sabato 9 febbraio 2019

La Stampa 9.2.19
Dio vide tutto quello che aveva fatto e allora creò l’umorismo ebraico
di Elena Loewenthal


Tutto cominciò con una sghignazzata. Breve, sommessa, con una mano che dobbiamo immaginare avvizzita e costellata di macchie scure di vecchiaia davanti alla bocca, nel vano tentativo di passare sotto silenzio quello sfogo di ilarità. Quando infatti, tramite dei viandanti per il deserto che nella realtà del testo sacro sono angeli, l’Altissimo annuncia al patriarca Abramo che sta per dargli un figlio con Sara, che intende cioè aprirle finalmente l’utero tristemente occluso, quella povera donna che in novant’anni suonati di vita ne aveva già viste tante di quelle tante, scoppia a ridere. «Ma figuriamoci!», «Questa è buona!», «Che scherzo di cattivo gusto», e tanto altro dice il sottotesto della prima risata di tutta la Bibbia, frutto della disillusione e dell’amarezza di una donna che non è riuscita a procreare sino a quel momento ed è ormai certa che non ci riuscirà mai più. Altissimo o non Altissimo. Di lì a nove mesi, nello stupore generale, Sara metterà al mondo Isacco, il cui nome in ebraico significa per l’appunto riderà.
Dalla tenda di Abramo e Sara in poi, ridere è per i figli d’Israele una faccenda alquanto seria: «Metropolitana di New York. Un nero sta leggendo un giornale in yiddish. Qualcuno si ferma e gli domanda: - Lei è ebreo? -. Oy gevalt (tipica esclamazione di sconforto in yiddish) – risponde – mi ci manca solo quello».
«La barzelletta ebraica è vecchia come Abramo. Insieme agli ebrei in carne e ossa ha errato per il mondo, imparato svariate lingue, lavorato con una vasta gamma di materiali e dato il meglio di sé al cospetto di folle piuttosto ostili», spiega Devorah Baum in apertura del suo libro, La barzelletta ebraica (in uscita per Einaudi) con un eloquente sottotitolo che chiarisce trattarsi di «Un saggio con esempi (meno saggio più esempi». Perché se tutto che comincia con Abramo, non si può negare che a fare la prima battuta sia stata Sara, e suo marito – a quanto pare – non l’ha presa troppo bene. In quanto donna, discendente cioè in linea diretta della spiritosa matriarca e del suo umorismo irriverente, fors’anche un pizzico macabro, anche Devorah Baum – giovane scrittrice americana – la sa lunga in fatto di battute ebraiche.
E’ vero, nel libro ci sono più battute che argomentazione, più esempi che saggio. Ma è anche vero che quando si fa umorismo ebraico non si può fare a meno di parlarne.
Che sia battuta fulminante o lenta narrazione, la storiella ebraica porta sempre con sé un significato, anzi di più. È come se dicesse sempre, in sottofondo: «Cari gentili (di nome ma spesso non di fatto), oltre a perseguitarci, emarginarci e cacciarci ai quattro angoli del mondo, non state anche a ridere di noi ebrei. Quello lo facciamo da soli, e di sicuro meglio di quanto non possiate fare voi».
L’umorismo è insomma da secoli un’arma di sopravvivenza per il popolo d’Israele, un modo per conciliarsi con il mondo, con le avversità, con i contrattempi. Altro che contrattempi: «Burt: ti importa dell’Olocausto o pensi che non sia mai successo? Harry: Non solo so che abbiamo perso sei milioni di ebrei, ma quello che mi preoccupa è che i record sono fatti per essere battuti». (Copyright Woody Allen).
Baum affronta uno dei tanti percorsi possibili nell’umorismo ebraico con una serie di domande che echeggiano il rituale della Pasqua ebraica e marcano la differenza fra la sera festiva e quella feriale. Non per niente la tradizione ebraica si costruisce sull’analisi puntuale, sul pelo nell’uovo: «Che differenza c’è fra l’uomo e Dio?», «Che differenza c’è fra moralità e nevrosi?», «Che differenza c’è fra un ebreo e un pappagallo?», «Che differenza c’è fra uno shlemiel e uno shlimazel?» (spoiler: lo shlemiel è quello che si sbrodola, e quello su cui si rovescia la minestra è lo shlimazel). Nel riscontro di una serie di differenze, Baum traccia una storia della battuta ebraica, o meglio un percorso divertente e interessante in questo umorismo che può piacere o non piacere, che a volte è immediato e a volte criptico – soprattutto quando più che una battuta diventa un larvato test d’intelligenza a spese dell’ignaro ascoltatore –, ma che ha sempre molto da raccontare.
Baum spazia dal cinema alla tradizione orale, dalla letteratura contemporanea al Talmud, ma ha una particolare – e giustificata – predilezione per quella stand-up comedy americana (a malapena traducibile con «cabaret») che ha dato il meglio di sé con una certa comicità ebraica fatta tanto di improvvisazione quanto di sapienza, con giganti quali Lenny Bruce e Mrs Maisel – che sarà pure il protagonista dell’omonima serie televisiva, ma è più reale e fantastica che mai.
E in fondo, fra le tante, davvero tante cose confortanti che l’umorismo ebraico porta con sé da secoli e millenni, c’è anche una parità di genere che non fa sconti a nessuno, perché quando si tratta di ridere – o far ridere – non c’è sesso che tenga. E da che mondo è mondo, le donne si tramandano ricette, segreti, saggi consigli: «Mia mamma diceva sempre che per denaro non ci si sposa. Si divorzia».