l’associazionismo e quella di chi studia i macrofenomeni,
i dati, le tendenze. Ne fanno parte la Fondazione Basso, la Caritas,
Legambiente, ActionAid, Cittadinanzattiva, la fondazione Comunità di
Messina, Dedalus Cooperativa sociale, l’Uisp. Ci sono poi, a titolo
personale, economisti, sociologi, accademici e ricercatori di diversa
estrazione. Da questa alleanza sta nascendo la bozza di quello che è
stato chiamato “Programma Atkinson per l’Italia”, dal nome del grande
economista inglese morto due anni fa dopo aver dedicato una vita a
questi temi con decine di libri di cui l’ultimo, il monumentale
“Disuguaglianza. Che cosa si può fare?”, è stato pubblicato nel 2015
da Cortina. Quella che segue è un’intervista collettiva ad alcuni degli
esponenti del Forum (vedere in fondo) che abbiamo ospitato nella
redazione dell’Espresso per conoscere il senso di questa iniziativa e
capire se può accendere una luce nel buio dei progressisti italiani.
Prima
di tutto una presentazione: come nasce la cosa che state facendo e
soprattutto che obiettivi ha?
«Oggi tutti parlano di diseguaglianze,
anche chi ha concorso a produrle e chi le sta sfruttando per imporre una
dinamica autoritaria. Noi invece facciamo una diagnosi delle loro cause
per arrivare a proposte concrete di trasformazione, di inversione. Lo
scopo del Forum quindi è semplice: attraverso l’analisi, arrivare a
offrire strumenti praticabili, traducibili in azioni e indirizzi per
superare le diseguaglianze o quanto meno il loro eccesso, causa
principale della grande crisi in cui ci troviamo oggi, della reazione
sovranista e autoritaria che vediamo non solo in Italia. La somma e
l’interazione delle diseguaglianze, in crescita da decenni, hanno
infatti prodotto in vaste fasce della popolazione paure e rabbie, ma non
ancora una alternativa credibile di emancipazione. L’obiettivo del
nostro lavoro è contribuire proprio a questa alternativa. Il primo
pacchetto di proposte arriverà tra poco più di un mese, poi il Forum
lavorerà per dibatterle, farle camminare, sperimentarle, at- tuarle,
assieme ad amministrazioni, politici, organizzazioni, sindacati,
attivisti, cittadini, decision maker a ogni livello. Insomma all’azione
pubblica e collettiva».
Entrando più nello specifico, di che cosa vi
occupate?
«Abbiamo deciso di partire dai tre momenti fondamentali in cui
si forma la ricchezza. Primo, le trasformazioni tecnologiche nella
produzione - la rete, gli algoritmi, l’intelligenza artificiale, la
robotica - che modificano radicalmente il modo in cui si forma la
ricchezza. Secondo, il tema delicatissimo del passaggio da una
generazione all’altra: oggi nascere in un determinato contesto significa
vincere o perdere nella lotteria sociale. Terzo, il rapporto tra chi
lavora e chi controlla le imprese, con l’esigenza che ai lavoratori -
dalle fabbriche alla gig economy e oltre - venga assicurato un salario
sufficiente, l’autonomia, la dignità. È in questi tre campi che si
gioca la partita, è qui che il Forum vuole intervenire con la sue
proposte. Non tanto perché questo è utile nel ridurre le tensioni
sociali, nello sbloccare la crescita, ma proprio perché è giusto,
perché risponde a un senso profondo di giustizia sociale».
In
che modo la tecnologia ha modificato la produzione di ricchezza?
«Negli
ultimi trent’anni la rete, il digitale e la logica delle piattaforme
hanno prodotto arricchimenti enormi e velocissimi. È stato un fenomeno
travolgente che ha trasformato anche il mercato del lavoro: non solo
sotto l’aspetto delle competenze, ma soprattutto in termini di
polarizzazione delle mansioni e delle retribuzioni. Tuttavia un punto
deve essere chiaro: la tecnologia non produce per forza,
fatalisticamente, le disuguaglianze. Sono le scelte politiche che le
causano. Quindi scelte politiche diverse possono ridurre le
disuguaglianze. Ed esistono pratiche che possono invertire l’attuale
tendenza. È una scelta, ad esempio, quella di usare gli studi sul Dna
per far vivere 130 anni pochi ricchissimi o per produrre farmaci a basso
prezzo per tutti. È stata una scelta quella di non regolamentare l’uso
dello straordinario pool di conoscenza accessibile che si è creata con
la rete e gli algoritmi, tra l’altro grazie a finanziamenti pubblici.
È stata una scelta lasciare che queste informazioni fossero acquisite
da pochi soggetti con metodi non sempre trasparenti, generando uno
scambio ineguale tra corporation digitali e cittadini. E quest’ultima è
una questione che va a toccare il concetto stesso di democrazia, di
controllo democratico».
Il secondo punto, quello del passaggio
generazionale, ha una rappresentazione plastica nel divario
dell’istruzione. È sempre più ampia la forbice tra le scuole d’élite -
quelle che formano l’uno per cento di domani - e tutte le altre...
«Sì,
ma attenzione perché il problema è più ampio e noi vogliamo
concentrarci sull’aspetto collettivo - non individuale - della
formazione di disuguaglianze nel passaggio generazionale. Per capirci:
oggi anche a parità di istruzione chi nasce in una famiglia povera non
ha le stesse possibilità di chi nasce in una famiglia ricca. La
disuguaglianza nelle nuove generazioni ha a che fare con tante cose:
l’ambiente che si frequenta, i servizi che ci sono sul territorio, i
viaggi che si possono o non possono fare, anche il livello di relazioni
che ha o non ha la famiglia di origine. Dai nostri dati risulta ad
esempio che, tra i redditi da lavoro, la differenza di titolo di studio
spiega una quota piccolissima del divario di stipendio; per contro, a
parità di titolo di studio ci sono grandi differenze di reddito. E il
figlio meno istruito di una buona famiglia in media guadagna di più del
figlio laureato di una famiglia povera».
Dov’è quindi il centro del problema?
«Nel
riequilibrio di potere - di potenzialità reali - tra le persone. Ci
siamo forse un po’ disabituati a parlare di potere e di trasferimento di
potere, di politiche pubbliche che rendono davvero più uguali le
opportunità».
E questo è connesso anche con il terzo campo in
cui volete giocare, quello dei rapporti nella produzione, nel lavoro.
«Certo, perché la relazione negoziale tra i lavoratori e chi controlla
l’impresa è il luogo principale da cui discendono la distribuzione di
ricchezza, i divari retributivi e lo stesso indirizzo del cambiamento
tecnologico. Anche in questo caso sono state scelte politiche quelle che
hanno sbilanciato questa relazione. Bisogna favorire il reinvestimento
nel dividendo - incluso quello che deriva dall’innovazione - non solo
rendendolo più favorevole al reddito, ma anche in servizi di cura della
persona, dell’ambiente, del riequilibrio tra zone benestanti e aree
dimenticate. Senza scordare che il lavoro non è solo salario ma anche
autonomia e soddisfazione del lavoro: e qui l’obiettivo delle proposte
sarà anche nella direzione di ridurre le mansioni ripetitive e ridurre
la loro polarizzazione, anziché accrescere il controllo
gerarchico».
Come state arrivando a queste proposte concrete?
«Abbiamo
un metodo bidirezionale, diciamo: dall’alto verso il basso e dal basso
verso l’alto. Il primo è quello di sperimentare dalla teoria alla
pratica, dallo studio al territorio. Il secondo va alla rovescia: e
arriva alla teorizzazione attraverso i risultati delle pratiche migliori
che già esistono, in Italia e all’estero. Abbiamo poi una metodologia
sperimentale e partecipativa: in tutti i nostri incontri il consensus è
la condizione di ogni diagnosi e quindi di ogni proposta».
Mi è
chiaro che non siete un partito, però non siete neanche un semplice
think tank, dato questo rapporto continuo con il reale che va oltre gli
studi accademici. In ogni caso nel vostro percorso dovrete cercare degli
interlocutori, se non proprio delle alleanze...
«Gli
interlocutori saranno le persone di buona volontà, a partire da quelle
che all’interno della società già stanno facendo queste cose o
potrebbero farle. Possono essere amministrazioni comunali avanzate, come
quelle che in questo momento stanno facendo rete in Italia e all’estero
- da Barcellona a Palermo, da Milano a Messina - per creare piattaforme
di partecipazione dei cittadini. Ma anche università interessate a una
maggiore giustizia sociale attraverso modalità sperimentali,
imprenditori disponibili a provare le soluzioni che proponiamo nel
settore del lavoro, naturalmente sindacati impegnati nel costruire nuove
forme di tutela dei lavoratori. Ci sono cose che già in parte
avvengono, come si diceva, ma non sono ancora messe a sistema».
E i partiti?
«Fino
a pochi anni fa offrivano un terreno, oggi molto meno. Pensano più
alla tattica e alle prossime elezioni che alla costruzione. Ma speriamo
di avere comunque interlocutori anche dentro i partiti».
Anche
ammesso che le vostre proposte siano raccolte, poi come potrebbero
incidere veramente in un capitalismo sempre più globale, dove tutto
dipende da grandi fenomeni economici e finanziari che non si possono
più controllare a livello locale?
«I fenomeni economici di cui
lei parla non sono ontologici e ineluttabili: sono il frutto di regole,
regole del gioco. Regole che, così come sono, producono sempre maggiore
ingiustizia sociale. Noi non crediamo che sia indifferente se in ogni
Paese ciascuno fa pro- poste per modificare queste regole del gioco.
Anche in Italia, che è la seconda potenza manifatturiera d’Europa, ha
un Pil tra i primi dieci del mondo, un eccellente sistema di piccole
imprese e un mondo del lavoro vivace. Il nostro è un Paese che può
contribuire a cambiare i regolamenti internazionali, le regole del
gioco. No, non siamo velleitari o almeno cerchiamo sempre di non
esserlo».
All’intervista collettiva con il Forum Disuguaglianze
Diversità pubblicata in queste pagine hanno risposto: Fabrizio Barca,
statistico ed economista, docente universitario, coordinatore del Forum.
Vittorio Cogliati Dezza, insegnante, nella segreteria di Legambiente,
dove si occupa di politiche sociali. Nunzia De Capite, sociologa di
Caritas Italiana dove si occupa di povertà e politiche sociali. Marco
De Ponte, segretario generale di ActionAid. Maurizio Franzini,
professore di Politica Economica all’Università La Sapienza di Roma.
Elena Granaglia, professoressa di Scienza delle Finanze all’Università
Roma Tre.Patrizia Luongo, economista, si occupa di povertà e
disuguaglianze. Andrea Morniroli, della cooperativa sociale Dedalus,
dove si occupa di politiche di welfare.
Silvia Vaccaro, giornalista, si
occupa di comunicazione sociale e di tematiche di genere.