venerdì 8 febbraio 2019

La Stampa 8.2.19
Franzoni libera dopo aver scontato 11 anni
“La gente deve capire che sono innocente”
Nel 2007 fu condannata a 16 anni per l’omicidio del figlio Samuele. Il prete amico: ora ha ricostruito la sua vita
di Franco Giubilei Enrico Martinet


«Da un lato sono contenta, dall’altro vorrei trovare la maniera di far capire alla gente che non sono stata io». Desiderio di Annamaria Franzoni che è ora una donna libera. Condannata a 16 anni per aver ucciso il figlioletto Samuele nella villetta di Cogne il 30 gennaio 2002, entrò nel carcere bolognese della Dozza nel 2007, ne uscì nel 2014 per scontare il resto della pena ai domiciliari nella casa di famiglia a Ripoli Santa Cristina, Appennino emiliano. Si è sempre professata innocente. Samuele aveva 3 anni e lei lo lasciò solo in casa per 8 minuti: «Qualcuno me lo ha ucciso». Era stata condannata a 16 anni, poi ridotti a meno di 11 grazie all’indulto, un periodo che la buona condotta e la partecipazione a progetti di reinserimento le ha permesso di accorciare ulteriormente, regolando con alcuni mesi di anticipo il suo debito con la giustizia.
Ora la villetta di Ripoli è deserta: al cancello è appeso il cartello «Vendesi». I Franzoni e la famiglia di Annamaria si sono trasferiti in una casa isolata «non lontano da qui», dicono i vicini. La riservatezza, in questa minuscola frazione di montagna, è totale: la gente si limita a dire che il marito, Stefano Lorenzi, lavora nell’azienda dei Franzoni e torna a casa a tarda sera. Con Annamaria c’è anche il figlio minore, avuto un anno dopo l’omicidio di Samuele, mentre il fratello più grande non vive coi genitori. Per i compaesani Annamaria «è una persona normale, gentile, com’è sempre stata». Il suo legale, Paola Savio, di Torino, dice: «L’appello che ho sempre rivolto e rivolgo anche oggi è di dimenticarla. Occorre pensare che ci sono familiari e che hanno sofferto con lei». Quando andò ai domiciliari Annamaria le disse: «Non vorrò mai più dire niente, per me la storia è finita qui». Ancora Savio: «Questa famiglia ha bisogno di riconquistare l’intimità». Nella cooperativa sociale di don Renato Nicolini Annamaria ha lavorato nel laboratorio di sartoria. «Quando c’è un rapporto forte e affettuoso con la famiglia e l’ambiente d’origine, la persona si reinserisce. È questo che fa la differenza. Ormai è un po’ che non la vedo. Siamo buoni amici, a distanza. Adesso ha ricostruito la sua vita, in famiglia», dice il sacerdote.
«No, guardi, sono al lavoro. La ringrazio, ma io non ho commenti da fare». Fedele a se stesso Stefano Lorenzi, marito di Annamaria, mai una parola di troppo e rari momenti di rabbia. Sempre accanto alla moglie. Ogni frase conclusa dicendo «è innocente». Quel giorno, il 30 gennaio 2002, Stefano era a 30 chilometri dalla villetta di Montroz. Inverno gelido, senza neve. Quando Samuele arrivò esanime al pronto soccorso della città, in elicottero, qualcuno parlò perfino di un morso di cane. La testa del bimbo era straziata da 17 colpi. Era stato colpito nel lettone di mamma e papà e poi coperto, anche il viso, con il lenzuolo.
Annamaria disse di averlo trovato così, al ritorno dalla fermata dello scuolabus, dove aveva accompagnato il primogenito. E chiamò la vicina di casa, il medico di famiglia Ada Satragni che disse che a quel bimbo «era scoppiata la testa». E l’indagine cominciò con un trambusto, tredici persone entrarono in quella casa. L’arma del delitto non fu mai trovata: uno zoccolo, una piccozza, un portacenere di cristallo, un mestolo; le ipotesi furono tante. Perizie e contro perizie. L’arresto per pigiama e zoccoli macchiati di sangue e quegli 8 minuti trascorsi tra l’andare e venire dallo scuolabus. Un tempo troppo breve per pensare a un assassino in agguato, poi fuggito senza lasciare traccia. Il tribunale del riesame le ridiede la libertà. L’avvocato era Carlo Federico Grosso. «Ero convinto e lo sono ancora dell’innocenza di Annamaria. Negli atti non vi erano elementi per una condanna». Il padre di Annamaria, Giorgio, chiamò l’avvocato Carlo Taormina. La condanna in primo grado a 30 anni, poi l’appello a 16. Prima dell’appello Taormina cominciò un’indagine difensiva che diventò il processo «Cogne bis» per inquinamento della scena del delitto. Taormina lasciò il mandato. Oggi dice: «L’inchiesta fu fatta male. Sono contento per Annamaria. Spero che lavori così riesce a pagarmi la parcella, 400 mila euro».