venerdì 8 febbraio 2019

La Stampa 8.2.19
Franzoni libera dopo aver scontato 11 anni
“La gente deve capire che sono innocente”
Nel 2007 fu condannata a 16 anni per l’omicidio del figlio Samuele. Il prete amico: ora ha ricostruito la sua vita
di Franco Giubilei Enrico Martinet


«Da un lato sono contenta, dall’altro vorrei trovare la maniera di far capire alla gente che non sono stata io». Desiderio di Annamaria Franzoni che è ora una donna libera. Condannata a 16 anni per aver ucciso il figlioletto Samuele nella villetta di Cogne il 30 gennaio 2002, entrò nel carcere bolognese della Dozza nel 2007, ne uscì nel 2014 per scontare il resto della pena ai domiciliari nella casa di famiglia a Ripoli Santa Cristina, Appennino emiliano. Si è sempre professata innocente. Samuele aveva 3 anni e lei lo lasciò solo in casa per 8 minuti: «Qualcuno me lo ha ucciso». Era stata condannata a 16 anni, poi ridotti a meno di 11 grazie all’indulto, un periodo che la buona condotta e la partecipazione a progetti di reinserimento le ha permesso di accorciare ulteriormente, regolando con alcuni mesi di anticipo il suo debito con la giustizia.
Ora la villetta di Ripoli è deserta: al cancello è appeso il cartello «Vendesi». I Franzoni e la famiglia di Annamaria si sono trasferiti in una casa isolata «non lontano da qui», dicono i vicini. La riservatezza, in questa minuscola frazione di montagna, è totale: la gente si limita a dire che il marito, Stefano Lorenzi, lavora nell’azienda dei Franzoni e torna a casa a tarda sera. Con Annamaria c’è anche il figlio minore, avuto un anno dopo l’omicidio di Samuele, mentre il fratello più grande non vive coi genitori. Per i compaesani Annamaria «è una persona normale, gentile, com’è sempre stata». Il suo legale, Paola Savio, di Torino, dice: «L’appello che ho sempre rivolto e rivolgo anche oggi è di dimenticarla. Occorre pensare che ci sono familiari e che hanno sofferto con lei». Quando andò ai domiciliari Annamaria le disse: «Non vorrò mai più dire niente, per me la storia è finita qui». Ancora Savio: «Questa famiglia ha bisogno di riconquistare l’intimità». Nella cooperativa sociale di don Renato Nicolini Annamaria ha lavorato nel laboratorio di sartoria. «Quando c’è un rapporto forte e affettuoso con la famiglia e l’ambiente d’origine, la persona si reinserisce. È questo che fa la differenza. Ormai è un po’ che non la vedo. Siamo buoni amici, a distanza. Adesso ha ricostruito la sua vita, in famiglia», dice il sacerdote.
«No, guardi, sono al lavoro. La ringrazio, ma io non ho commenti da fare». Fedele a se stesso Stefano Lorenzi, marito di Annamaria, mai una parola di troppo e rari momenti di rabbia. Sempre accanto alla moglie. Ogni frase conclusa dicendo «è innocente». Quel giorno, il 30 gennaio 2002, Stefano era a 30 chilometri dalla villetta di Montroz. Inverno gelido, senza neve. Quando Samuele arrivò esanime al pronto soccorso della città, in elicottero, qualcuno parlò perfino di un morso di cane. La testa del bimbo era straziata da 17 colpi. Era stato colpito nel lettone di mamma e papà e poi coperto, anche il viso, con il lenzuolo.
Annamaria disse di averlo trovato così, al ritorno dalla fermata dello scuolabus, dove aveva accompagnato il primogenito. E chiamò la vicina di casa, il medico di famiglia Ada Satragni che disse che a quel bimbo «era scoppiata la testa». E l’indagine cominciò con un trambusto, tredici persone entrarono in quella casa. L’arma del delitto non fu mai trovata: uno zoccolo, una piccozza, un portacenere di cristallo, un mestolo; le ipotesi furono tante. Perizie e contro perizie. L’arresto per pigiama e zoccoli macchiati di sangue e quegli 8 minuti trascorsi tra l’andare e venire dallo scuolabus. Un tempo troppo breve per pensare a un assassino in agguato, poi fuggito senza lasciare traccia. Il tribunale del riesame le ridiede la libertà. L’avvocato era Carlo Federico Grosso. «Ero convinto e lo sono ancora dell’innocenza di Annamaria. Negli atti non vi erano elementi per una condanna». Il padre di Annamaria, Giorgio, chiamò l’avvocato Carlo Taormina. La condanna in primo grado a 30 anni, poi l’appello a 16. Prima dell’appello Taormina cominciò un’indagine difensiva che diventò il processo «Cogne bis» per inquinamento della scena del delitto. Taormina lasciò il mandato. Oggi dice: «L’inchiesta fu fatta male. Sono contento per Annamaria. Spero che lavori così riesce a pagarmi la parcella, 400 mila euro».

Corriere 8.2.19
La morte di Samuele e il processo
La mamma di Cogne torna libera «Vorrei dire che sono innocente»
Annamaria Franzoni ha scontato in anticipo la pena. Era stata condannata a 16 anni
di Andreina Baccaro


Monteacuto Vallese (Bologna) Una bella villetta, immersa nel verde, ma isolata dal resto del mondo. Perché Annamaria Franzoni, ormai una donna libera, vuole fare perdere le sue tracce, come ha confidato al suo legale Paola Savio.
La mamma del delitto di Cogne ha finito di scontare la sua pena a 16 anni per omicidio aggravato del figlio Samuele ormai da qualche settimana, ottenendo più di un anno di liberazione anticipata grazie alla buona condotta e ai benefici di legge. La prima cosa che ha fatto, con il marito Stefano Lorenzi e il figlio adolescente nato un anno dopo la morte di Samuele, è stata lasciare l’abitazione a Ripoli Santa Cristina dove era ai domiciliari dal 2014 e acquistare una villa nel paese dove è nata e cresciuta, Monteacuto Vallese, sull’Appennino bolognese nel comune di San Benedetto Val di Sambro.
Qui ha condotto una vita tranquilla e serena nelle ultime settimane, protetta dalla sua comunità di origine che l’ha sempre creduta innocente. «Sono contenta, ma vorrei far capire alla gente che non sono stata io» continua a dire Annamaria Franzoni a chi l’ha incontrata nelle ultime settimane. Da ieri pomeriggio, invece, in casa non risponde più nessuno, le serrande sono abbassate, il marito esce solo un attimo, cappuccio sul capo, per tirare giù le tende, si intravede una luce accesa, ma la famiglia Lorenzi è barricata in casa, al riparo da fotografi e giornalisti.
«Dimenticatevi di lei, la sua pena è finita. L’ha scontata come tutte le persone per bene, ma adesso ha il sacrosanto diritto di essere lasciata in pace» dice l’avvocato Paola Savio. Impossibile, però, dimenticare il delitto di Cogne, che divise l’Italia tra innocentisti e colpevolisti. Il 30 gennaio di diciassette anni fa il piccolo Samuele, tre anni, fu ammazzato nella villetta di famiglia con 17 colpi inferti con un’arma che non fu mai ritrovata. Una vicenda, umana e giudiziaria, piena di colpi di scena e di luci e ombre, tra sopralluoghi del Ris, perizie e controperizie, sulla dinamica dell’omicidio, sulla personalità della donna, sul suo pigiama e sugli zoccoli che indossava la mattina in cui Samuele fu ucciso.
A Monteacuto Vallese, però, per tutti lei è solo Annamaria. «Faceva la babysitter ai miei figli quando aveva 15 anni» racconta il suo nuovo vicino di casa, «la conosco da quando era una bambina». Per tutti qui lei era e resterà sempre innocente. «Non so chi sia stato — prosegue — ma dico solo una cosa: per lei ormai è finita, ma se davvero non è stata lei, c’è un assassino di bambini libero».
Solo tre ville sorgono nella via collinare in cui Annamaria e Stefano hanno deciso di vivere, a pochi metri dall’agriturismo della famiglia Franzoni in cui Annamaria ha anche lavorato per un breve periodo. Sul campanello ci sono nome e cognome del marito, Stefano Lorenzi. Il figlio più grande, Davide, non si vede molto da queste parti. Il figlio minore, che ieri pomeriggio si è affacciato per pochi minuti in giardino, ma poi è andato via con alcuni amici, va a scuola, papà Stefano lavora nell’azienda di famiglia. Anche il piccolo Samuele riposa qui, a qualche centinaio di metri, nel cimitero di Monteacuto.
«Ha ricostruito interamente la sua vita» dice don Giovanni Nicolini, il sacerdote bolognese che amministra la cooperativa in cui Annamaria Franzoni ha lavorato quando era ancora in carcere. «La famiglia è stata la sua forza».

Corriere 8.2.19
Il delitto di Cogne
Franzoni libera: vorrei far capire che sono innocente
di Marco Imarisio


Annamaria Franzoni torna libera. Fu condannata a sedici anni per la morte del figlio, avvenuta a Cogne, ridotti a meno di undici anni grazie a tre di indulto e ai giorni concessi di liberazione anticipata.«Da un lato sono contenta, dall’altro vorrei trovare la maniera di far capire alla gente che non sono stata io» avrebbe detto la donna.
Monteacuto Vallese (Bologna) Una bella villetta, immersa nel verde, ma isolata dal resto del mondo. Perché Annamaria Franzoni, ormai una donna libera, vuole fare perdere le sue tracce, come ha confidato al suo legale Paola Savio.
La mamma del delitto di Cogne ha finito di scontare la sua pena a 16 anni per omicidio aggravato del figlio Samuele ormai da qualche settimana, ottenendo più di un anno di liberazione anticipata grazie alla buona condotta e ai benefici di legge. La prima cosa che ha fatto, con il marito Stefano Lorenzi e il figlio adolescente nato un anno dopo la morte di Samuele, è stata lasciare l’abitazione a Ripoli Santa Cristina dove era ai domiciliari dal 2014 e acquistare una villa nel paese dove è nata e cresciuta, Monteacuto Vallese, sull’Appennino bolognese nel comune di San Benedetto Val di Sambro.
Qui ha condotto una vita tranquilla e serena nelle ultime settimane, protetta dalla sua comunità di origine che l’ha sempre creduta innocente. «Sono contenta, ma vorrei far capire alla gente che non sono stata io» continua a dire Annamaria Franzoni a chi l’ha incontrata nelle ultime settimane. Da ieri pomeriggio, invece, in casa non risponde più nessuno, le serrande sono abbassate, il marito esce solo un attimo, cappuccio sul capo, per tirare giù le tende, si intravede una luce accesa, ma la famiglia Lorenzi è barricata in casa, al riparo da fotografi e giornalisti.
«Dimenticatevi di lei, la sua pena è finita. L’ha scontata come tutte le persone per bene, ma adesso ha il sacrosanto diritto di essere lasciata in pace» dice l’avvocato Paola Savio. Impossibile, però, dimenticare il delitto di Cogne, che divise l’Italia tra innocentisti e colpevolisti. Il 30 gennaio di diciassette anni fa il piccolo Samuele, tre anni, fu ammazzato nella villetta di famiglia con 17 colpi inferti con un’arma che non fu mai ritrovata. Una vicenda, umana e giudiziaria, piena di colpi di scena e di luci e ombre, tra sopralluoghi del Ris, perizie e controperizie, sulla dinamica dell’omicidio, sulla personalità della donna, sul suo pigiama e sugli zoccoli che indossava la mattina in cui Samuele fu ucciso.
A Monteacuto Vallese, però, per tutti lei è solo Annamaria. «Faceva la babysitter ai miei figli quando aveva 15 anni» racconta il suo nuovo vicino di casa, «la conosco da quando era una bambina». Per tutti qui lei era e resterà sempre innocente. «Non so chi sia stato — prosegue — ma dico solo una cosa: per lei ormai è finita, ma se davvero non è stata lei, c’è un assassino di bambini libero».
Solo tre ville sorgono nella via collinare in cui Annamaria e Stefano hanno deciso di vivere, a pochi metri dall’agriturismo della famiglia Franzoni in cui Annamaria ha anche lavorato per un breve periodo. Sul campanello ci sono nome e cognome del marito, Stefano Lorenzi. Il figlio più grande, Davide, non si vede molto da queste parti. Il figlio minore, che ieri pomeriggio si è affacciato per pochi minuti in giardino, ma poi è andato via con alcuni amici, va a scuola, papà Stefano lavora nell’azienda di famiglia. Anche il piccolo Samuele riposa qui, a qualche centinaio di metri, nel cimitero di Monteacuto.
«Ha ricostruito interamente la sua vita» dice don Giovanni Nicolini, il sacerdote bolognese che amministra la cooperativa in cui Annamaria Franzoni ha lavorato quando era ancora in carcere. «La famiglia è stata la sua forza».
L’ ultima volta che la vidi in libertà era appena uscita di prigione. L’avvocato Carlo Federico Grosso, che si era appassionato alla vicenda, era riuscito a vincere la sua battaglia presso il Tribunale del riesame. Annamaria Franzoni mi accolse in una località segreta, era il residence Le Cascate di Lillaz, la frazione sotto Cogne. Mi apparve come una specie di Erinni. «Ho dei missili da lanciare a tutti» mi disse. «Adesso mi vendicherò di ogni ingiustizia». Era furiosa e al tempo stesso amorevole, con suo marito Stefano, con le sorelle più piccole, così felici del suo ritorno a casa. «Siediti, che ti racconto quel che ho passato in carcere» disse mentre preparava un tè, come fosse una qualunque casalinga, e non la donna che stava ossessionando da mesi l’Italia intera, accusata del più atroce dei crimini, l’omicidio del suo secondo figlio, il piccolo Samuele, che aveva appena tre anni.
Ancora oggi qualche conoscente mi pone l’inevitabile domanda. «Chi è davvero Annamaria Franzoni?». Fino al 2007, fino alla condanna definitiva, avevano sempre chiesto un’altra cosa. «Ma è stata lei?». Alla seconda domanda hanno risposto i giudici. Quel giorno, il 30 gennaio 2002, il telefonino suonò verso le 15. «C’è una mamma che ha ammazzato il suo bambino dalle parti di Aosta, una storia già finita. Puoi fare un salto?». Rimasi via, tra Cogne e Monteacuto Vallese, la casa dei Franzoni, per 96 giorni consecutivi. Il delitto del piccolo Samuele divenne ben presto una sorta di macabro gioco collettivo, una distrazione di massa italiana. Un giorno Bruno Vespa raccontò che la puntata più vista nella storia del suo Porta a Porta non fu quella sull’undici settembre o su qualunque elezione. Fu lo speciale su Cogne.
Ai funerali di Samuele, Stefano Lorenzi, il marito, sembrava una statua. C’era un moscone fastidioso che continuava a posarsi sul suo orecchio destro. Lui non se ne accorgeva neppure. Stringeva forte le mani di Annamaria, che singhiozzava e ad ogni persona che le si faceva incontro ripeteva la stessa frase. «Non sono stata io, lo giuro». Fuggiti da una Cogne che sentivano ostile, si rifugiarono nella casa di famiglia, sull’Appennino bolognese. Ogni sera i Franzoni, padre, madre e undici figli, sedevano su delle panche intorno a un tavolo di legno che sembrava quello di un convento. Quando Annamaria cominciava a parlare, calava il silenzio. «Avanti» diceva Giorgio Franzoni, il patriarca. «Raccontaci cosa è successo». Annotava ogni parola, facendo rivivere a tutti la verità della bimba come fosse una lezione da mandare a memoria.
I Franzoni sono sempre stati una famiglia unita. «Un contesto familiare coeso» scrissero i giudici che le concessero la semilibertà nel 2014. Quel «contesto» così scandagliato, così ossessivamente studiato negli anni in cui l’Italia si divideva tra innocentisti e colpevolisti, è diventato il rifugio definitivo. La morte di Samuele ebbe l’effetto di riportare indietro Annamaria e il marito Stefano, restituì la «bimba» alla sfera di influenza esercitata dal padre. Lui decideva, sempre in buona fede, sempre con una visione calvinista del mondo, anche quando imponeva scelte disastrose come la cacciata dell’avvocato Grosso, che aveva demolito la prima ordinanza di arresto. Oggi Stefano Lorenzi lavora per l’azienda del suocero, come gli altri Franzoni.
Quel giorno, a Le Cascate di Lillaz, Annamaria mi guardò smarrita. Era appena uscita, non sapeva nulla di quel che si muoveva intorno a lei. Qualcosa era cambiato. Franzoni pretendeva che i giornali pubblicassero le sue tesi difensive, piegava e ripiegava pigiamini da bambino sul tavolo, disegnando traiettorie di caduta del sangue di suo nipote. Era stato illuminato dal «Tao», l’avvocato Carlo Taormina. Aveva deciso di inventarsi una nuova strategia, facendo diventare Annamaria un personaggio ancora più pubblico di quanto già non fosse. La condanna forse sarebbe arrivata comunque, l’inevitabile reazione di rigetto degli italiani forse le sarebbe stata risparmiata. Non la rividi più, se non in tribunale. Negli ultimi anni ha sempre taciuto, e con lei la sua famiglia. Nessuno può dire davvero chi sia Annamaria Franzoni. Ma dovremmo sapere tutti che si è guadagnata una nuova vita. E con quella, anche il diritto a essere dimenticata.

Repubblica 8.2.19
Il delitto di Samuele 17 anni dopo
La libertà di Annamaria che non ha mai fatto i conti con Cogne
di Brunella Giovara


Per una specie di scherzo della vita, come a volte succede, si era ritrovata a cucire bambole di stoffa, graziosi simulacri di bambini appena più piccoli di «Sammy, che qualcuno mi ha ammazzato, e ancora aspetto di sapere chi». Naturalmente non era una punizione crudele, ma la cooperativa che collaborava con il carcere di Bologna aveva messo su un laboratorio per le detenute, confezionavano bambole tipo Pigotta e borse, pochette e sacche da spiaggia colorate, uno sprazzo di vita, per chi vive in galera, oltre che una chance di lavoro futuro. Annamaria Franzoni, però, non ne aveva bisogno. Una volta uscita, l’aspettavano casa e famiglia, i potenti Franzoni l’avrebbero protetta, sorretta, abbracciata, amata, come sempre avevano fatto, fin dal tempo di Cogne.
Questo perché la piccola Annamaria, la "Bimba", l’ultima dei dieci figli di Giorgio, era già stata da loro processata e assolta in una sorta di dibattimento privato che si era svolto in varie case e in diverse automobili, nei primi giorni dopo quel gelido 30 gennaio 2002. Ignari di essere registrati dalle microspie dei carabinieri, padre e fratelli avevano torchiato la ragazza, per poi decidere che così bastava, e quindi cosa voleva il resto d’Italia, che si domandava se aveva davvero ucciso il figlio di 3 anni, e cosa volevano gli inquirenti, i magistrati, i giornalisti. Per i Franzoni, quella era una faccenda privata.
La Bimba appariva quindi come una persona schiantata da un doppio dolore, uno evidente, le lacrime al funerale, pur nella perfetta tenuta della messinpiega appena fatta dal parrucchiere, il che aveva fatto inorridire molti, come se il fatto che avesse trovato il tempo e la voglia di andarci la rendesse sicuramente colpevole. Il secondo dolore era nascosto e probabilmente è ancora lì, nonostante gli anni di carcere, la psicoterapia poi proseguita anche ai domiciliari, il figlio chiesto al marito subito dopo i fatti («aiutami a fare un altro bambino»), ora un ragazzino che ama la mamma, come è giusto che sia. Il dolore di non essere mai stata creduta, tant’è che anche ieri ha detto a persone amiche «sono contenta, ma vorrei trovare la maniera di far capire alla gente che non sono stata io». L’impresa è difficile, anche ora che la pena è scontata, anche se tutti chiedono di chiudere la porta, infine, sulla tragica storia di Cogne. Paola Savio, suo attuale difensore, ieri diceva «solo gli ergastoli non finiscono mai, le altre pene finiscono e anche per lei è finita, e adesso dimenticatela». E Carlo Taormina, secondo avvocato, convinto di «sapere chi è il vero assassino, ma non posso indicarlo», e aggiungendo che «però non mi ha mai pagato la parcella, sono circa 400mila euro», e il primo legale, il professore Carlo Federico Grosso, «ancora convinto che non ci fossero elementi sufficienti per condannarla, sono contento per lei che sia finito questo calvario».
Tocca però ricordare le parole del procuratore generale Vittorio Corsi al processo d’appello, quando disse «questa vicenda per me è uno dei casi più semplici di "figlicidio". Le statistiche ci dicono che sono una ventina all’anno, per lo più compiuti da madri, raramente da padri. Tanti sono stati rapidamente chiariti e già dimenticati». E aveva riesumato le intercettazioni telefoniche e ambientali, una conversazione del 3 marzo 2002 in cui la Bimba dice «Cosa mi è succ...», poi corretto in «cosa gli è successo», a Samuele. Una «reazione da corto circuito», la definì il magistrato. E una frase del marito: «Bimba, non ti conviene dire che chiudevi sempre la porta di casa». E del padre: «Dobbiamo prendere le contromisure, però se abbiamo fantasia possiamo in un certo senso mettere al riparo alcune cose». Così, Annamaria ha continuato a camminare sulla linea dritta tracciata dai suoi, anche quando è uscita dalla Dozza ed è andata ai domiciliari, nella casa di Ripoli Santa Cristina, un’ora da Bologna, anche questa una casa isolata e sbarrata ai più, come era quell’altra in montagna, una casa mai dimenticata, così amata e poi odiata, setacciata dai carabinieri, riprodotta in un orrendo modellino plastico, tuttora vuota. Oggi «ha ricostruito la sua vita», dice don Giovanni Nicolini, già cappellano della Dozza, che l’ha seguita e «voluta bene. Ma è l’affetto della sua famiglia che l’ha tenuta in piedi, sapesse quanti escono dalla galera e si ritrovano soli. Nel suo caso invece si può pensare a una specie di miracolo, dovuto all’amore dei suoi, che è stato grande». Perché «lei aveva una speranza», tornare a una vita normale, chiudere tutto, cambiare ancora una volta casa, via anche da Ripoli, sulla casa ora c’è la scritta vendesi, la cuccia del cane Edo, abbandonata. Oggi è una bimba di 47 anni, appesantita dagli anni e dal carcere, il doppio mento che castiga quasi tutte le donne, la vita tranquilla della brava casalinga che è sempre stata, la spesa alla Coop, i figli, molti pensieri ancora da ritirare a Montroz, frazione di Cogne.

La Stampa 8.2.19
L’orrore che divise l’Italia e anticipò l’odio dei social contro la madre assassina
di Pierangelo Sapegno


Lo stesso giorno in cui George W. Bush definisce Iran, Iraq e Corea del Nord «l’asse del Male», in una villetta delle bambole sulla salita di Montroz, piccola frazione del Comune di Cogne, una mamma in lacrime chiama il 118 con voce tremula perché il suo piccolo bambino ha la testa spaccata piena di sangue e non sa come possa essere successo. Comincia così il «caso Franzoni», il 30 gennaio del 2002, quasi una data spartiacque fra il vecchio e il nuovo, l’Italia che viene dal secolo prima e quella che vola nel futuro che stiamo vivendo, dominato dai social e dalla rivoluzione digitale.
Oggi che Annamaria Franzoni torna libera, si consuma un’epoca che ci ha travolto nella memoria di quel delitto e nel suo angosciante mistero, perché alla fine è questo che ci ha diviso tutti: non siamo mai riusciti a spiegarci sino in fondo l’orrore di quel che è successo, come se appartenesse anche alle nostre anime e avessimo paura di sollevarne il velario. Quando muore il piccolo Samuele Lorenzi, maciullato sul letto secondo l’accusa da 17 colpi sferrati con un’arma mai ritrovata, contano ancora le tv, e Annamaria singhiozzante che si confessa sul piccolo schermo pochi giorni dopo il delitto concentra l’attenzione degli spettatori più di quel che aveva fatto qualche mese prima la guerra in Afghanistan. Ma la partecipazione del pubblico è per la prima volta orizzontale, non più verticale, completamente dentro all’informazione, sostituendosi alla cronaca e divisa in maniera netta e brutale fra i colpevolisti (la grande maggioranza) e gli innocentisti. Sta per cominciare l’Italia dei social e della rivoluzione digitale, e la cronaca di quel delitto con il suo carico di violenza verbale e manichea ne segna l’anticipazione.
Il caso è diventato così trasversale che finisce persino per connotarsi politicamente. Il primo avvocato di Annamaria Franzoni, Federico Grosso, viene considerato dalla famiglia e soprattutto dal padre di lei, Giorgio Franzoni, - un vero e proprio patriarca, che chiama ancora sua figlia «bimba», trattandola come una ragazzina -, troppo di sinistra. Per questo lo cambia con l’avvocato Taormina, che sarebbe più in linea con le sue idee politiche, e soprattutto più aggressivo: «Taormina è una persona spietata», dice in una registrazione telefonica, quello che serve «perché c’è da rimettere in riga i carabinieri...». Ma tra il pubblico la divisione è invece inversamente proporzionale: molti degli innocentisti sono di sinistra, e i colpevolisti per la maggioranza di destra, tanto che accusano calunniosamente Annamaria di essere parente della moglie di Prodi, che si chiama Franzoni anche lei, ma è solo una omonima. Con Taormina, poi, durante il processo a Torino, il rapporto finirà a male parole e carte bollate, visto che l’avvocato sostiene che la famiglia gli deve una barca di soldi. A piede libero fino al giorno della sentenza, il 27 aprile 2007, lei si ripara a Ripoli Santa Cristina, a due passi da Monteacuto, sugli Appennini bolognesi, dentro a un villaggio che la accoglie e la riscalda come una vittima perseguitata. Ma fuori di lì, l’Italia è in maggioranza colpevolista, e lo è ferocemente, in quella maniera violenta e spietata che i social hanno sdoganato. Per questo lei confessa che appena scontata la condanna se ne andrà via dal nostro Paese, lontano da qui, non soltanto per essere dimenticata.
Eppure nonostante i tre gradi di giudizio che hanno inesorabilmente sentenziato la sua colpevolezza, molti sono i dubbi che rimangono, dall’orario effettivo della morte di Samuele all’arma del delitto mai ritrovata, dal pigiama agli zoccoli della Franzoni sporchi di sangue, dalle lesioni della vittima alla posizione dell’assassino. L’accusa ha sempre sostenuto che l’alibi di Annamaria, uscita di casa dalle 8,16 alle 8,24 per accompagnare l’altro figlio Davide allo scuolabus, non era sufficiente per dichiarare l’estraneità del delitto. Secondo la difesa le conclusioni del medico legale sull’orario portano a escludere la sua responsabilità perché avrebbe avuto a disposizione troppo poco tempo, massimo due minuti, per colpire, lavarsi, cambiare l’abito e nascondere l’arma. Gli avvocati sostengono poi che il pigiama della Franzoni era sul letto quando l’asassino colpì, mentre il pm dice che lo indossava. Alla fine la sentenza - 16 anni, ma dopo 7 già in libertà vigilata -, a rileggerla adesso, è sembrata quasi un compromesso fra due ipotesi così distanti, ma non così sicure.
Non sappiamo se con la fine della condanna si esaurisce anche la sua cronaca, questo tratto di tempo cominciato quando c’erano ancora le Brigate Rosse che uccidevano Marco Biagi, e l’Italia si fermava stranita davanti ai 50 migranti morti nel mare di Lampedusa, arrivato fino ai nostri giorni. Tutto quello che è venuto dopo ci ha reso un Paese così distante da quei giorni che facciamo fatica a riconoscerlo. Eppure, verso questa mamma che abbiamo creduto assassina, o che l’abbiamo vista così, tutto è rimasto come prima, quasi che la sua voce incrinata e il suo volto piangente non fossero altro che l’immagine della colpa peggiore, quella di una madre assassina. Con lei, tutto questo tempo che è venuto non è mai andato via.

La Stampa 8.2.19
L’ex procuratore di Aosta Maria Del Savio Bonaudo
“Se la incontrassi le direi che mi dispiace ma per me rimane una lucida assassina”
di Claudio Laugeri


«Una lucida assassina». Così l’ex procuratore di Aosta Maria Del Savio Bonaudo definisce Anna Maria Franzoni. Con la pm Stefania Cugge, coordinò le indagini sull’omicidio del piccolo Samuele, avvenuto il 30 gennaio 2002 nella casetta in frazione Montrod, a Cogne.
E se la incontrasse in strada, che cosa le direbbe?
«Le direi che mi dispiace. Come procura, abbiamo fatto il nostro lavoro al meglio. Non voglio entrare nella vicenda umana. Adesso rimane lei, con il suo passato e quello che le è rimasto sulla coscienza».
Pena congrua?
«La condanna è modulata secondo vari parametri, anche se è poi diversa da quella scontata. Parlano tanto di certezza della pena, ma la realtà è differente. Badi bene, non è questione di quantità, sia chiaro».
Tornasse indietro, farebbe le indagini nello stesso modo?
«Certo. L’impostazione era corretta, tanto che il “caso” ha retto fino in Cassazione».
Ci sono state molte critiche sul lavoro della Procura...
«Direi che i fatti, le sentenze ci hanno dato ragione».
Non era possibile arrivare a una confessione?
«Credo proprio di no. Nel mio ufficio, qualcuno diceva che avrebbe fatto di meglio. Lasciamo perdere. Posso dirle qualcosa sulla Franzoni?».
Prego.
«Negli interrogatori in procura e nei processi ha sempre parlato con lo stesso tono di voce. Ha presente le interviste fatte in televisione, dove a un certo punto spuntava una lacrima? Ecco, negli interrogatori era uguale. Ma proprio identica. Non lo posso affermare con certezza, ma sembrava recitasse un copione».
Mai un’indecisione?
«L’unico momento di crisi è venuto nel primo interrogatorio, quando era difesa dal professor Carlo Federico Grosso. Ogni tanto, l’avvocato le toccava il braccio, un gesto per rassicurarla, per farle sentire un po’ di calore umano. E per la mia esperienza, non è un comportamento abituale da parte di un avvocato di quel livello».
Ne deduce che fosse mentalmente instabile?
«La perizia fatta prima della sua scarcerazione era una barzelletta. L’hanno lasciata parlare a ruota libera, ha ripetuto lo show fatto in tv».
Però, Anna Maria Franzoni ha sempre negato.
«Già. Ma credo di aver capito il motivo».
Quale?
«Penso che lo abbia fatto per il “dopo”, per salvare il buon nome. Perché una volta uscita, tutti potessero credere, o anche solo avere il dubbio di un errore giudiziario. Ci pensavo proprio l’altro giorno, se avesse confessato avrebbe avuto la pietà di tutti, con ogni probabilità anche una pena inferiore».

Corriere 8.2.19
A fil di rete di Aldo Grasso
Eluana Englaro, Mentana ripercorre «una storia italiana»
A dieci anni dalla sua scomparsa, Enrico Mentana ha presentato uno speciale Bersaglio Mobile dal titolo: «Eluana, una storia italiana» (La7, mercoledì, 21.15).

Mentana ha confezionato un’intervista a cuore aperto con Beppino, il padre di Eluana, inframezzata da una ricostruzione dettagliata della vicenda, dall’incidente del 18 gennaio 1992 alla prima lettera del padre alle istituzioni nel 2004, dai picchetti delle associazioni pro-vita fuori dall’ospedale all’incredibile scontro istituzionale tra il premier Berlusconi e il presidente della Repubblica Napolitano che rifiutò di firmare un decreto che imponeva di continuare l’alimentazione.
Beppino, le mani tremanti e il volto provato, ci ha restituito un ritratto della figlia, «un’autentica purosangue della libertà», che «amava viaggiare», rivendicando di aver portato avanti le battaglie per la libertà che Eluana stessa appoggiava, convinto che una «cultura della vita» non possa esimere anche da una «cultura della libertà».
Sono state mostrate vecchie lettere di Eluana, e il padre ha sintetizzato così il suo pensiero per un amico in rianimazione: «In certe situazioni della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma morire è l’ultima speranza». Eluana ha rappresentato qualcosa anche nella vita professionale di Mentana. All’epoca, dirigeva il TG5 e aveva chiesto di realizzare una serata dedicata proprio alla morte della giovane. Era il 9 febbraio del 2009. Dinanzi al diniego di Mediaset di sospendere la puntata del «Grande Fratello», Mentana lasciò la poltrona di direttore con queste parole: «Mi dimetto dal mio incarico di direttore editoriale perché Canale 5 non fa informazione».
Il reality andò regolarmente in onda con una ventina di secondi di frasi di circostanza della conduttrice, Alessia Marcuzzi: un abbraccio virtuale alla famiglia di Eluana e via con i giochi, come se niente fosse.

il manifesto 8.2.19
Landini: «Riempiremo piazza San Giovanni per un cambiamento reale»
Intervista a Maurizio Landini. Il neosegretario della Cgil: reddito e Quota 100 non risolvono i problemi, servono diritti e uguaglianza e un’Europa diversa. Alla vigilia della manifestazione con Cisl e Uil l’ex leader Fiom punta «sull’unità come nuova strategia»
di Massimo Franchi


Maurizio Landini, lei è segretario generale della Cgil da meno di due settimane. Prima di essere eletto veniva accusato di simpatie verso il M5s; ora è il più attaccato dai pentastellati.
Io son sempre lo stesso, la linea della Cgil non è cambiata. Anzi, dal congresso è uscita rafforzata un’idea di cambiamento dell’intera società che si fonda su uguaglianza e diritti. Al governo chiediamo che il lavoro di qualità sia una priorità.
Ora il M5s lancia una nuova battaglia: il ddl che prevede il salario minimo orario a 9 euro che voi avete sempre avversato.
Noi da tempo chiediamo una legge sulla rappresentanza collegata all’efficacia erga omnes per tutti i contratti nazionali votati dai lavoratori. È lì, nella contrattazione che devono essere fissati i minimi salariali sotto i quali non si deve andare. Oggi però non c’è solo il problema di garantire un salario dignitoso a tutti i lavoratori ma, dai rider alle partite Iva, vanno garantiti uguali diritti: ferie, maternità, Tfr, formazione. Diritti fondamentali per evitare la competizione al ribasso che ha distrutto il mondo del lavoro e che non si risolve con i 9 euro di salario minimo orario.
Sempre sul tema salariale Confindustria sostiene che i 780 euro del reddito di cittadinanza siano troppo vicini ai salari di ingresso e scoraggiano a trovare lavoro.
È vero l’opposto: sono i salari ad essere troppo bassi. In Italia abbiamo una questione salariale grande come una casa: oggi in molti casi si è poveri lavorando. Anche Confindustria deve affrontare il tema: è nel loro interesse eliminare le sacche di lavoro povero rinnovando i contratti con aumenti adeguati. Il problema va poi affrontato sia sul piano fiscale – aumentando le detrazioni e con una tassazione progressiva, tutto il contrario della flat tax – e detassando gli aumenti dei contratti nazionali, non solo quelli aziendali. Il governo da questo punto di vista è un datore di lavoro pessimo: i 14 euro in 3 anni previsti in legge di bilancio per il rinnovo dei contratti pubblici sono quasi offensivi.
Un tema delicato è quello della Tav Torino-Lione: lei partecipò con la Fiom ad una manifestazione no Tav mentre ora la posizione della Cgil è più articolata con una categoria, gli edili della Fillea, che sono a favore.
Ridurre la discussione sulla necessità che il paese ha di grandi opere infrastrutturali e immateriali alla sola Tav Torino-Lione mi sembra surreale. Noi come Cgil facciamo un ragionamento complessivo che chiede di investire nel sistema ferroviario specie al Sud, di costruire scuole e ospedali e di sbloccare i cantieri a partire dai più piccoli e di lanciare un piano straordinario di manutenzione del territorio. Queste sono le priorità. Dentro a questo quadro è indubbio che al nostro interno abbiamo opinioni diverse di cui, come segretario, devo tenere conto. Detto questo, le posizioni sono tutte legittime: la Fiom Torino e altre strutture locali sono contrarie alla realizzazione, nessuno gli ha chiesto di cambiare idea. Ma la Cgil ha una sua posizione.
La sua elezione a segretario generale pareva impossibile solo pochi mesi fa. Quando ha pensato che poteva farcela?
Quando Susanna Camusso ha proposto il mio nome.
L’obiettivo però lo aveva già nel 2014 quando – ai tempi della Coalizione sociale – in molti la volevano invece in politica.
Ripeto, anche quando sono stati fatti ragionamenti di allargamento della nostra base sociale ho ragionato in ottica di sindacato. E quando ho capito che questo allargamento rischiava di essere strumentalizzato per ragioni politiche e partitiche non ho esitato a fermarmi. Di tutto mi si può accusare ma non di essere incoerente.
Lei è il primo segretario generale della Cgil ad essere stato segretario generale della Fiom dai tempi di Bruno Trentin. La sua elezione sta anche a significare che le battaglie della Fiom erano giuste?
Rivendico ciò che ho fatto, la mia storia e il mio bagaglio di esperienze, ma se sono diventato segretario generale è per la discussione e la crescita collettiva che si è fatta in questi ultimi anni in Cgil. La Carta dei diritti universali è una innovazione strategica così come il rinnovamento interno. L’esperienza da metalmeccanico mi ha permesso di avere a che fare con grandi gruppi industriali che anticipavano i contesti, allo stesso modo negli ultimi due anni da segretario confederale sono entrato in contatto con esperienze diverse – il sindacato di strada dei braccianti, la realtà della logistica e del commercio, la battaglia dei lavoratori pubblici e della scuola – che mi hanno arricchito.
Lei ribadisce sempre che gli iscritti alla Cgil hanno il vincolo al rispetto della Costituzione, ai valori dell’antifascismo e dell’anti razzismo ma che possono votare ciò che vogliono. Per le elezioni europee non pensa però sia necessaria una “chiamata alle armi” per la sinistra contro un fascismo montante?
La Cgil indicazioni di voto non ne darà mai. Però assieme a Cisl e Uil e ai sindacati europei vuole dare un contributo su come ricostruire un’Europa sociale cambiando i trattati, mettendo in discussione il Fiscal compact, combattendo il dumping sociale. In Europa non è in crisi solo un’idea di sinistra, ma anche una idea liberale. Siamo davanti ad una fase di passaggio molto delicata: vanno riaffermati gli ideali di libertà, democrazia e stato sociale che sono alla base dell’idea stessa di Europa.
Come sarà la Cgil di Landini? Il congresso si è chiuso in modo unitario dopo divisioni che erano più personali che di merito. Come superarle?
Abbiamo un programma comune che tutto il gruppo dirigente deve realizzare. La contrattazione inclusiva rende necessario un cambiamento del nostro modo di fare sindacato: serve ridare un ruolo più ampio alle Camere del lavoro, al lavoro sul territorio. Più in generale serve più partecipazione interna – delegati e leghe – e collegialità come pratica diffusa nei territori e nelle assemblee generali. In più serve una apertura verso forme di organizzazione di cittadinanza e partecipazione attiva per affrontare temi trasversali come il cambiamento tecnologico e la sostenibilità ambientale. Un cambio culturale che si fa soltanto con il coinvolgimento di tutti.
Sabato scendete in piazza contro il governo con una serie di proposte che considerate il «vero cambiamento» per dare “Futuro al lavoro”. In questi giorni ha girato il paese nelle assemblee: quali previsioni fa per piazza San Giovanni?Il clima nel paese è molto positivo: Piazza San Giovanni sarà piena. È stato importante mettere a punto con Cisl e Uil una piattaforma unitaria che va oltre la legge di stabilità e che guarda al futuro del paese. Di averla discussa con lavoratori e pensionati che hanno apprezzato la spinta che vogliamo dare per un cambiamento reale, per il miglioramento delle condizioni di tutti. C’è bisogno di unirci per affrontare problemi complessi, ridare valore alla Costituzione, democrazia, rappresentanza.
E se, nonostante il successo della manifestazione, il governo continuasse ad ignorarvi?
Abbiamo presentato le nostre proposte a tutte le forze parlamentari: una vera riforma delle pensioni – non Quota 100 che è una uscita triennale e non affronta i problemi di donne e precari – e massicci investimenti pubblici per creare lavoro – un Reddito di garanzia e non una misura pasticciata che mischia lotta alla povertà e politiche per il lavoro creando nuovi precari come i navigator. Di rimettere al centro il lavoro e il dialogo sociale ha bisogno tutto il paese. Se il governo non ci ascolterà proseguiremo le iniziative per portare a casa risultati a partire dalla manifestazione europea del 26 aprile a Bruxelles e della battaglia contro il regionalismo differenziato che rischia di spaccare il paese e di aumentare le diseguaglianze.
L’unità sindacale non rischia di annacquare le posizioni della Cgil?
Oggi l’unità sindacale è una questione strategica che va affrontata in termini nuovi. Democrazia e partecipazione devono portare ad una nuova identità sindacale che deve partire dai luoghi di lavoro. È una richiesta che viene dal basso e che ci permette una ridefinizione del nostro ruolo rispetto alle filiere produttive, alla contrattazione inclusiva. Qualcosa di più dell’unità di azione, è un punto strategico per rappresentare la nuova condizione del lavoro nel nostro paese.

La Stampa 8.2.19
Maurizio Landini. Il leader della Cgil “Finanziaria recessiva, il governo non ha cambiato nulla suitemi del lavoro
Siamo pronti al confronto, domani torniamo in piazza a Roma con la Cisl e la Uil per una grande manifestazione unitaria
“Un piano straordinario di investimenti. Così si recuperano i ritardi del Paese”
di Paolo Baroni


«Manovra recessiva», denuncia da settimane la Cgil assieme a Cisl e Uil. Ed ora i dati le stanno dando ragione. «Purtroppo gli indicatori sono più negativi del previsto. E questo conferma la necessità di rilanciare con forza un piano straordinario di investimenti», attacca Maurizio Landini. All’esecutivo «perennemente in campagna elettorale», il nuovo segretario Cgil non fa sconti: «Si è presentato come il governo del cambiamento, e rispetto ai temi del lavoro non ha cambiato un bel niente», il decreto dignità «è stato fatto male», «i progetti sull’autonomia differenziata non risolvono i problemi del Paese ma anzi allargano le disuguaglianze» e anche sull’articolo 18 non si è andati oltre alle promesse. «L’M5S aveva detto di volerlo ripristinare e poi se ne sono dimenticati».
Domani Cgil, Cisl e Uil tornano in piazza a Roma per una manifestazione unitaria al grido di #FuturoalLavoro e si aspettano una grande partecipazione, tant’è che i comizi finali anziché in piazza del Popolo si terranno a San Giovanni. «Se davvero il governo vuole cambiare il Paese non deve aver paura del confronto» spiega Landini, mettendo in chiaro che i sindacati si aspettano risposte. «Ci aspettiamo un grande risultato e ovviamente poi non ci fermeremo lì».
Cosa chiedete?
«Occorre aprire un vero confronto sul futuro del paese mettendo in campo un serio piano di investimenti, una vera riforma fiscale e affrontando la questione Mezzogiorno. Che non solo è stato dimenticato ma vede addirittura ridotti i fondi. E poi bisogna ragionare di Europa: bisogna cambiarla, è vero. Ma per farlo occorre costruire alleanze, come stiamo facendo noi sindacati che il 26 marzo a livello europeo manifesteremo tutti assieme a Bruxelles».
Tria dice con le misure che stanno partendo si recupera.
«Non credo. Perché questa non è una crisi passeggera. Insisto, l’Italia ha dei ritardi strutturali: non a caso siamo cresciuti meno quando tutti crescevano e oggi stiamo pagando un prezzo più alto. Non è responsabilità solo di questo governo, non l’abbiamo mai negato: è da anni che diciamo che manca una politica industriale degna di questo nome per colpa dei governi di centrodestra e centrosinistra».
A proposito di investimenti, la Tav?
«La Cgil indica la necessità di un piano straordinario di investimenti di cui la riapertura dei cantieri e le grandi opere sono una parte. Per noi però sono grandi opere anche i servizi sociali, gli asili, la scuola, gli investimenti per la manutenzione del territorio e le ferrovie ordinarie. Sulla Tav sono note le mie perplessità ma è l’opinione prevalente della Cgil che come segretario generale devo rappresentare. È singolare però che mi si domandi di continuo cosa ne penso quando non si è ancora capito cosa intende fare il governo. Sarebbe opportuno lo chiarisse una volta per tutte».
Quota 100?
«Bene se qualcuno può andare in pensione prima, sbagliato presentarla come la riforma della legge Fornero. E trovo singolare che abbiamo bloccato le assunzioni nel pubblico impiego. Per noi occorre andare ben oltre Quota 100, che preferirei chiamare “quota 62+38” per non illudere la gente. Serve una riforma vera: una pensione di garanzia ai giovani, occorre tutelare le donne, dare risposte a lavori usuranti e gravosi e riconoscere i lavori discontinui».
Poi c’è il reddito di cittadinanza…
«Giusto aumentare le risorse per combattere la povertà, visto che i governi precedenti avevan fatto troppo poco. Però combattere la povertà assieme ad un nuovo piano di politiche per il lavoro produce un ibrido che rischia di far danni su entrambi i fronti. Il lavoro non lo creano i centri per l’impiego ma gli investimenti, e non é vero che basta dare lavoro per uscire dalla povertà. Perché in molti casi il lavoro c’è ma è sottopagato. Altra questione enorme che andrebbe affrontata avviando anche una seria riforma fiscale».
Guardavate con interesse all’avvento dei 5 Stelle. Delusi?
«Guardiamo con interesse senza pregiudizi tutti coloro che assumono come riferimento il lavoro e la promozione dei suoi diritti. E oggi non siamo delusi né disillusi. Avevamo invece capito prima di altri che nel Paese c’era stata una rottura molto forte tra il mondo del lavoro e che il risultato delle urne era anche il frutto della delusione rispetto all’esperienza dei governi precedenti. Abbiamo colto che dietro quel voto c’era una domanda di cambiamento, dopo di che come sta traducendo il cambiamento questo governo non va bene: Lega e 5 Stelle sono alternativi tra loro, e oggi se non si riesce far nulla è perchè non son quasi d’accordo su nulla».

Il Fatto 8.2.19
Il sindacato torna in piazza: la notizia è buona per tutti
di Salvatore Cannavò

ùSi possono fare tutti i distinguo che si vogliono, ma che il sindacato torni a manifestare è una buona notizia. Perché scendere in piazza, protestare, scioperare se è il caso, e poi ottenere risultati è esattamente il mestiere del sindacato. Se c’è un appunto che si può fare al sindacalismo confederale è di averlo fatto a volte poco, a volte male, a volte in chiave pregiudiziale: cioè per decisione politica, contro la destra e, poi, di fronte a politiche analoghe, graziando la sinistra al governo. L’assenza di iniziativa efficace contro la “riforma Fornero” parla chiaro.
Se c’è, però, una cosa che non si può rimproverare alla Cgil e alla Uil – la Cisl si sfilò – è quella di non aver manifestato quando al governo c’era il Pd. La manifestazione nazionale del 25 ottobre 2014 e poi lo sciopero generale del 12 dicembre segnarono un punto di svolta in particolare per il sindacato “rosso” che, rompendo il cordone ombelicale con il partito di riferimento, all’epoca guidato da Matteo Renzi, imboccò allora la strada che ha portato alla segreteria di Maurizio Landini. Se ha scioperato contro il Pd la Cgil può benissimo manifestare contro il governo Lega-M5S.
La condizione che si può chiedere ai sindacati – da parte dei lavoratori, non certo da parte del governo – è però che siano chiare le parole d’ordine e chiari gli obiettivi. Siamo in una fase in cui, infatti, è bene che le forze in campo siano limpide e trasparenti e giochino una partita che rimobiliti la società, faccia crescere la partecipazione e alimenti un dibattito sano. E questo è possibile se le rivendicazioni non siano generiche e urlate, ma facciano parte di un preciso disegno di cambiamento.
Ieri il segretario della Uil, Carmelo Barbagallo (noto ai lettori per vicende che con il sindacato non hanno nulla a che fare) ha dichiarato che la manifestazione “non è contro il governo” ma si fa per “cambiare di più”. Affermazione solo in parte vera, perché sul terreno delle politiche migratorie Landini ha già dichiarato più volte che la Cgil intende opporsi apertamente alla strategia del ministro Matteo Salvini. Un comportamento logico per un sindacato che ha i riferimenti culturali e politici come la Cgil. Semmai, stupisce che non lo abbia fatto prima, almeno con la forza che ci sta mettendo Landini.
Se si manifesta per “chiedere di più”, allora, occorre ascoltare nei comizi e nelle piazze parole chiare sulle pensioni, sul salario, sull’orario di lavoro e anche sul reddito di cittadinanza. Se si contrasta quello proposto dall’attuale governo occorre spiegare bene cosa si chiede e capire se si appoggia la tesi “lavorista” che aggancia sempre e comunque un reddito al lavoro, purché sia, o se invece si considera, e come, con quali risorse, un sostegno sociale per chi il lavoro – vero e dignitoso – non lo trova.
Dal lato del governo, invece, sarebbe meglio dismettere quel nervosismo che in passato ha caratterizzato la premiership di Renzi. A un sindacato che manifesta, a dei lavoratori che sacrificano una giornata del loro tempo – a oggi si stimano almeno 100 mila partecipanti – non si dice che verranno in piazza “per un biglietto pagato e un pranzo offerto” come ha fatto l’europarlamentare M5S, Ignazio Corrao. Meglio approfittare di una occasione di dialettica sociale – di cui si sentiva la mancanza – per discutere nel merito dei temi, manifestare le proprie ragioni e, come sempre, giocarsela di fronte al mondo del lavoro. Chi ha interesse a migliorare davvero le condizioni di chi, per vivere, ha bisogno di lavorare, non può che ritrovarsi dalla stessa parte.

Corriere 8.2.19
Il rapporto dell’Onu. Torture, stupri
L’inferno libico per i migranti
di Goffredo Buccini


Torture, stupri, riduzione in schiavitù: è la sorte disperata dei migranti trattenuti nell’inferno libico. La denuncia nel rapporto Onu.
U n ragazzo, scappato dal mattatoio somalo e passato per un lager di Kufra, l’ha spiegata con quella sintesi che si raggiunge solo attraverso il dolore : «Che tu sia un rifugiato o un migrante, in Libia sei sempre spaventato. Devi dormire con un occhio aperto. Vieni venduto da un trafficante all’altro». Poche parole da merce umana, così efficaci da finire in cima a un capitolo del dossier, il quinto, «Viaggio dall’inferno». Quel dossier tutt’altro che inedito, 61 terribili pagine redatte lo scorso dicembre, grava da un mese e mezzo sulle coscienze dell’Occidente. E, come tutte le colpe che appaiono senza redenzione, tende a essere rimosso.
Si chiama Desperate and dangerous: report on the human situation of migrants and refugees in Lybia , ed è firmato da due organismi dell’Onu: l’Alto commissariato per i diritti umani (Unhcr) e la Missione di supporto in Libia (Unsmil). Consta di 1.300 interviste di prima mano raccolte tra gennaio 2017 e agosto 2018 nelle visite di 11 centri di detenzione: non tutti e certo nemmeno i peggiori. Cade due anni dopo un analogo rapporto (dicembre 2016) in cui l’Onu dava l’allarme su una situazione umanitaria totalmente fuori controllo. Ora scopriamo che in questo periodo le «autorità libiche si sono dimostrate incapaci o del tutto refrattarie a mettere fine alle violenze e agli abusi contro migranti e rifugiati».
Quelle 61 pagine contengono in sé un paradosso: perché l’Onu, svelando gli orrori libici, confessa una inanità nel contrastarli che potrebbe infine diventare vergogna, in una sorta di Srebrenica mediterranea dove massacrata non è una singola nazionalità per la sua appartenenza religiosa (allora, i bosniaci musulmani) ma un’intera categoria umana: i fuggiaschi dell’Africa.
Omicidi, fosse comuni nel deserto, stupri seriali e di gruppo su donne anche incinte o su mamme che allattano, bambini massacrati davanti ai genitori, ragazzi seviziati a morte in collegamento video coi parenti che devono pagarne la liberazione, schiavismo, lavori forzati, celle da centinaia di posti senza una latrina, denutrizione, bruciature con ferri roventi, cavi elettrici ai genitali, unghie strappate. Il paragone con Srebrenica non appare poi forzato. Si muore di fame e di setticemia. Si resta in detenzione senza motivo e all’infinito: una legge coniata da Gheddafi fa considerare schiavi i migranti illegali, i governanti fantoccio di adesso non l’hanno mai cambiata.
Cosa più importante, l’Onu ha «credibili informazioni» sulla complicità di «ufficiali dello Stato… gruppi formalmente integrati nelle istituzioni, rappresentanti del ministero degli Interni e della Difesa, nel traffico di migranti e rifugiati. Questi personaggi dello Stato si arricchiscono attraverso lo sfruttamento e le estorsioni a danno di rifugiati e migranti».
Cade il velo sulla menzogna della Libia come «porto sicuro» dove plausibilmente ricondurre i migranti respinti in mare. Unhcr e Unsmil hanno registrato 53.285 richiedenti asilo fermi in Libia quattro mesi fa, ma sostengono che il numero sia enormemente più alto data l’estrema difficoltà per le Nazioni Unite ad assolvere sul posto al proprio mandato. A gennaio il segretario generale Antonio Guterres ha inviato al Consiglio di sicurezza una relazione di 15 pagine (acquisita dalla Corte penale internazionale dell’Aja) in cui spiega che lì i migranti sono quasi 700 mila (10% donne, 9% bambini) ma in mano alle «autorità» è solo una minoranza, di tutti gli altri non si sa quasi nulla, sono in centri di detenzione inaccessibili, gestiti da gruppi armati.
Nel rapporto Unhcr-Unsmil si sostiene anche che «nonostante la diminuzione degli arrivi in Italia nel 2018, il viaggio è diventato più pericoloso, con oltre 1.200 migranti morti nei primi otto mesi dell’anno scorso durante la traversata». La guardia costiera libica (che ha preso il controllo di 94 miglia nautiche di Sars) è descritta come una compagnia di pirati in base a decine di testimonianze che parlano di uso delle armi, collisioni in mare coi boat people, vere aggressioni.
Sulla terraferma, Bani Whalid, Sabha, Kufra, Buraq al Shati, Shwerif, Sabratah non sono, secondo l’Onu, centri di raccolta ma sostanzialmente campi di sterminio gestiti da kapò di cui si conoscono persino i nomi e i nomignoli, famigerati tra le loro vittime: Moussa e Mahmoud Diab, Mohamed Karongo, Gateau, Mohamed Whiskey, Rambu… Le aste degli schiavi furono documentate dalla Cnn in uno sconvolgente servizio nel novembre 2017. Le prigioni «alternative» sono hangar o cantine da 700 o 800 anime stese le une sulle altre, donne e uomini in totale promiscuità: niente acqua né luce. «A Shwerif ti sparano in una gamba e ti lasciano dissanguare se non paghi… Per spingerci a pagare hanno picchiato mio figlio di 5 anni con una spranga sulla testa», narra un profugo del Darfur. I miliziani camminano sul ventre di donne incinte. Una tra mille racconta: «Vengo dall’Eritrea, sono entrata il Libia a gennaio 2017, sono stata rapita tre volte e portata ad Al Shatti, Bani Walid e al-Khoms. Lì eravamo 200 in una stanza. Non potevamo respirare né allungare le gambe. Ogni notte sono stata violentata da almeno sei uomini, alcuni libici, altri africani, per cinque mesi. Mia madre ha dovuto vendere la casa e impegnare tutto per pagare i 5.000 dollari che questi volevano. Ora sono incinta di uno degli stupratori».
Nulla di tutto ciò è, in assoluto, una rivelazione. Anche se il catalogo degli orrori è così vasto da stordirci. A questi orrori dobbiamo l’enorme (per quanto provvisorio) beneficio di non avere sulle nostre coste, in qualche settimana, fiumi di disperati detenuti lì senza ragione e senza scadenza. Ma certi benefici possono dannare. Se l’Onu non è una di fabbrica di fake news (e ci sarà chi lo afferma, ne siamo sicuri) la Libia è uno stato canaglia o, meglio, una federazione di bande criminali. Certo, la realpolitik ci consiglia di voltarci altrove o, addirittura, di spalleggiare una delle bande in lotta. Ma i fantasmi di Bosnia hanno accompagnato la mala coscienza dell’Occidente per due decenni. Davvero dobbiamo considerare la Libia come un buco nero, come suggeriscono pragmatici strateghi? E quanto a lungo ci potrà proteggere la realpolitik? Al posto di guardia Onu di Srebrenica, un graffitaro cambiò la scritta «United Nations» in «United Nothing». Se la storia insegna qualcosa, è che chi non combatte gli assassini, alla fine, ne è complice.

Repubblica 8.2.19
Migranti, per la strage dei 117 sotto inchiesta ora c’è il cargo " Ignorò i naufraghi per 2 ore"
La procura di Roma cambia le accuse: archiviazione per la Guardia costiera "Il primo allarme lo hanno preso i libici".  Stallo sbloccato dagli 007 italiani
di Fabio Tonacci


Di che cosa stiamo parlando
Il 18 gennaio scorso, a 48 miglia dalle coste libiche, un gommone con 120 migranti a bordo è naufragato. Si sono salvati solo in tre, recuperati con un doppio intervento dell’elicottero inviato dalla nave Duilio della Marina militare italiana. La procura di Agrigento ha aperto subito un’inchiesta, ipotizzando responsabilità nei confronti della Guardia costiera italiana per il ritardo nelle operazioni di salvataggio. L’indagine però è stata trasferita a Roma per competenza, e i pm romani hanno ribaltato le accuse: gli italiani sono stati corretti.

ROMA. Al largo delle coste dello Sri Lanka, su una rotta che la porterà in Cina, sta navigando in queste ore la petroliera Cordula Jacob. Armatore tedesco, il gruppo di shipping Ernst Jacob, bandiera liberiana. Al timone c’è un uomo, un comandante croato, che custodisce un segreto. Lui sa perché, il 18 gennaio scorso, aspettò due ore e venti prima di girare la prua verso un gommone semi affondato, partito dalla Libia con 120 migranti a bordo e avvistato intorno alle 13 quando c’erano ancora una cinquantina di persone vive, aggrappate a pezzi di plastica e legno. E lui sa anche cosa gli venne detto dai servizi segreti italiani ( forse anche dai libici) per costringerlo a fare ciò che nessun mercantile ormai, in quel pezzo di mare davanti alla Libia, vuole fare: rispondere ai messaggi di soccorso, deviare dalle rotte commerciali per salvare vite umane, ritrovarsi invischiati nel vuoto senza certezze che va sotto il nome di zona Search and Rescue libica.
Ora il comandante croato è indagato dalla procura di Roma per omissione di soccorso, aggravata dalla morte dei naufraghi. Due ore e mezzo di incomprensibile attesa, infatti, hanno tracciato una linea tra la sopravvivenza e l’annegamento. Ne sono morti 117 a 48 miglia dalle coste di Tripoli. Solo tre i superstiti, recuperati dall’elicottero della nave "Duilio" della Marina italiana in due interventi consecutivi, tra le 16.45 e le 18.30.
I magistrati di Agrigento avevano intravisto delle possibili responsabilità, nel ritardo del salvataggio, a carico del Centro di coordinamento soccorsi italiano, gestito dagli ufficiali della Guardia costiera, ma la procura di Giuseppe Pignatone ( a cui è passata l’inchiesta per competenza territoriale) ha ribaltato completamente l’impostazione. « Quando alle 14.25 a Roma seppero del gommone in avaria — si legge nella richiesta di archiviazione delle accuse, firmata dal pm Sergio Colaiocco — la Centrale operativa libica era già a conoscenza dell’evento » . Di più: la guardia costiera di Tripoli provò anche a mandare una motovedetta, che però si guastò durante la navigazione e fu costretta a tornare indietro. Dunque — è il ragionamento di Colaiocco — poiché il naufragio è avvenuto nella zona Sar libica, e poiché i primi ad aver ricevuto la notizia sono stati i militari di Tripoli, la Guardia costiera italiana ha agito correttamente, « monitorando costantemente la gestione dell’evento e premendo sui libici per un intervento rapido».
Chi poteva fare e non fece, secondo il magistrato romano, è il comandante della Cordula Jacob. La petroliera venne contattata «ancora prima delle 14.21» dall’aereo militare italiano che aveva avvistato i naufraghi. Si trovava a 36,5 miglia dal gommone, a circa due ore di navigazione, e se fosse partita subito sarebbe potuta arrivare prima dell’elicottero della Duilio. Le comunicazioni erano difficoltose, ma sembra che il comandante croato riferì di non essere stato autorizzato dall’armatore tedesco a intervenire. Probabilmente temendo di finire come il mercantile Nivin, costretto a novembre a riportare indietro i migranti recuperati e a rimanere fermo nel porto di Misurata per giorni.
Non è la prima volta che una nave commerciale si tiene alla larga dalle rotte dei gommoni: da quando la Libia ha registrato la propria zona Sar nel 2018, e la gestione dei salvataggi è passata quasi integralmente in mani loro (l’Italia ha ancora la nave Lipari attraccata a Tripoli con funzioni di supporto), i mercantili deviano volutamente.
Il 18 gennaio è stato l’intervento delle autorità italiane, rivendicato pubblicamente dal premier Conte, a far cambiare idea al comandante croato, pare dietro la minaccia di non entrare più nei porti italiani e libici. Essendo lui straniero, per perseguirlo penalmente e proseguire nelle indagini la procura di Roma ha bisogno di una richiesta formale da parte del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. La richiesta, però, non è ancora arrivata.

il manifesto 8.2.19
Prodi dice sì a Zingaretti, ma ora deve riempire i gazebo
Congresso/ Le primarie del Pd. L'appello di Zingaretti: al popolo del centrosinistra dico che è tempo di ricostruire una proposta e una identità diversa per l’Italia. Io ce la metto tutta
d.p.


Nel Pd «c’è bisogno di una figura autorevole, che sappia finalmente ascoltare, riconciliare, tranquillizzare ma anche decidere» e questa figura può essere Nicola Zingaretti, «se intensifica il lavoro di allargamento e di pacificazione che ha iniziato» ma «lo dovranno decidere le centinaia di migliaia di cittadini che voteranno alle primarie».
Romano Prodi ci ha ripensato. Solo pochi giorni fa aveva detto di non vedere né un leader né un progetto nelle Pd impegnato nelle primarie. Ieri invece con un’intervista a Repubblica ha formulato un endorsement in piena regola per Zingaretti. In mezzo c’è stato un pranzo bolognese di ’chiarimento’ fra i due – che fin lì non si erano parlati – e anche il lavorio di Sandra Zampa, ex deputata Pd e storica portavoce di Prodi, a favore delpresidente del Lazio.
Così Zingaretti si aggiudica la agognata benedizione del padre dell’Ulivo e dell’Unione, le coalizioni di centrosinistra che hanno vinto (ai tempi del maggioritario). Il professore, che giura di voler fare solo «il nonno» e dispensare consigli, torna ad avvicinarsi al Pd dopo gli anni in cui aveva levato «la tenda», insomma gli anni renziani. Il fatto è poco più che simbolico ma abbastanza per far indispettire lo sfidante Maurizio Martina: «Io penso che al Pd, oggi come mai, servano figli, più che padri», dice, rispolverando il renzianissimo concetto di rottamazione, «Penso a una nuova generazione in campo per combattere questa destra pericolosa e rilanciare il nostro impegno fondamentale per la nuova Europa».
Prodi non è piaciuto neanche a Carlo Calenda, che dopo gli iniziali entusiasmi – tutti diplomatici, ma lo capisce solo ora – comincia a vedere allungata la lista degli scettici sulla sua operazione «Siamo europei». Una cosa è diventare «papà del Pd», dice, un’altra di «tutto il centrosinistra allargato». Allargato ma chiuso a sinistra, nella versione calendiana che respinge gli ex Pd e incassa molto scetticismo da parte di +Europa e Italia in Comune di Pizzarotti, sui quali aveva contato.
Un’idea che non è quella di Zingaretti, ormai è chiaro, che invece ha aperto le porte – fin qui con molte cautele, persino pericolosamente troppe – a un pezzo della sinistra a sinistra del Pd tramite il suo braccio destro Massimiliano Smeriglio e la ex presidente della Camera Laura Boldrini.
Ma Prodi avverte anche che «un leader prende la sua forza dal popolo». Insomma indica il vero punto della competizione, l’affluenza alle primarie. Zingaretti sa che la vittoria senza una partecipazione di almeno un milione di votanti – questa l’asticella che circola, anche tutti negano – produrrebbe un segretario debole, dentro e fuori dal partito. Per questo ora il massimo sforzo di Piazza Grande, il suo movimento-mozione è tutto per la mobilitazione. Iinsieme a Martina sabato 9 febbraio sarà a Roma alla prima grande mobilitazione unitaria di Cgile Cisl e Uil. E per questo ha organizzato una «mobilitazione» dei suoi dal 15 al 17 febbraio. Gli ultimi sondaggi lo danno in testa con il 55 per cento, secondo Martina con il 37 e Giachetti staccato con l’8. E infine per questo ha in programma una serie di appelli» rivolti agli elettori e agli ex elettori ormai lontani dal Pd. Il primo è arrivato ieri: «Al popolo del centrosinistra dico che è tempo di ricostruire una proposta e una identità diversa per l’Italia. Io ce la metterò tutta da parte mia, ma tutti si devono sentire investiti da questa missione democratica»

Corriere 8.2.19
Il caso
«Mancano 460 mila euro»
Il Pd in rosso dà l’ultimatum ai parlamentari morosi
Tra chi non versa i contributi anche Delrio, Orlando e Richetti
La parola
Il decreto ingiuntivo è  il provvedimento attraverso il quale il giudice, su richiesta del titolare di un credito, intima al debitore di corrispondere una somma di denaro o di consegnare un bene mobile, entro il termine di 40 giorni dalla notifica
Lo scorso anno il Pd chiese 60 provvedimenti nei confronti di altrettanti parlamentari morosi.
di Claudio Bozza


Con le casse in profondo rosso, le spese coperte a fatica per organizzare le primarie e un grosso interrogativo su come finanziare la campagna per le imminenti elezioni europee. La vita del Pd, in attesa di una scossa dal nuovo segretario, sembra appesa a un filo. Perché, ormai, sono saltate anche le regole interne più elementari. Un esempio? Dall’inizio della legislatura, decine tra deputati e senatori hanno versato solo qualche spicciolo o addirittura niente nelle casse del partito. E al Nazareno, in meno di dieci mesi, hanno contato un ammanco di circa 460 mila euro. Ogni eletto, secondo il regolamento dei democratici, è tenuto a versare ogni mese al partito 1.500 euro, oltre ai 10 mila euro una tantum al momento dell’elezione. Cifre sostenibili, se si pensa che gli stipendi oscillano tra i 12 e i 15 mila euro al mese, a seconda dei casi. Nella lista dei morosi (8-10 mila euro a testa) ci sono nomi importanti: il capogruppo alla Camera Graziano Delrio, con colleghi come l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, Antonello Giacomelli, Enza Bruno Bossio, Maria Chiara Gadda, Chiara Gribaudo. Mentre tra i senatori risultano: Matteo Richetti, braccio destro dell’aspirante segretario Maurizio Martina; poi Ernesto Magorno, Daniele Manca, Franco Mirabelli.
L’elenco sarebbe assai più lungo, ma per ora sono questi i nomi che filtrano dal Nazareno, spinti anche dall’esasperazione di alcuni dei dipendenti del partito costretti alla cassa integrazione. Parte dei contributi che i parlamentari dovrebbero versare sarebbero infatti destinati ad un fondo di 300 mila euro, a sostegno dei lavoratori dem, rimasto però vuoto per metà.
«Il partito è come imploso, il mancato versamento dei contributi è il segno che ormai è venuta a mancare anche la solidarietà verso questa casa, che era di tutti», si sfoga nei corridoi uno dei 171 dipendenti rimasti. Una situazione tale, che il tesoriere Francesco Bonifazi ha inviato una lunga lettera a Delrio, al capogruppo al Senato Andrea Marcucci e al presidente del partito Matteo Orfini: «Vi scrivo, perché si è venuta a creare una situazione incresciosa, ingiustificabile, per cui devo trovare una soluzione e dunque vi chiedo aiuto — si legge —. Se sul fronte del 2 per mille siamo di gran lunga il miglior partito, con una quota del 52% delle opzioni effettuate, sul fronte delle contribuzioni dei nostri colleghi raggiungiamo risultati che con un eufemismo definirei grotteschi». In meno di un anno, le morosità hanno sfiorato il mezzo milione. Il quadro economico sembra così delicato, che anche spendere i circa 600 mila euro per organizzare i gazebo per le primarie crea difficoltà. Non è la prima volta, negli ultimi tre anni, che i dem si trovano a fronteggiare ammanchi del genere. Nel giugno scorso, dopo aver chiuso il bilancio, dal Nazareno partirono 60 decreti ingiuntivi verso altrettanti parlamentari. C’era da recuperare oltre un milione e mezzo: in cima alla lista, poi condannato dal giudice a rifondere oltre 83 mila euro, c’era l’ex presidente del Senato Pietro Grasso.

La Stampa 8.2.19
Il crollo delle nascite mette in gioco il diritto alla maternita’
di Linda Laura Sabbadini


Nel 2018 solo 449 mila nascite. 120 mila in meno rispetto a dieci anni fa. Lo sapete quante erano nel 1964? 1 milione. Un cambiamento epocale. E sono in particolare i nati da madri italiane a diminuire di più. Le nascite da madri straniere raggiungono il 20%, una parte cospicua. Il numero di figli per donna è 1,3, molto basso e molto variegato nelle varie zone del Paese. A differenza del passato è il Nord ad avere più figli e il Sud di meno. Bolzano è al primo posto con 1,76, la Sardegna addirittura all’ultimo con 1,06 figli per donna.
Mentre i nati calano, l’età alla nascita dei figli cresce, raggiungendo il record di 32 anni nel 2018. Cresce la fecondità nelle età superiori ai 30 anni e diminuisce in quelle inferiori. E c’è un’altra notizia importante: abbiamo raggiunto il record di donne che hanno figli dopo i 40 anni. Le donne con più di 40 anni stanno per eguagliare la fecondità delle 20-24enni.
Ma perché così tante donne fanno figli in età avanzata? Perché non è vero che non esiste più il desiderio di maternità o paternità. Molte donne e uomini desiderano avere figli. Lo dimostrano tutte le rilevazioni statistiche, svolte per tanti anni. Ne vogliono 2 in media. Ma nella realtà ne hanno solo 1,3. Ciò vuol dire che lo scarto tra desiderio e realtà è alto.
Ci sono ostacoli. Le donne ci provano più tardi che in passato, rinviano, e poi rinviano di nuovo, fin quando ci riescono, oppure sono costrette a rinunciare. Comunque, non mollano. Il tempo biologico a disposizione si riduce con i rinvii e aumentano i rischi di abortività spontanea o semplicemente di non riuscire più a rimanere incinta. Ma nonostante il desiderio le nascite sono poche perché gli ostacoli alla costruzione di una vita indipendente sono diventate vere e proprie barriere.
La verità è che è in gioco il diritto alla maternità e alla paternità. Diritto che si può esercitare in una democrazia avanzata se viene riconosciuto una volta per tutte il valore sociale della maternità e della paternità. E scusatemi, ma dobbiamo dirlo, noi de facto non lo abbiamo riconosciuto. Non ci abbiamo investito. Le donne hanno pagato e pagano il prezzo più alto, con il sovraccarico di lavoro di cura, con le difficoltà e interruzioni sul lavoro, con i più bassi salari, con le penalizzazioni sulla carriera. E donne e uomini lo hanno pagato e lo pagano non riuscendo ad avere il numero di figli che desiderano realmente.
Non basta e non serve un bonus qua, una misura là, frammentate. Non serve la misura introdotta dell’appezzamento di terra per chi fa il terzo figlio, copiata dalle politiche di Putin per ripopolare le steppe! Altro che terzo figlio! Qui c’è chi non riesce ad avere il primo o il secondo figlio desiderato.
Dobbiamo adottare un’ottica di sistema. Investire in primis sui giovani che hanno difficoltà a costruire una propria vita indipendente, garantendo accesso al mercato del lavoro e adeguata formazione, investire in servizi per l’infanzia di qualità e adeguatamente flessibili, in misure per un maggiore coinvolgimento dei padri nel lavoro di cura, in tempo pieno nelle scuole, in welfare aziendale vero, investire per rendere più semplice la vita delle madri.
Serve che finalmente il governo si doti di politiche per la creazione di un clima sociale favorevole alla maternità ed alla paternità: non più parole, ma azioni concrete. I Paesi che l’hanno fatto, come la Svezia, stanno in ben altra situazione e hanno tassi di fecondità più alti e vicini a 2. Più frequentemente lì il desiderio si trasforma in realtà.

Corriere 8.2.19
I dati dell’istat
Meno genitori e meno figli: 9.000 culle vuote
di Candida Morvillo


Nell’anno appena finito sono nati 9 mila bimbi in meno. Il primo figlio arriva - mediamente - a 32 anni. Il tasso di fecondità è uno dei più bassi d’Europa.
I l numero medio di figli per donna è rimasto invariato a 1,32, come nel 2017, eppure, nell’ultimo anno, di bambini ne sono nati novemila in meno. L’antinomia dei due dati appena rilasciati dall’Istat è la foto perfetta di una nuova «trappola demografica». La definisce così Letizia Mencarini, demografa alla Bocconi di Milano, facendo notare che sì il nostro tasso di fecondità è basso (1,32 appunto, contro l’1,9 della Francia o l’1,8 della Gran Bretagna), ma drammatico è anche «il rimpicciolimento della platea dei genitori». Spiega: «I figli del boom economico erano tanti, un milione l’anno, una folla di potenziali mamme e papà. Nel 2018, invece, sono nati 449 mila bambini e saranno loro i genitori di domani. Dieci anni fa, erano 128 mila in più. Si parla tanto del calo della natalità, ma è forte anche l’allarme “genitori cercasi”. Fra 20 anni, avremo 2 milioni 215 mila potenziali mamme in meno di oggi». «Genitori cercasi», è il titolo del libro appena pubblicato da Mencarini e dal collega Daniele Vignoli per Università Bocconi Editore, e lo scenario è quello di una popolazione che invecchia e si riduce. Per l’Istat, anche il saldo migratorio positivo del 2018 è stato quasi integralmente assorbito dal saldo naturale di nascite e morti.
«Né i 67 mila neonati da madre straniera sono sufficienti a mutare le cose», aggiunge Mencarini, che avvisa: «Dalla trappola demografica si esce avendo più genitori con le migrazioni e più figli per donna: con 1,6, avremmo mezzo milione di bimbi l’anno». Alle mamme che mancano all’appello, si sono aggiunte anche le figlie del ‘68, il che ha un suo fascino simbolico. L’Istat fa notare, infatti, che il 2018 va considerato, per convenzione, il loro ultimo anno fertile: le nate del ‘68 hanno oggi 50 anni e 1,53 figli ciascuna, avuti in media a 30,1 anni. Ora, invece, si partorisce in media a 32, l’età più alta di sempre. E avere i figli più tardi significa probabilmente averne meno, anche se le italiane tentano il recupero e l’Istat segnala fra le over 40 il massimo della fecondità mai registrato dal ‘70.
I calcoli di Mencarini, tuttavia, dicono che fra vent’anni nasceranno solo 406 mila bimbi, sempre che le donne continuino ad averne così pochi e se non cambiano le politiche socio-economiche: «Noi scontiamo l’inattivismo politico degli anni 90 e lo dimostrano i dati in controtendenza di zone dove invece la natalità è fortemente supportata, come Bolzano: 1,76 figli a donna». Fra le righe di questo rapporto Istat, aggiunge, «si legge anche la smentita del pregiudizio che le italiane fanno pochi figli perché lavorano, come ha registrato un’indagine sconfortante dell’Eurobarometro sulla mentalità di genere. Dai dati, infatti, si vede che si fanno più figli dove le donne lavorano di più, come nel Nord. All’opposto, la fecondità è minore nelle Regioni a scarsa occupazione femminile: 1,16 in Basilicata, 1,13 in Molise… Zone che per l’Istat vanno verso lo spopolamento». Di questo passo, insomma, parleremo ancora di «culle vuote», ma a chi?

Repubblica 8.2.19
Il Paese che non cresce
Recessione demografica
di Alessandro Rosina


Se l’Italia economica è in recessione tecnica, l’Italia demografica è in recessione cronica. Il segno meno sulla popolazione italiana persiste dal 2015, come certificato dagli ultimi dati Istat. Abbiamo buone ragioni per temere di trovarci nell’anticamera di una lunga fase di declino destinata a caratterizzare il resto del secolo. Non siamo i soli, ma siamo più soli degli altri. In un’Europa che vede diminuire il suo peso nel mondo, l’Italia mostra di anticipare e accentuare tale tendenza: nessun altro grande paese europeo si trova in sistematica diminuzione. La Spagna ha superato i 46 milioni di abitanti nel 2008, ha subito una frenata negli anni acuti della crisi, ma ha poi ripreso a salire avvicinandosi ai 47 milioni. Più solida la crescita della Germania che ha guadagnato oltre un milione e mezzo di residenti dal 2015. Simile la situazione del Regno Unito. A metà tra Germania e Spagna si colloca invece la Francia.
L’Italia, che era nella top 10 dei paesi più popolati al mondo a metà del secolo scorso, ora non è più nemmeno nella top 20 ed è destinata a scendere sempre più in basso nei prossimi decenni. Il nostro peso relativo sul pianeta è sceso sotto lo 0,8 percento. Cina e India assieme superano il 35 percento. È evidente, da questi numeri, come avere ruolo in un’Europa che ha un suo ruolo nel mondo sia l’unico modo per non diventare del tutto marginali. I dati demografici ci dicono però che manteniamo il non invidiabile podio mondiale dei paesi con più intenso invecchiamento della popolazione. Anche su questo punto anticipiamo e accentuiamo le tendenze: nel continente più vecchio l’Italia è il paese con più alta percentuale di anziani. Nel mondo l’incidenza di chi ha 65 anni e oltre è sotto il 10 percento. Tra i grandi paesi europei Francia, Spagna e Regno Unito si mantengono ancora sotto il 20 percento. La Germania arriva a superare il 21 percento. I recenti dati Istat posizionano il nostro paese al 22,8 percento.
In un editoriale di Neodemos, la rivista online dei demografi, l’Italia è ritratta come «un sottomarino che sembra aver perso la spinta per riemergere » , bloccato sul fondo da una "questione demografica" di cui c’è bassa consapevolezza e scarsa capacità di cura. La popolazione è come un organismo che per crescere ha bisogno di essere alimentato. A sostenerla sono le nascite e gli arrivi dall’estero. L’immigrazione è stata rilevante negli anni precedenti la crisi, ma è scoraggiata dalla bassa crescita economica ed è disincentivata oggi dalle forze politicamente maggioritarie nel paese. In compenso non viene offerto nessun solido e convincente rafforzamento dell’altra fonte della crescita demografica, ovvero la natalità. Tant’è vero che il numero medio di figli per donna rimane inchiodato ai livelli più bassi in Europa. Nelle scelte di vita dei cittadini italiani la ripresa post crisi non si è ( ancora) vista. La fecondità anziché diminuire dopo la lunga congiuntura negativa e poi risalire, sembra essersi solo riposizionata su livelli più bassi. Evidentemente non appare solido il miglioramento delle condizioni economiche dei giovani e delle famiglie, o non ancorato a politiche credibili di sviluppo in grado di rilanciare la fiducia del paese verso il futuro. Ecco allora che le nascite del 2018 risultano ridotte del 22 per cento rispetto al dato del 2008.
Oltre ad aver reso deboli le entrate abbiamo nel contempo rafforzato le uscite. Il quadro di incertezza non solo tiene bassa la fecondità ma incentiva anche la scelta di cercare migliori opportunità altrove. Le emigrazioni nel 2018 sono salite a 160mila. Fatto che contribuisce ulteriormente a far diminuire la popolazione e aumentare il peso della componente anziana. Più che il declino della popolazione preoccupa la struttura sempre più indebolita sul versante delle nuove generazioni, sia per i vincoli che pone allo sviluppo economico e alla sostenibilità sociale, sia perché denatalità ed espatri sono spie sensibili delle difficoltà a costruire un futuro solido per sé e per chi verrà dopo. Se rinunciamo a questo rimane solo la rassegnazione e l’assuefazione a questi e a peggiori dati.

il manifesto 8.2.19
L'ex diplomatico Sergio Romano: «Mai uno scontro così grave dai tempi del fascismo»
Crisi Italia-Francia. Intervista all'ex diplomatico, autore di saggi e pamphlet che spiega: "Con Parigi una storia di screzi fin dai tempi della Disfida di Barletta. Di recente si erano però sempre ricomposti per il comune spirito europeista. Con la posizione assunta dal governo Roma ora è impossibile"
di Guido Caldiron

Ambasciatore Romano, dopo l’endorsement di Di Maio ai gilet gialli Parigi ha richiamato l’ambasciatore e definito quelli italiani come «attacchi senza precedenti»: non le sembrano toni eccessivi?
Al contrario, ritengo che ciò che hanno fatto gli esponenti dei 5Stelle sia davvero grave. Se il rappresentante di un governo, che ricopre tra l’altro una carica molto importante come quella di vicepresidente del Consiglio, considera i leader di un movimento straniero – talvolta definito come semi-insurrezionale e le cui azioni sono state accompagnate spesso da tale violenza da imbarazzare anche alcuni dei suoi stessi animatori – come propri interlocutori è inevitabile che i rappresentanti delle istituzioni di quel paese si arrabbino. E anche molto. Inoltre, si deve ricordare come tutto ciò accada dopo una lunga serie di screzi che intercorrono tra i due governi.
Ma non si tratta certo della prima controversia che oppone i due paesi…
Certo, ma ora le cose sono diverse. Le faccio un esempio estremo per farle capire come vedo le cose: quando Mitterand dette asilo agli italiani che il nostro paese considerava terroristi noi ci arrabbiamo parecchio, ma tutto sommato quello poteva apparire come un gesto umanitario, seppure con evidenti risvolti politici. Ora, invece, parlare con un rappresentante dei gilet gialli, alla luce di quanto sta accadendo in Francia, è una vera e propria provocazione. E alle provocazioni si reagisce. Ciò detto, la formula utilizzata, il ritiro dell’ambasciatore per consultazioni, non significa certo la rottura delle relazioni diplomatiche ma serve ad evidenziare il grado di malumore che si respira a Parigi.
La sua carriera diplomatica è passata anche per la Francia e qualche anno fa dedicò un volume – «Un’amicizia difficile» (Ponte alle Grazie, 2001), firmato con l’ex ambasciatore in Italia, Gilles Martinet -, proprio alle complesse relazioni italo-francesi. Questa querelle ha un lungo retroterra storico?
Senza dubbio. Se dovessi compilare una lista aneddotica degli scontri tra Italia e Francia degli ultimi decenni, per non dire degli ultimi secoli, avrei diverse pagine da riempire. Perché paradossalmente questi due paesi che hanno lavorato insieme per la costruzione dell’Europa, hanno un cospicuo passato fatto di bisticci e dispetti reciproci: dai tempi della Disfida di Barletta, passando per i Medici e i Savoia, fino a Berlusconi e Sarkozy. Eppure scontri della gravità di quello cui assistiamo oggi non credo abbiano precedenti, se non durante il regime fascista, quando – il 10 giugno del 1940 – l’Italia dichiarò guerra ad una Francia stremata. Quella che i francesi definirono, e non a torto, come «una pugnalata alla schiena» da parte del nostro paese.
Ma, sul piano storico, a cosa si è dovuta questa costante difficoltà?
È davvero una vecchia storia nella quale si intrecciano interessi e mire reciproche. Da qualcosa però si può partire. Nella formazione del loro Stato nazionale, gli italiani hanno potuto godere di un aiuto determinante da parte di Napoleone III che però non riteneva che quello sforzo dovesse legittimare il desiderio di fare di Roma la capitale del paese. Questo perché nell’ottica dei francesi la Città eterna, di epoca papalina, era intangibile politicamente e, soprattutto, doveva continuare a godere di una relazione speciale con Parigi che se ne considerava la protettrice naturale. Da allora, di vicende contraddittorie se ne sono accumulate altre, anche se alla fine si è arrivati ad un cammino comune in chiave europea.
Non crede che quanto accade ora vada però letto anche nella prospettiva delle elezioni europee: i gialloverdi cercano lo scontro con Macron che è l’ultimo leader europeista in sella, visto che Merkel ha già annunciato il ritiro, mentre l’Eliseo si è posizionato su una linea anti-sovranista, quella incarnata da Roma. Le due parti appaiono così come «il nemico ideale» l’una dell’altra.
In parte è sicuramente questo il quadro all’interno del quale va inserito quanto è accaduto. Ma non si deve dimenticare anche l’altro elemento di novità rispetto alla lunga serie di querelle che abbiamo ricordato fin qui. Vale a dire che avvenivano all’interno di «uno spazio» alla cui creazione avevano contribuito sia l’Italia che la Francia: la casa comune europea. Ora, invece, il governo italiano non solo non è interessato a questo progetto comune, ma lo presenta come «una sventura» o «una minaccia». Perciò ritengo che la situazione sia grave. I 5Stelle sostenendo i gilet gialli hanno voluto creare un «casus belli» all’interno della Ue senza curarsi e anzi investendo sulle possibili conseguenze della loro azione. Un tempo ci si sarebbe riconciliati alla luce della comune prospettiva europea. Ma non è quello che vuole l’attuale governo italiano.

Corriere 8.2.19
Nello scontro con Parigi l’Italia ha più da perdere
di Massimo Nava


In diplomazia, il richiamo del proprio ambasciatore è un forte segnale di tensione, di disagio per un torto subito, di incomprensioni. Di solito, non succede fra Paesi con una lunga tradizione di amicizia e cooperazione nei campi più diversi. Di solito, bastano una telefonata fra ministri o un gesto distensivo da una parte o dall’altra, a prescindere dai torti reciproci. Se addirittura occorre risalire al tempo di guerra per avvertire un simile livello di scontro, significa che la corda, tirata troppo a lungo negli ultimi mesi, si è davvero spezzata. Si dice che a volte le parole sono pietre. In politica (e in campagna elettorale) sono pietre pesanti, perché fanno danni proprio in quegli ambiti in cui andrebbero « maneggiate » con cura e attenzione, a cominciare dalla comunità degli affari e dalle relazioni industriali, pubbliche e private, per non parlare della sensibilità collettiva, fragile e suscettibile quando si agitano le bandiere della rivalsa e del patriottismo da bar.
Come si è arrivati a questo punto è facilmente sotto gli occhi di tutti, dato che le opinioni pubbliche francese e italiana assistono da mesi a uno stillicidio di dispetti, giudizi malevoli, incursioni a gamba tesa nella politica altrui. Sul conto francese vanno messe le rudezze della polizia alla frontiera di Ventimiglia, le ambiguità sul dossier Libia, i calcoli nazionali di convenienza sul dossier Fincantieri, la scarsa disponibilità sul fronte migrazioni, il giudizio sprezzante del presidente Macron a proposito di nazionalismi e populismi paragonati alla «lebbra» o quell’aggettivo «vomitevole» pronunciato a suo tempo da un portavoce di En Marche a proposito della politica dei respingimenti del nostro ministro degli interni.
Sul conto italiano vanno messe le incursioni del governo in carica a sostegno dei gilet gialli (che sono cosa diversa da gemellaggi fra partiti e leader), il voltafaccia sulla Tav, le affermazioni strumentali sulla « Francia coloniale » (con astruse teorie sul ruolo politico della moneta Cfa), l’imbarazzante cattivo gusto di molte battute nei confronti del presidente della Repubblica e infine un atteggiamento tendente a considerare la Francia un avversario scomodo (e non un prezioso alleato) nelle complesse negoziazioni in sede europea.
Più difficile comprendere come ricucire in fretta i rapporti, anche se la nota francese sembra volere medicare subito lo strappo «per ritrovare una relazione di amicizia e rispetto reciproco all’altezza della nostra storia e del nostro destino comune». Basterebbe aggiungere «all’altezza dei nostri interessi comuni» per rendersi conto di quanto sia assurdo mettere a rischio la vastissima rete di rapporti economici, culturali, militari e umani a colpi di malintesi e insinuazioni.
Confronto
Le opinioni pubbliche assistono da mesi
a incursioni a gamba tesa nella politica altrui
Alla nota francese ha fatto subito eco la dichiarazione distensiva di Luigi di Maio, fedele al metodo collaudato di confondere la rete con battute uguali e contrarie. Ma fra freni e acceleratori è evidente un pericoloso e isterico gioco delle parti a fini elettorali. Ciò che dovrebbe essere materia di satira o scherno benevolo fra vecchi amici, diventa rivalsa, sospetto, casus belli. Il
governo gialloverde ha bisogno di nemici esterni e capri espiatori per galvanizzare un elettorato disorientato dalle risse interne e deluso dai risultati. Il presidente Macron, in calo nei sondaggi e sotto scacco da dodici settimane per le proteste dei gilet gialli teme il contagio elettorale e attacca il bersaglio più pericoloso, il Paese in cui il populismo ha vinto e governa.
E’ vero che motivi di attrito non sono mancati né ieri, né oggi, con i diversi governi e nelle diverse stagioni. Basti ricordare i sorrisetti sprezzanti di Sarkozy all’indirizzo di Berlusconi o l’incomprensibile protezione «culturale» e giudiziaria accordata all’ex terrorista Battisti, anche se il nostro ministro degli interni dovrebbe sapere quanto siano complesse da caso a caso le procedure di estradizione degli altri ex terroristi che vivono in Francia. Cosi come occorre ricordare che la Francia ha spesso inteso a senso unico la cooperazione industriale, alzando barriere ogni volta che è stato possibile e favorendo invece incursioni finanziarie piuttosto spregiudicate. Basti citare un nome su tutti, Vincent Bolloré.
È tuttavia soprattutto vero che l’Italia ha molto più da perdere dallo scontro, cacciandosi in una posizione di orgoglioso isolamento, proprio nel momento in cui è sempre più stretto il rapporto fra Berlino e Parigi. Ogni governo ha il diritto di portare avanti la propria visione politica. Altra cosa è farlo con battute offensive o dando aperto sostegno a gruppi di dimostranti, senza calcolare che dispetti e battute possono tornare al mittente. Con gli interessi. Il che, prima di essere un peccato di orgoglio, è un errore strategico.

Il Fatto 8.2.19
“Anche i Gilet gialli possono far parte di The Movement”
Mischaël Modrikamen, il braccio destro dell’ideologo populista Bannon e
di Andrea Valdambrini


Èl’uomo di Bannon in Europa, “direttore esecutivo”, precisa lui, di The Movement, la “cosa” sovranista che nasce dall’incontro tra populisti del Vecchio continente e l’esperienza politica dell’ex stratega di Donald Trump.
Mischaël Modrikamen, 52 anni, avvocato, non piace a tutti così come il suo movimento. L’alleanza euroscettica di cui fanno parte sia il partito di Le Pen che quello di Salvini, ha preso apertamente le distanze, forse temendo un’invasione di campo.
Il legale belga però va avanti. Ha appena incassato l’adesione del figlio del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, e prepara il primo meeting di leader sovranisti e populisti per il mese di marzo (“ma non posso ancora rivelare ancora chi ci sarà”). Con il pensiero rivolto alle elezioni europee di maggio e un possibile exploit delle forze euroscettiche.
Mettere insieme i sovranisti, che per definizione vogliono meno Europa e più potere agli Stati: non le sembra una grande contraddizione?
Ma i problemi che abbiamo sono gli stessi. Partiamo da un dato: tutti noi sovranisti e populisti siamo i rappresentanti dell’uomo della strada. Al tempo stesso siamo tutti sotto attacco. Abbiamo non solo l’opposizione di tutti media mainstream ma anche della giustizia e dell’Amministrazione degli Stati che ci mettono continuamente i bastoni tra le ruote. Come i nostri avversari sono uniti globalmente, chiedendo l’istituzione di un governo mondiale, e predicano le frontiere aperte, così noi dobbiamo essere uniti da un’agenda opposta a quella dei progressisti.
Come definirebbe The Movement?
Il primo club di leader populisti a livello non solo europeo ma mondiale. Mi piace chiamarlo un’internazionale dei popoli. Riunisce tutti quelli che concordano su una serie di valori: più sovranità per gli Stati, rispetto delle frontiere, contrasto all’immigrazione eccessiva e opposizione all’Islam radicale.
Quindi non è un partito. Ma a livello operativo, come agisce The Movement?
Ci opponiamo alla visione globalista che ha prodotto le istituzioni internazionali, dall’Onu all’Unione europea. Noi sovranisti siamo finora dispersi nei nostri Paesi. Invece bisogna sostenersi a vicenda. Lo possiamo fare attraverso delle assemblee strategiche, o su temi sociali.
I soci di questo club da lei diretto hanno in programma la distruzione dell’Unione europea?
Vogliamo un’Europa radicalmente diversa, che abbia competenze limitate e che sia realmente democratica. Attualmente l’Ue prende circa l’80% del potere, lasciando solo il 20% alle nazioni. Questo rapporto si dovrebbe invertire, con il 20% a Bruxelles, restituendo così la sovranità alle nazioni europee. L’Europa potrebbe magari mantenere competenza sulla sicurezza esterna e le frontiere. Sono sicuro che in un’Europa con un bilancio di poteri invertito come quello che ho descritto, un eventuale presidente eletto dal popolo sarebbe sovranista: l’Europa è matura per il suo Trump.
Lei conosce Matteo Salvini?
Con Steve Bannon lo abbiamo incontrato a Roma lo scorso autunno e spero che sarà al nostro summit di marzo. Ammiro molto Salvini: è la dimostrazione che il populismo può essere anche d’azione e può fare molto contro l’immigrazione irregolare.
Che idea si è fatto del M5S?
So che in Italia state sperimentando l’unione tra populismo di destra e di sinistra, anche se il M5S non viene da una cultura tradizionale della sinistra, contrariamente a Mélenchon in Francia, ad esempio.
Saprà anche che gli esponenti pentastellati hanno avuto un incontro con uno dei leader dei Gilet gialli. Come giudica la rivolta in corso in Francia contro il presidente Macron?
Ogni Paese ha la sua espressione specifica del populismo, e i Gilet sono quello che i Tea Party sono stati per il Partito Repubblicano negli Usa. Se volessero aderire a The Movement, perché no? L’unico problema è che la cosa mi sembra difficile perché si tratta di un movimento non organizzato e privo di un leader che li rappresenti.

Corriere 8.2.19
Il corsivo del giorno
Il cibo inglese, Orwell e le scuse di Londra, meglio tardi che mai?
di Matteo Persivale


Quando è giusto - e sensato - chiedere scusa? Sempre e comunque, senza data di scadenza? Anche quando chi ha subito il torto non c’è più, da quasi 70 anni?
Tra le innumerevoli cose giuste fatte, pensate, dette e scritte da George Orwell nei suoi 46 anni di vita c’è l’ammirazione sconfinata per PG Wodehouse, il papà del maggiordomo Jeeves e di Bertie Wooster. Quel meraviglioso umorista, così bravo a ridicolizzare il carattere nazionale degli inglesi, avrebbe sorriso leggendo ieri una delle notizie più bizzarre mai pubblicate su George Orwell. Le scuse del British Council nel febbraio 2019 a Orwell morto nel 1950 per un articolo non pubblicato nel 1946 appartengono più a una gag di Wodehouse che alla cronaca. Ecco i fatti: l’autore de La fattoria degli animali, nel 1946, prossimo alla diagnosi di tubercolosi che l’anno successivo l’avrebbe condannato a morte (arrivata il 21 gennaio 1950, camera 65 del University College Hospital), bisognoso di soldi, accettava lavori da freelance di vario genere. La fama globale, le traduzioni, le sue opere assegnate come libri di testo nelle scuole di tutto il mondo sarebbero arrivate fuori tempo massimo. Così aveva accettato di scrivere un articolo per il British Council su un tema al quale non verrebbe immediato accostare il cronista di Omaggio alla Catalogna: il food. Più precisamente, a Orwell era stata chiesta una difesa della bontà del cibo britannico rivolta a un pubblico internazionale.
La Gran Bretagna, devastata dal razionamento del tempo di guerra destinato a durare ancora per anni in tempo di pace, era comunque ansiosa di difendere le proprie specialità. Letto l’articolo di Orwell, al British Council di allora venne da osservare che la ricetta della marmellata d’arance era troppo dolce e liquida. Eppure Orwell, patriottico, aveva scritto che la cucina dei migliori ristoranti inglesi era pari a quella dei francesi: ma il manoscritto tornò al mittente, «poco saggio pubblicarlo per i lettori del continente». Ora le scuse. E la pubblicazione, sul sito del British Council, delle ricette orwelliane.

La Stampa 8.2.19
Anche Guaidó si appella al Papa in tv
Vaticano: non è una richiesta formale
di Domenico Agasso Jr


Nei Sacri Palazzi non basta un appello in tv per far partire una mediazione diplomatica. A maggior ragione in una situazione particolarmente delicata come quella di Caracas. Nella giornata di ieri c’è stato qualche momento di fibrillazione - e illusione - dopo che Guaidó a Sky Tg24 ha chiesto a «tutti quelli che possono aiutarci, come il Santo Padre», di «collaborare per la fine dell’usurpazione, per un governo di transizione, e a portare a elezioni veramente libere in Venezuela». Di più: il presidente ad interim ha pure invitato «il Papa nel nostro Paese, un Paese molto cattolico». Sembrava potesse essere la svolta, dopo la lettera di Maduro al Vaticano dei giorni scorsi annunciata dal presidente sempre a Sky Tg24, e 48 ore dopo che Francesco, sull’aereo che lo riportava a Roma da Abu Dhabi, aveva dichiarato che per un’azione diplomatica servirebbe innanzitutto la volontà di entrambe le controparti.
Ma in Segreteria di Stato le parole ai microfoni televisivi non valgono come richiesta formale. Non sono arrivate lettere, come quella di Nicolas Maduro, e, in più, Juan Guadió non pronuncia la richiesta decisiva: mediazione. Il suo è un appello generico. Dunque, il Vaticano resta sulla posizione espressa ieri dal portavoce del Papa, Alessandro Gisotti: «Il Santo Padre si riserva la possibilità di verificare la volontà di ambedue le parti, accertando se esistano le condizioni per percorrere questa via». Tradotto: il canale resta aperto, la disponibilità a valutare la possibilità di intervento c’è, ma ora lo scenario è ancora troppo «mobile», e sulle intenzioni delle due parti ci sono ancora troppi dubbi e perplessità. E l’unica richiesta considerata ufficiale resta quella di Maduro. Tutto ciò mentre la Chiesa locale venezuelana continua a essergli schierata contro.
La prudenza della Santa Sede sul Venezuela è accentuata anche da un precedente negativo: i colloqui a Santo Domingo tra governo e opposizione mediati dall’ex presidente spagnolo Zapatero. Allora la diplomazia vaticana si diede da fare prima con monsignor Emil Paul Tscherring e poi con monsignor Claudio Maria Celli. Ma fu un flop, come ha confermato il Papa sul volo per Roma: «È stato partorito un topino: niente, fumo».
In ogni caso, dalla Santa Sede tengono a ribadire che le priorità sono l’emergenza umanitaria del Paese e una risoluzione pacifica: tutto ciò che potrà fare in questo senso - assicurano - sarà fatto. E se il Vaticano scenderà in campo, due potranno essere i registi della partita: il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e il sostituto per gli Affari generali Edgar Pena Parra. Il primo è stato nunzio in Venezuela. Il secondo è venezuelano.
Intanto, in Italia, Rodrigo Diamanti, uno degli esponenti della delegazione mandata da Guaidó per incontrare le istituzioni italiane, sostiene che «essere neutrali significa accettare la nostra costituzione», e cioè il fatto che a fronte di «un vuoto di potere il capo del parlamento deve assumere la presidenza per portare il Paese a elezioni trasparenti». Ed è questa la posizione di Conte e Di Maio: ««L’Italia deve essere neutrale - ha detto Di Maio - . Dobbiamo semplicemente favorire il dialogo, non vogliamo creare un’altra Libia».

il manifesto 8.2.19
Guerra di Spagna, una lunga resistenza in otto canzoni
1936-39. Storia di straordinaria solidarietà internazionalista da raccontare all’Europa di oggi. Attraverso i suoni, le parole e le immagini
La volontaria francese Marina Ginestà (1919-2014) in Spagna, all’età di 17
di Rudi Assuntino


La guerra di Spagna (1936-1939) fu la prova generale del secondo conflitto mondiale e anticipazione di tragedie di sconvolgente attualità. Imperialismo, fascismo, inerzia delle potenze europee favorirono la sperimentazione di tecniche belliche disumane (come i bombardamenti aerei sui civili). La lotta di resistenza all’aggressione franchista fu anche però straordinaria occasione di solidarietà internazionale: almeno 50mila i volontari accorsi da 53 Paesi a sostegno della Repubblica. Quasi 5mila gli italiani.
Proprio in difesa di quel patrimonio, dei valori più alti che l’umanità seppe esprimere, l’Associazione italiana dei combattenti volontari antifascisti di Spagna (Aicvas), a chiusura delle celebrazioni dell’80mo anniversario di quegli eventi ha prodotto tra l’altroLa lunga Resistenza, un documentario disponibile sul web, della durata di oltre 3 ore e mezza, di Italo Poma e per la regia di Luciano D’Onofrio, che racconta l’epopea degli antifascisti italiani con materiali di repertorio, interviste ai protagonisti quand’erano in vita e contributi scientifici di storici italiani, francesi e spagnoli.
Poi c’è la musica. Per chi si è affacciato alla canzone politica agli inizi degli anni Sessanta le canzoni della guerra di Spagna, 1936-1939, sono state un testo fondamentale. E lo sono ancora, per raccontare quella guerra che è stata anche nostra. Proviamo a farlo in otto canzoni.
1. EL QUINTO REGIMIENTO: 18 luglio 1936, all’indomani delll’insurrezione di Franco, il Partito comunista spagnolo fonda il V° Reggimento. Lo guida l’italiano Vittorio Vidali. Il tema musicale è popolare, lo ha raccolto, armonizzato e registrato Federico Garcia Lorca. Da qui nasce la ballata di Ivan Della Mea La Ringhera.
2. LOS CUATRO GENERALES: i 4 generali che guidano la rivolta marciano a novembre su Madrid che resiste anche grazie alle Brigate internazionali. Quanto al tema musicale, come sopra.
3. DIE THAELMANN KOLONNE: i volontari tedeschi, circa 5.000, subiscono terribili perdite durante la sua difesa. La musica è composta del famoso musicista tedesco Paul Dessau.
4. YARAMA VALLEY: i volontari americani, circa 3.200, raccolti nel Battaglione Lincoln hanno il battesimo del fuoco nel febbraio 1937 nella battaglia omonima presso Madrid. 1.500 di loro lasceranno la vita in Spagna. La musica è quella di The Red River Valley.
5. EL EJERCITO DEL EBRO/Viva la Quinze Brigada: nel 1938 le forze della Repubblica costretta alla difensiva su molti fronti dalle soverchianti forze militari degli insorti dai corpi di spedizione nazifascisti, sferrano il 25 luglio 1938 una potente controffensiva sul fiume Ebro che bloccherà per mesi la sorte della guerra. Sull’aria di un canto popolare.
6. A LAS BARRICADAS: quello anarchico è uno dei principali campi ideologici della Repubblica. La musica è quella della Warszawianka, inno dell’insurrezione antizarista del 1905. In rete ne circola una toccante versione, ricca di filmati, dei curdi siriani della Rojava.
7. EINHEITSFRONT (Canzone del Fronte Unito): inno comunista scritto da Bertolt Brecht musicato da Hanns Eisler, versioni in molte lingue. Quella francese è firmata dal premio Nobel per la Letteratura 1915 Romain Rolland.
8. CANCION DE BOURG-MADAME: alla vigilia della Conferenza di Monaco, il 21 settembre 1938 il nuovo presidente Juan Negrin, ordina il ritiro delle Brigate Internazionali. Questo è il loro saluto nel febbraio del 1939. Sull’aria dell’inno bolscevico Konarmejskaja (L’armata a cavallo), quella dei racconti di Isaac Babel’, musica dei fratelli Pokrass.
Se poi si vuole viaggiare su quella macchina del tempo che a volte è Internet, si può cercare Canciones de las brigadas internacionales, il canzoniere delle Brigate Internazionali, pubblicato a cura di Ernst Busch, a Barcellona, giugno 1938, 5° edizione, introduzione del poeta Rafael Alberti. In 88 canzoni, un quadro emozionante di un’epoca in cui lo scontro tra chi cantava Figli dell’officina e chi cantava La guardia rossa non si faceva solo con le canzoni.
Oltre che dalla voce dei reduci, come arrivano questi canti in Italia? Nel 1961 la Folkways pubblica un’antologia con sei canzoni del Battaglione Lincoln cantate, tra gli altri, da Pete Seeger e Woody Guthrie e sei canzoni «per la democrazia» cantate da Ernst Busch, grande figura delle Brigate Internazionali e in seguito attore brechtiano. Uscirà più tardi un’antologia analoga per la casa discografica Italia Canta a cura di Sergio Liberovici e Michele Straniero, dello storico gruppo torinese Cantacronache. A loro si deve anche una raccolta clandestina uscita in Spagna di canti anti franchisti, pubblicata da Einaudi con il titolo Canti della Nuova Resistenza Spagnola 1939/1961, che procurerà ad autori ed editore grossi guai giudiziari. E grazie alla raccolta della Albatros, Cancion de Bourg-Madame, vengono diffuse in Italia le composizioni del cantautore spagnolo Chicho Sanchez Ferlosio, indicato come Anonimo spagnolo, tra le quali Julian Grimau Hermano, Gallo rojo gallo negro, La Hierba De Los Caminos, La Paloma De La Paz, Cancion Del Soldado e altre.
Luis Llach in concerto nel 1976 al Palazzo dello Sport di Barcellona
La canzone che più di altre rappresenta la fine del franchismo è sicuramente L’Estaca del grande cantautore catalano Lluis Llach, eseguita in uno storico concerto a Barcellona nel gennaio del 1976. L’ho ascoltato nell’estate di quell’anno a Barcellona in un concerto tenuto nello spazio della cavea accanto alla locale università, vibrante di migliaia di bandiere catalane. Sul palco, a poca di distanza da lui, c’era il Censore: vigilava sulla conformità del testo cantato con quello approvato dalle autorità. Un paio di giorni dopo seguivo, per un nuovo concerto, Llach e i suoi musicisti lungo il sentiero di un paesino di montagna, e tutti quanti seguivamo il suo pianoforte a coda portato a spalla.
Un’altra storia di censura: nel 1970 Pete Seeger viene invitato a cantare in Spagna con l’espresso divieto di cantare le canzoni della guerra: non le canterà ma le eseguirà a banjo intonate da decine di migliaia di persone che non le hanno mai dimenticate.
La quasi totalità di queste canzoni, più molte altre, si possono ascoltare su un doppio cd antologico intitolato Spagna ’36 – Un sogno che resiste, prodotto dall’Istituto Ernesto de Martino, dagli Archivi della Resistenza e dall’Aicvas, che contiene 28 brani ripresi da alcuni dei protagonisti degli ultimi 50 anni del folk revival e della canzone politica italiana, da Ivan della Mea a Giovanna Marini. E sul cd Al pueblo y a la flor, interpretato da La Desbandá. Oggi 8 febbraio, alle ore 17 presso la Casa della Memoria e della Storia di Roma (via s. Francesco di Sales, 5), verranno presentati nel corso di un racconto emozionale delle pagine più significative della lotta anti franchista, così come viene suggerito dalla ricca letteratura poetico musicale nata intorno a quegli eventi. Nella stessa occasione verrà presentato il web documentario La lunga resistenza 1936-1945. Alcune delle canzoni raccolte nei cd verranno eseguite dal vivo. L’incontro è promosso dal Circolo Gianni Bosio, dall’Anpi di Roma, dall’istituto Ernesto De Martino e dall’Associazione italiana combattenti volontari antifascisti di Spagna (Aicvas).
Il 29, 30 e 31 marzo inoltre avrà luogo anche quest’anno la Festa della Lega di Cultura di Piadena (Cr). L’ultimo giorno, a Pontirolo nella cascina di Miciu Azzali, numerosi gruppi musicali italiani ed europei faranno rivivere questi canti per la nuova Europa che ci piace.

La Stampa 8.2.19
La garibaldina dimenticata
Rosalia sedotta e abbandonata da Crispi
di Mirella Serri


La giovane donna con una gran massa di capelli neri, connotata da una silhouette piuttosto vistosa, si infilò proditoriamente nella stanza delle riunioni della secentesca Villa Spinola di Quarto dove era insediato il quartier generale di Giuseppe Garibaldi. La 38enne Rose Montmasson riuscì a restare a tu per tu con il condottiero e ottenne il permesso di imbarcarsi sul piroscafo «Piemonte». Fu così l’unica esponente del gentil sesso che viaggiò verso la Sicilia insieme ai volontari della celebre spedizione dei Mille.
Abbigliata con una camiciona rosso fuoco e larghi pantaloni, sbarcò a Marsala, curò i feriti e imbracciò il fucile nella battaglia di Calatafimi. Venne ribattezzata «L’Angelo dei Mille», come recita il sottotitolo della biografia che le dedica lo studioso Marco Ferrari (in uscita da Mondadori). Questa documentata storia della partecipazione di Rose all’impresa dell’Eroe dei due mondi rende finalmente giustizia a Rosalia, come fu chiamata in Sicilia. Il suo ruolo nelle lotte risorgimentali è sempre stato ignorato o sottovalutato: moglie di Francesco Crispi, ideatore della spedizione dei Mille, quattro volte presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e ministro dell’Interno dopo l’Unità, la Montmasson, rischiando l’arresto e pesanti condanne, ebbe incarichi di gran rilievo nella cospirazione anti-borbonica.
Come mai, dunque, il suo contributo alla storica avventura è stato dimenticato? Rose/Rosalia era nata in Alta Savoia in una modesta famiglia di agricoltori. Bella, ironica, priva di cultura e dalla battuta pronta, si era trasferita a Marsiglia dove faceva la lavandaia, la ricamatrice e la stiratrice. Nella città portuale perse la testa per l’esule, che aveva cinque anni meno di lei, in fuga dal Regno delle due Sicilie. Il futuro statista, che attivò importanti riforme sociali (abolì la pena di morte e la libertà di sciopero tramite il codice Zanardelli) e si distinse anche per l’estrema violenza contro agli anarchici e i socialisti, faticava a sbarcare il lunario.
Grazie alla sua donna che sgobbava tutto il giorno si dedicò a tempo pieno all’attività politica e sovversiva. Nel 1855, dopo essere convolata a nozze con Ciccio, soprannome di Francesco, Rosalia s’impegnò direttamente nella lotta: fu destinata da Giuseppe Mazzini, di cui Crispi a Londra era il collaboratore più fidato, a missioni di grande responsabilità. Travestita da popolana in un grosso cesto portava notizie e quattrini agli affiliati alla carboneria in Francia. Nel marzo 1860, raggiunse Messina a bordo di un vapore postale e informò i patrioti siciliani dell’imminente sbarco di Rosolino Pilo e Giovanni Corrao. Proseguì per Malta per avvertire i rifugiati italiani della spedizione e, sempre con il postale, tornò a Genova e si unì ai Mille. Garibaldi a Napoli, di fronte a una gran folla, le andò incontro esclamando: «È la sola donna che fosse allora nell’armata e in mezzo al fuoco, e sul campo di battaglia».
Come mai la sua notorietà andò progressivamente declinando? All’insaputa di Rosalia, Crispi aveva sempre coltivato un’intensa vita sentimentale. A 20 anni era già sposato ma perse la moglie e i due figli piccoli. Dopo pochissimo tempo intrecciò una relazione con Felicita Vella dalla quale nacque Tommaso. Quando Felicita, appena arrivata dalla lontana Sicilia, bussò all’abitazione di via Vanchiglia a Torino, le due signore vennero alle mani, arrivò la polizia da Borgo Po e la situazione divenne di pubblico dominio. Rosalia, che ignorava il passato del compagno, fu choccata da quell’apparizione. Crispi, con metodi poco urbani, cercò di far espellere dal Piemonte la sua ex partner. Dopo la nascita del Regno d’Italia, Ciccio, obtorto collo, mise a parte la moglie di un altro segreto: aveva messo incinta Luisa Del Testa, suo flirt occasionale. Quest’ultima minacciava di sollevare uno scandalo se non avesse riconosciuto il neonato. E non basta. Il ministro si era invaghito di Lina Barbagallo più giovane di lui di 20 anni e di nobile famiglia leccese.
Rosalia cominciò a bere e a riempire la casa di animali. Desideroso di un nuovo matrimonio con Lina, Crispi dichiarò che le nozze con Rosalia celebrate a Malta non erano valide. Il potente politico, prima mazziniano e poi monarchico, sottovalutò i suoi avversari che soffiarono sul fuoco dello scandalo. Il giornale Il piccolo portò alla luce la vicenda del «ministro bigamo». Scoppiò un caso clamoroso che divise l’Italia. Rosalia che, dopo essersi separata, viveva da sola con un numero incredibile di gatti, si rifiutò di parlare e di commentare con i giornalisti. I giudici su pressione del marito fedifrago accertarono l’irregolarità delle nozze (la sentenza successivamente risultò infondata e il matrimonio considerato valido). La carriera politica di Crispi ebbe un momento di stallo e lui fece di tutto per affossare e infangare l’immagine di Rosalia.
Come scrisse Arturo Carlo Jemolo, Crispi si rivelò «un uomo di potere sdegnoso della legge». Non tutti dimenticarono però le tribolazioni della povera Rosalia. La regina Margherita di Savoia, che aveva conosciuto e apprezzato Rosalia, chiese di avere in visione la copia dell’atto di nozze. E quando il ministro le si avvicinò si rifiutò pubblicamente di stringergli la mano. La testa coronata si mostrò sensibile e accorta e aiutò l’ex lavandaia a ristabilire la verità: non poté però fare di più per l’eroina dimenticata del Risorgimento.

Repubblica 8.2.19
Storia di Stella, ebrea delatrice al servizio della Gestapo
Il romanzo di Takis Würger, oggetto di feroci stroncature in Germania
di Tonia Mastrobuoni


BERLINO Marcel Reich-Ranicki riteneva che ogni stroncatura, anche la peggiore, fosse sempre un regalo, «una difesa aggressiva» della letteratura. E la foga con la quale le maggiori firme delle pagine culturali tedesche si sono scagliate in queste settimane contro
Stella (Feltrinelli), il secondo romanzo del giornalista dello
Spiegel Takis Würger, ricorda effettivamente i tempi del temutissimo re della critica letteraria tedesca — Reich-Ranicki era noto per le sue poderose stroncature. E tipicamente, oggi come allora, il romanzo più bocciato dalla critica sta scalando tutte le classifiche dei libri più venduti.
Erano anni che non si vedeva un tale fuoco di sbarramento contro un romanzo: la Sueddeutsche Zeitung ha definito Stella «il simbolo di un’editoria che ha ormai perso ogni bussola estetica ed etica», persino «un affronto, un’offesa o forse un crimine». Il settimanale Zeit l’ha bollato come «un orrore scritto nello stile dei libri per bambini»; per il Deutschlandfunk il romanzo è puro Holokaustkitsch — un’espressione che non ha bisogno di essere tradotta — ma anche «una lagna nazista». E la palma della perfidia (e dell’esagerazione) va senza dubbio alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, che ha definito l’autore un Relotius Reloaded, con riferimento al giornalista dello Spiegel, Claas Relotius, che ha falsificato decine di articoli.
Stella è dichiaratamente un romanzo, cosa c’entri Würger con un suo ex collega dello Spiegel messo all’indice per aver preso in giro i lettori con storie completamente inventate e spacciate per inchieste giornalistiche, è un mistero. Anche se un corto circuito c’è, in Stella. E non si capisce se per superficialità o per un calcolo mostruosamente cinico.
Il romanzo di Würger racconta la storia di Federico, un artista svizzero che si trasferisce a Berlino per sfuggire alla madre alcolista e fanatica di Hitler e si innamora di Kristin, una ragazza misteriosa che lo trascina nella selvaggia e torbida Berlino dell’inizio degli anni ’40. Fin qui il racconto di Würger: non esaltante e caratterizzato da figure piuttosto bidimensionali come l’amico Ss dalle tendenze sadiche Tristan von Appen. Un libro che probabilmente non avrebbe ottenuto l’enorme — e meritato — successo del suo primo romanzo, Der Club, se non avesse usato un espediente che molti critici, non a torto, considerano spregiudicato. Ad un certo punto il protagonista si rende conto che Kristin, la protagonista dell’intreccio amoroso, altri non è che Stella, una ragazza ebrea che denuncia altri ebrei alla Gestapo. Il problema è che Stella è una figura realmente esistita.
Stella Goldschlag fu catturata dalla Gestapo nel 1943, a 21 anni. Per salvare i genitori e il marito dalla deportazione nei campi, cominciò a collaborare con la polizia segreta denunciando, persino arrestando — la Gestapo le aveva fornito una pistola — tra 600 e 3000 ebrei berlinesi.
Essendo stata clandestina prima della cattura, ne conosceva i nascondigli e i luoghi di ritrovo, appariva persino ai funerali per stanarli, più spesso prometteva di aiutarli per poi consegnarli ai nazisti. Non riuscì a salvare la sua famiglia dalla deportazione, eppure continuò a fare la delatrice fino alla Liberazione. Dopo la guerra fu condannata a dieci anni di carcere per collaborazionismo. La figlia, nata nel ‘45, non volle mai più rivederla dopo averne saputo la vera storia ed emigrò in Israele. Lei si sposò cinque volte, si convertì al cattolicesimo ma nel 1994 si tolse la vita gettandosi dalla finestra. Aveva 72 anni.
Trattare una figura così controversa è spaventosamente difficile, usarla come figura di richiamo per un romanzo d’amore ambientato in tempi di guerra, è un’operazione effettivamente discutibile. E non perché, come insinua qualcuno, Würger è nato nel 1985 e non può capire. Molti autori nati dopo la guerra hanno scritto o filmato capolavori sul nazismo. È che non basta innamorarsi con sicuro istinto giornalistico di una storia grandiosa perché diventi un buon romanzo.

Il Fatto 8.2.19
Giorgio Colli
La filosofia stana tutte le apparenze
di Pietrangelo Buttafuoco


La totalità si esprime nell’immediatezza. Nulla che possa essere già conosciuto può farsi ri-conoscere e solo l’espressione, dunque – l’istante nell’immediato, la freccia che scocca dall’arco di un dio – avvia il fondamento della sapienza. L’immediatezza è nell’espressione, è l’oralità pre-alfabetica della misteriosa origine del logos ed è l’insegnamento di Giorgio Colli (Torino, 16 gennaio 1917, San Domenico di Fiesole, 6 gennaio 1979). Filosofo, traduttore dell’Organon di Aristotele e della Critica della Ragion Pura di Immanuel Kant, nonché – consegnandosi alla memoria del mondo intero – curatore con l’allievo Mazzino Montinari dell’edizione critica delle Opere di Friedrich Nietzsche, Colli torna oggi per tramite degli atti di un convegno (Trame nascoste) cui hanno preso parte i suoi autorevoli allievi e studiosi tra i quali Franco Volpi, Carlo Sini, Sossio Giametta e Ferruccio Masini.
Il nostro più grande patrimonio è la filosofia alla radice della quale c’è la stupefacente sapienza greca. La conoscenza, sempre rivolta al discorso – che è lo scorrere delle parole – è coincisa con la vecchia poesia cui Platone con l’invenzione del dialogo ha offerto la navicella per sopravvivere al naufragio (magnifico l’intervento di Sini) verso un mondo nuovo che non sa saziarsi, assoggettati a Socrate, il demoniaco, “colui che ragiona troppo, che pensa troppo, che parla troppo (sebbene sia capace, come si sa, di misteriosi silenzi)”. Giorgio Colli – un profondo conoscitore del mondo greco e, conseguentemente, di Nietzsche – dalla nettezza dell’autenticità rischiara l’oscurità che s’avvolge intorno al dominio delle apparenze e della fallace rappresentazione.
Una rigorosa autenticità teoretica – “il logos autentico non riconosce come suo oggetto l’agire” – che porta a negare qualunque predominio del politico sulla conoscenza che prescinde, come si legge nella relazione di Enrico Piergiacomi, “dall’utilità e cerca al suo posto qualcosa di più essenziale”. L’autore del Dopo Nietzsche fa propria la sentenza Physis kriptesthai philei, ovvero “la natura ama nascondersi” e da qui rinnova la propria fedeltà (lo annota Giuliano Campioni) a “una superiore sfera originaria cui si lega il sapiente per poi riportare la verità agli uomini”. La contemplazione gioiosa dell’esistenza, pur con tutto il suo dolore, è amministrata da Dioniso. Sofocle descrive il dio come il “custode del transito delle parole notturne” e lo sconfinare nella sacralità di soggetti puri, quali sono i filosofi, nell’elaborazione teoretica di Colli rimanda alla perfetta politicità degli oggetti puri, in un agone che “suscita e porta a pieno sviluppo quanto di meglio e di eccellente v’è nella natura dell’uomo”. Un volume prezioso e anche di elegante fattura è Trame nascoste. Due giornate di studi su Giorgio Colli a cento anni dalla nascita. Il libro, con Appunti filosofici 1947 e altri scritti dello stesso Colli, raccoglie l’esito di un convegno a cura di Clemente Tafuri e David Beronio tenuto a Genova il 13 e 14 aprile 2017 nell’ambito di Testimonianze ricerca azioni, un appuntamento del Teatro Akropolis e, siccome risalendo a Dioniso l’approdo è il teatro, una segnalazione a parte la merita, tra le relazioni, quella di Marco Martinelli, drammaturgo, regista e filologo.
Trame nascoste AA. VV.
Pagine: 726 Prezzo: 35 Editore: Akropolis Libri

Corriere 8.2.19
Il reportage di Zoro sulla Basilicata
di Maria Volpe


Diego Bianchi «Zoro» (foto) ospita il giurista Gustavo Zagrebelsky per parlare di politica italiana. Poi un reportage di Diego Bianchi in Basilicata: a Pomarico dove per il maltempo c’è stata una frana e sono state evacuate diverse persone, poi a Craco, chiamata città fantasma, evacuata negli anni 60. Da allora è vuota.
Propaganda Live La7, ore 21.15

Il Fatto 8.2.19
Il Festival sotto l’ipnosi di Salvini (e della noia)
Ospiti Venditti, Vanoni, Raf, Tozzi. E oggi arrivano i Gilet gialli
di Silvia Truzzi


Dopo lungo meditare riusciamo finalmente a dare un significato all’espressione “sovranismo psichico”, evocata dall’ultimo rapporto Censis sull’Italia, che a prima vista ci era sembrata un po’ una cazzata ma non avevamo ancora visto il Festival. Tre giorni sono passati e possiamo dirlo: questo Sanremo 69 è un caso di ipnosi collettiva. Si parla di Matteo Salvini da mane a sera, dalla conferenza stampa del mattino al palco della puntata: è lui che detta l’agenda (e la scaletta) sia che lo si voglia adulare, sia che lo si voglia criticare. L’effetto di questa epidemia è un po’ comico, e non solo nei casi di servitù volontaria (un grande classico dei corridoi Rai). Quel che resta della satira si concentra su di lui: il monologo di Bisio la prima sera, che incrociava i versi delle canzoni di Baglioni con la questione degli sbarchi, era così gentile e sfumato che nemmeno i fedelissimi sono riusciti a definirlo attacco. La seconda puntata Michelle Hunziker e il medesimo Bisio hanno cantato una vecchia canzone di Rocco Tanica, La Lega dell’amore (esibizione che ha scomodato persin l’Ufficio legale della Rai, perché i vertici di Rete non erano sicuri che fosse in regola con la par condicio delle elezioni in Abruzzo. Poveri noi). E ancora il numero di Pio e Amedeo con Baglioni per metà era dedicato al vicepremier: “Claudio, nel tuo spettacolo di qualche tempo fa come ti chiamavi? Colonnello? Maresciallo? No, eri capitano coraggioso, come quello là. Nello spot di Sanremo eri vestito da vigile, con la divisa. Strizzi l’occhio. Dilla tutta, che così il Festival l’anno prossimo lo facciamo al 100%. Prima chi?”. “Prima gli italiani”.
Nel punto stampa al Roof, l’ombra del vicepremier aleggia in metà delle risposte, nell’altra metà Salvini è citato in chiaro. Affermazioni che innescano reazioni a strascico, come quando Bisio gli ha fatto la dichiarazione d’amore: “Matteo è spiritoso, Matteo è molto carino”. Bisio era molto nervoso, al debutto, avvertiva “le pressioni”. “Non volevo pestare merde”, ha detto spiegando perché in puntata aveva chiesto al “mondo Rai di chiudere le polemiche”. Un clima di tensione (e questo è innegabile), accusa il dem Anzaldi. “Basta rileggere le numerose dichiarazioni del ministro dell’Interno nelle ultime settimane, condite di avvertimenti più o meno velati, per capire perché Bisio si sia autocensurato”. Ieri il comico, per la seconda volta, ha letto i tweet degli haters (stavolta senza citare i cognomi, per fortuna). Hanno scoperto che nell’Internet la gente si comporta male. E siccome Salvini mercoledì sera ha postato un’immagine che lo ritraeva davanti alla tv dove campeggiavano Pio e Amedeo (con il commento “evviva #Sanremo”), ieri il povero Baglioni ha dovuto rispondere a una domanda sulla fine delle ostilità. Tra lui e Salvini: “Da parte mia non c’è mai stata alcuna guerra. Sono felice che ci sia un telespettatore così illustre che guarda il Festival”. Ovviamente il vicepremier, che non è per niente narciso, ha preso tutte queste palle al balzo: “Ieri mattina mi sono svegliato a Siena, sono andato a Terni poi a Roma e dopo all’Aquila. Arrivo in camera a mezzanotte, accendo la tv proprio mentre a Sanremo stavano parlando di chi? Di Salvini. Tra l’altro sono stonato come una campana”. L’ultimo comizio, ieri a Pescara, l’ha chiuso sulle note di note di Questo piccolo grande amore, annunciando anche che fa il tifo per i ragazzi abruzzesi del Volo (un uomo che non teme il kitsch).
Il presidente della Rai Foa, in partenza per la Riviera, loda gli ascolti (anche per la seconda serata sono in linea con quelli 2018) e invita (probabilmente invano) a non caricare troppo il Festival di significati altri: “Sanremo non è una tribuna politica. Tendiamo a politicizzare tutto ma ci sono momenti in cui la gente vuole semplicemente ascoltare le canzoni e divertirsi”.
E mentre infuria la polemica con tanto di ritiro dell’ambasciatore tra Italia e Francia a causa dell’incontro di Luigi Di Maio con una delegazione di Gilet gialli, altri Gilet gialli sono attesi a Sanremo nel pomeriggio di oggi “per dimostrare che il contatto tra Di Maio con la lista di Ingrid Levavasseur non è rappresentativo del movimento”, spiega su Facebook Maxime Nicolle, uno dei leader. Forse però qui si continuerà a parlare di Salvini. Non temono la noia. O è solo assenza di autonomia intellettuale?

Il Fatto 8.2.19
Sette (buoni) motivi per dire che Sanremo è una ciofeca
In principio fu l’epurazione dei conduttori: Baglioni è un’ottima spalla, Bisio è diventato democristiano e la Raffaele, a furia di imitare Belen, vuole sembrare Belen
di Selvaggia Lucarelli


Con una discreta supercazzola l’ufficio stampa del Festival di Sanremo ci fa sapere che “la seconda puntata ha il dato più alto tra le seconde puntate dopo la seconda puntata del 2013”. E fa venire in mente subito quel “Ho l’orgoglio di lasciare un giornale che ha ritrovato un’identità, la discesa delle copie si è dimezzata: era al 14 ora è sotto il 7” di Mario Calabresi nell’annunciare l’addio a Repubblica. Tranquilli, ho perso meno copie degli altri. Se in politica conta il tema “sicurezza”, a Sanremo conta il tema “rassicurazioni”. Tranquilli, gli ascolti vanno quasi bene come nel 2013. Tranquilli, questo Festival è una ciofeca, ma non diamo fastidio a nessuno. Tranquilli c’è un conduttore di sinistra con un autore di sinistra ma gli facciamo fare le pernacchie. Tranquilli c’è una comica di razza ma le facciamo fare il musical e la vestiamo come un’erede alla corona inglese anziché come l’erede della Marchesini, ma va tutto bene. Gli ascolti sono buoni, che problema c’è? E invece i problemi in questo Festival sono infiniti.
1) Non si capisce perché quest’anno, alla conduzione, ci sia stata l’epurazione dei conduttori. Claudio Baglioni e Virginia Raffaele non sono conduttori. Claudio Bisio si è ritagliato una parentesi a Zelig, ma è un attore. Al Prima Festival i conduttori sono due attori, al Dopofestival i conduttori sono due attori e quindi già abbiamo Rocco Papaleo, Simone Montedoro, Anna Ferzetti e Anna Foglietta, manca solo Anna Pannocchia e siamo in un film di Maccio Capatonda, più tal Melissa Marchetto per la quale si scomoda la stessa domanda che si scomoda per l’insalata che appare sulla tavola della vigilia di Natale: ma quella lì chi ce l’ha messa? Chissà perché, in compenso, una Vanessa Incontrada se ne deve stare a casa o sempre in Rai, ma a fare l’attrice. Bah.
2) C’è un problema di ruoli. Claudio Baglioni è un’ottima spalla, si fa dare del vecchio rincoglionito (che non è) da chiunque salga sul palco con un’autoironia commovente. Ma come conduttore meglio entrare bendati a TeleNorba e indicare qualcuno a caso. Claudio Bisio, noto per avere un ego la cui capitale è tutta l’Asia Centrale, non trova un’identità. Troppo poco Carlo Conti per rassicurare, troppo democristiano per essere di rottura, troppo primadonna per mettersi al servizio della Raffaele. Insieme non funzionano al punto dopo due sere mi è presa una violenta nostalgia dei video di coppia Giachetti/Ascani per le primarie del Pd.
3) Virginia Raffaele, a furia di imitare Belen, ha desiderato essere Belen per cinque giorni della sua vita. Sia chiaro, a Virginia Raffaele perdoneremmo pure la tessera di Forza Nuova, ma la sensazione è che lei di Sanremo potesse farne a meno. Tra tutte le maschere che sa indossare, cambiare, deformare, quella della conduttrice è quella meno riuscita. Non è la top model sconosciuta di cui commentare trucco e parrucco, non è il personaggio nazionalpopolare di cui mia nonna si ricorda il nome perché l’ha vista sulla copertina di Dipiù. Forse voleva togliere cerone e maschere di silicone per essere riconosciuta finalmente al bar, ma quello è destino di tanti. Nascere comici di razza è destino di pochi. Lo capirà.
4) Il Dopofestival, senza conduttori, senza idee, senza critici tv che non siano a libro paga della De Filippi è diventato una rottura di coglioni siderale. Ed è un peccato perché era la costola felice e dissacrante del lungo cerimoniale che la precede. Era pop, ora è il circoletto (aiutatemi a trovare un sinonimo di radical chic) del cinema fighetto italiano. Sembra incredibile ma è diventata più pop Sky con i Matano, le Pellegrini, i Fedez, le Maionchi, che la Rai con i Favino e le Anna Foglietta.
5) Se i cantanti italiani non vogliono più fare la gara per non trovarsi a competere con Pupo ed Emanuele Filiberto (e li capisco) non è che poi pur di averli a Sanremo li si possa promuovere a super ospiti. Se Mengoni e la Amoroso dicono no, chiami Lady Gaga e Rita Ora, non è che ri-etichetti i due italiani e li chiami “super ospiti” come fossero la carne nel banco frigo.
6) Se si vuole avere un’idea precisa del problema della sinistra attuale, quello che sta accadendo sul palco di Sanremo è una discreta fotografia della situazione. Claudio Bisio, uno che viene da Avanguardia operaia, dal Leoncavallo, uno che ha Michele Serra come autore, usa quel palcoscenico per sketch con le pernacchie, per un balletto con la Hunziker, per cantare La vecchia fattoria. L’unico momento di dura contestazione, di resistenza politica è quello nei confronti di due pesci grossi nel panorama politico attuale: due hater di Twitter. Legge i loro tweet, fa la ramanzina e il governo trema. Poi arrivano Pio e Amedeo direttamente dai Villaggi Valtur e tirano stoccate a Salvini, Berlusconi, Celentano, Pier Silvio Berlusconi, Mina, Pippo Baudo e l’italiano evasore. Diventano eroi decorati al valor civile. Pio e Amedeo. Mentre Michele Serra prepara i prossimi sketch al vetriolo sul traffico nelle ore di punta e sulle madri che ti fanno mettere le pattine quando entri in casa.
7) E fu così che per il primo anno nella storia, le canzoni del Festival divennero l’ultimo dei problemi.


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