martedì 12 febbraio 2019

L’Espresso 10.2.19

Disuguaglianze, indietro tutta 
Hanno prodotto ingiustizia, rabbia e sovranismo
Eppure si possono ridurre, invertendo una tendenza trentennale. Le proposte del Forum di Fabrizio Barca
di Alessandro Giulioli

Dopo quasi due anni di lavoro sottotraccia - lontano dai riflettori, dai partiti e dalle controversie quotidiane di palazzo - il Forum delle disuguaglianze e delle diversità è arrivato al dunque. Cioè alla pubblica presentazione (il 25 marzo a Roma) delle sue analisi e delle sue prime proposte per una maggiore giustizia sociale in Italia. Il Forum è un cartello di associazioni, economisti e studiosi il cui volto più noto è Fabrizio Barca, ex ministro, nome storico della sinistra italiana. Ma sarebbe sbagliato ridurre l’iniziativa a lui perché invece ha una vasta e doppia anima: quella di chi sta ogni giorno sul territorio con l’associazionismo e quella di chi studia i macrofenomeni, i dati, le tendenze. Ne fanno parte la Fondazione Basso, la Caritas, Legambiente, ActionAid, Cittadinanzattiva, la fondazione Comunità di Messina, Dedalus Cooperativa sociale, l’Uisp. Ci sono poi, a titolo personale, economisti, sociologi, accademici e ricercatori di diversa estrazione. Da questa alleanza sta nascendo la bozza di quello che è stato chiamato “Programma Atkinson per l’Italia”, dal nome del grande economista inglese morto due anni fa dopo aver dedicato una vita a questi temi con decine di libri di cui l’ultimo, il monumentale “Disuguaglianza. Che cosa si può fare?”, è stato pubblicato nel 2015 da Cortina. Quella che segue è un’intervista collettiva ad alcuni degli esponenti del Forum (vedere in fondo) che abbiamo ospitato nella redazione dell’Espresso per conoscere il senso di questa iniziativa e capire se può accendere una luce nel buio dei progressisti italiani.
Prima di tutto una presentazione: come nasce la cosa che state facendo e soprattutto che obiettivi ha?
«Oggi tutti parlano di diseguaglianze, anche chi ha concorso a produrle e chi le sta sfruttando per imporre una dinamica autoritaria. Noi invece facciamo una diagnosi delle loro cause per arrivare a proposte concrete di trasformazione, di inversione. Lo scopo del Forum quindi è semplice: attraverso l’analisi, arrivare a offrire strumenti praticabili, traducibili in azioni e indirizzi per superare le diseguaglianze o quanto meno il loro eccesso, causa principale della grande crisi in cui ci troviamo oggi, della reazione sovranista e autoritaria che vediamo non solo in Italia. La somma e l’interazione delle diseguaglianze, in crescita da decenni, hanno infatti prodotto in vaste fasce della popolazione paure e rabbie, ma non ancora una alternativa credibile di emancipazione. L’obiettivo del nostro lavoro è contribuire proprio a questa alternativa. Il primo pacchetto di proposte arriverà tra poco più di un mese, poi il Forum lavorerà per dibatterle, farle camminare, sperimentarle, at- tuarle, assieme ad amministrazioni, politici, organizzazioni, sindacati, attivisti, cittadini, decision maker a ogni livello. Insomma all’azione pubblica e collettiva». 
Entrando più nello specifico, di che cosa vi occupate?
«Abbiamo deciso di partire dai tre momenti fondamentali in cui si forma la ricchezza. Primo, le trasformazioni tecnologiche nella produzione - la rete, gli algoritmi, l’intelligenza artificiale, la robotica - che modificano radicalmente il modo in cui si forma la ricchezza. Secondo, il tema delicatissimo del passaggio da una generazione all’altra: oggi nascere in un determinato contesto significa vincere o perdere nella lotteria sociale. Terzo, il rapporto tra chi lavora e chi controlla le imprese, con l’esigenza che ai lavoratori - dalle fabbriche alla gig economy e oltre - venga assicurato un salario sufficiente, l’autonomia, la dignità. È in questi tre campi che si gioca la partita, è qui che il Forum vuole intervenire con la sue proposte. Non tanto perché questo è utile nel ridurre le tensioni sociali, nello sbloccare la crescita, ma proprio perché è giusto, perché risponde a un senso profondo di giustizia sociale».
In che modo la tecnologia ha modificato la produzione di ricchezza?
«Negli ultimi trent’anni la rete, il digitale e la logica delle piattaforme hanno prodotto arricchimenti enormi e velocissimi. È stato un fenomeno travolgente che ha trasformato anche il mercato del lavoro: non solo sotto l’aspetto delle competenze, ma soprattutto in termini di polarizzazione delle mansioni e delle retribuzioni. Tuttavia un punto deve essere chiaro: la tecnologia non produce per forza, fatalisticamente, le disuguaglianze. Sono le scelte politiche che le causano. Quindi scelte politiche diverse possono ridurre le disuguaglianze. Ed esistono pratiche che possono invertire l’attuale tendenza. È una scelta, ad esempio, quella di usare gli studi sul Dna per far vivere 130 anni pochi ricchissimi o per produrre farmaci a basso prezzo per tutti. È stata una scelta quella di non regolamentare l’uso dello straordinario pool di conoscenza accessibile che si è creata con la rete e gli algoritmi, tra l’altro grazie a finanziamenti pubblici. È stata una scelta lasciare che queste informazioni fossero acquisite da pochi soggetti con metodi non sempre trasparenti, generando uno scambio ineguale tra corporation digitali e cittadini. E quest’ultima è una questione che va a toccare il concetto stesso di democrazia, di controllo democratico».
Il secondo punto, quello del passaggio generazionale, ha una rappresentazione plastica nel divario dell’istruzione. È sempre più ampia la forbice tra le scuole d’élite - quelle che formano l’uno per cento di domani - e tutte le altre...
«Sì, ma attenzione perché il problema è più ampio e noi vogliamo concentrarci sull’aspetto collettivo - non individuale - della formazione di disuguaglianze nel passaggio generazionale. Per capirci: oggi anche a parità di istruzione chi nasce in una famiglia povera non ha le stesse possibilità di chi nasce in una famiglia ricca. La disuguaglianza nelle nuove generazioni ha a che fare con tante cose: l’ambiente che si frequenta, i servizi che ci sono sul territorio, i viaggi che si possono o non possono fare, anche il livello di relazioni che ha o non ha la famiglia di origine. Dai nostri dati risulta ad esempio che, tra i redditi da lavoro, la differenza di titolo di studio spiega una quota piccolissima del divario di stipendio; per contro, a parità di titolo di studio ci sono grandi differenze di reddito. E il figlio meno istruito di una buona famiglia in media guadagna di più del figlio laureato di una famiglia povera».
Dov’è quindi il centro del problema?
«Nel riequilibrio di potere - di potenzialità reali - tra le persone. Ci siamo forse un po’ disabituati a parlare di potere e di trasferimento di potere, di politiche pubbliche che rendono davvero più uguali le opportunità».
E questo è connesso anche con il terzo campo in cui volete giocare, quello dei rapporti nella produzione, nel lavoro. 
«Certo, perché la relazione negoziale tra i lavoratori e chi controlla l’impresa è il luogo principale da cui discendono la distribuzione di ricchezza, i divari retributivi e lo stesso indirizzo del cambiamento tecnologico. Anche in questo caso sono state scelte politiche quelle che hanno sbilanciato questa relazione. Bisogna favorire il reinvestimento nel dividendo - incluso quello che deriva dall’innovazione - non solo rendendolo più favorevole al reddito, ma anche in servizi di cura della persona, dell’ambiente, del riequilibrio tra zone benestanti e aree dimenticate. Senza scordare che il lavoro non è solo salario ma anche autonomia e soddisfazione del lavoro: e qui l’obiettivo delle proposte sarà anche nella direzione di ridurre le mansioni ripetitive e ridurre la loro polarizzazione, anziché accrescere il controllo gerarchico».
Come state arrivando a queste proposte concrete?
«Abbiamo un metodo bidirezionale, diciamo: dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Il primo è quello di sperimentare dalla teoria alla pratica, dallo studio al territorio. Il secondo va alla rovescia: e arriva alla teorizzazione attraverso i risultati delle pratiche migliori che già esistono, in Italia e all’estero. Abbiamo poi una metodologia sperimentale e partecipativa: in tutti i nostri incontri il consensus è la condizione di ogni diagnosi e quindi di ogni proposta».
Mi è chiaro che non siete un partito, però non siete neanche un semplice think tank, dato questo rapporto continuo con il reale che va oltre gli studi accademici. In ogni caso nel vostro percorso dovrete cercare degli interlocutori, se non proprio delle alleanze...
«Gli interlocutori saranno le persone di buona volontà, a partire da quelle che all’interno della società già stanno facendo queste cose o potrebbero farle. Possono essere amministrazioni comunali avanzate, come quelle che in questo momento stanno facendo rete in Italia e all’estero - da Barcellona a Palermo, da Milano a Messina - per creare piattaforme di partecipazione dei cittadini. Ma anche università interessate a una maggiore giustizia sociale attraverso modalità sperimentali, imprenditori disponibili a provare le soluzioni che proponiamo nel settore del lavoro, naturalmente sindacati impegnati nel costruire nuove forme di tutela dei lavoratori. Ci sono cose che già in parte avvengono, come si diceva, ma non sono ancora messe a sistema».
E i partiti?
«Fino a pochi anni fa offrivano un terreno, oggi molto meno. Pensano più alla tattica e alle prossime elezioni che alla costruzione. Ma speriamo di avere comunque interlocutori anche dentro i partiti».
Anche ammesso che le vostre proposte siano raccolte, poi come potrebbero incidere veramente in un capitalismo sempre più globale, dove tutto dipende da grandi fenomeni economici e finanziari che non si possono più controllare a livello locale?
«I fenomeni economici di cui lei parla non sono ontologici e ineluttabili: sono il frutto di regole, regole del gioco. Regole che, così come sono, producono sempre maggiore ingiustizia sociale. Noi non crediamo che sia indifferente se in ogni Paese ciascuno fa pro- poste per modificare queste regole del gioco. Anche in Italia, che è la seconda potenza manifatturiera d’Europa, ha un Pil tra i primi dieci del mondo, un eccellente sistema di piccole imprese e un mondo del lavoro vivace. Il nostro è un Paese che può contribuire a cambiare i regolamenti internazionali, le regole del gioco. No, non siamo velleitari o almeno cerchiamo sempre di non esserlo».
All’intervista collettiva con il Forum Disuguaglianze Diversità pubblicata in queste pagine hanno risposto: Fabrizio Barca, statistico ed economista, docente universitario, coordinatore del Forum. Vittorio Cogliati Dezza, insegnante, nella segreteria di Legambiente, dove si occupa di politiche sociali. Nunzia De Capite, sociologa di Caritas Italiana dove si occupa di povertà e politiche sociali. Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid. Maurizio Franzini, professore di Politica Economica all’Università La Sapienza di Roma. Elena Granaglia, professoressa di Scienza delle Finanze all’Università Roma Tre.Patrizia Luongo, economista, si occupa di povertà e disuguaglianze. Andrea Morniroli, della cooperativa sociale Dedalus, dove si occupa di politiche di welfare.
Silvia Vaccaro, giornalista, si occupa di comunicazione sociale e di tematiche di genere.