La Stampa 8.2.19
L’orrore che divise l’Italia e anticipò l’odio dei social contro la madre assassina
di Pierangelo Sapegno
Lo
stesso giorno in cui George W. Bush definisce Iran, Iraq e Corea del
Nord «l’asse del Male», in una villetta delle bambole sulla salita di
Montroz, piccola frazione del Comune di Cogne, una mamma in lacrime
chiama il 118 con voce tremula perché il suo piccolo bambino ha la testa
spaccata piena di sangue e non sa come possa essere successo. Comincia
così il «caso Franzoni», il 30 gennaio del 2002, quasi una data
spartiacque fra il vecchio e il nuovo, l’Italia che viene dal secolo
prima e quella che vola nel futuro che stiamo vivendo, dominato dai
social e dalla rivoluzione digitale.
Oggi che Annamaria Franzoni
torna libera, si consuma un’epoca che ci ha travolto nella memoria di
quel delitto e nel suo angosciante mistero, perché alla fine è questo
che ci ha diviso tutti: non siamo mai riusciti a spiegarci sino in fondo
l’orrore di quel che è successo, come se appartenesse anche alle nostre
anime e avessimo paura di sollevarne il velario. Quando muore il
piccolo Samuele Lorenzi, maciullato sul letto secondo l’accusa da 17
colpi sferrati con un’arma mai ritrovata, contano ancora le tv, e
Annamaria singhiozzante che si confessa sul piccolo schermo pochi giorni
dopo il delitto concentra l’attenzione degli spettatori più di quel che
aveva fatto qualche mese prima la guerra in Afghanistan. Ma la
partecipazione del pubblico è per la prima volta orizzontale, non più
verticale, completamente dentro all’informazione, sostituendosi alla
cronaca e divisa in maniera netta e brutale fra i colpevolisti (la
grande maggioranza) e gli innocentisti. Sta per cominciare l’Italia dei
social e della rivoluzione digitale, e la cronaca di quel delitto con il
suo carico di violenza verbale e manichea ne segna l’anticipazione.
Il
caso è diventato così trasversale che finisce persino per connotarsi
politicamente. Il primo avvocato di Annamaria Franzoni, Federico Grosso,
viene considerato dalla famiglia e soprattutto dal padre di lei,
Giorgio Franzoni, - un vero e proprio patriarca, che chiama ancora sua
figlia «bimba», trattandola come una ragazzina -, troppo di sinistra.
Per questo lo cambia con l’avvocato Taormina, che sarebbe più in linea
con le sue idee politiche, e soprattutto più aggressivo: «Taormina è una
persona spietata», dice in una registrazione telefonica, quello che
serve «perché c’è da rimettere in riga i carabinieri...». Ma tra il
pubblico la divisione è invece inversamente proporzionale: molti degli
innocentisti sono di sinistra, e i colpevolisti per la maggioranza di
destra, tanto che accusano calunniosamente Annamaria di essere parente
della moglie di Prodi, che si chiama Franzoni anche lei, ma è solo una
omonima. Con Taormina, poi, durante il processo a Torino, il rapporto
finirà a male parole e carte bollate, visto che l’avvocato sostiene che
la famiglia gli deve una barca di soldi. A piede libero fino al giorno
della sentenza, il 27 aprile 2007, lei si ripara a Ripoli Santa
Cristina, a due passi da Monteacuto, sugli Appennini bolognesi, dentro a
un villaggio che la accoglie e la riscalda come una vittima
perseguitata. Ma fuori di lì, l’Italia è in maggioranza colpevolista, e
lo è ferocemente, in quella maniera violenta e spietata che i social
hanno sdoganato. Per questo lei confessa che appena scontata la condanna
se ne andrà via dal nostro Paese, lontano da qui, non soltanto per
essere dimenticata.
Eppure nonostante i tre gradi di giudizio che
hanno inesorabilmente sentenziato la sua colpevolezza, molti sono i
dubbi che rimangono, dall’orario effettivo della morte di Samuele
all’arma del delitto mai ritrovata, dal pigiama agli zoccoli della
Franzoni sporchi di sangue, dalle lesioni della vittima alla posizione
dell’assassino. L’accusa ha sempre sostenuto che l’alibi di Annamaria,
uscita di casa dalle 8,16 alle 8,24 per accompagnare l’altro figlio
Davide allo scuolabus, non era sufficiente per dichiarare l’estraneità
del delitto. Secondo la difesa le conclusioni del medico legale
sull’orario portano a escludere la sua responsabilità perché avrebbe
avuto a disposizione troppo poco tempo, massimo due minuti, per colpire,
lavarsi, cambiare l’abito e nascondere l’arma. Gli avvocati sostengono
poi che il pigiama della Franzoni era sul letto quando l’asassino colpì,
mentre il pm dice che lo indossava. Alla fine la sentenza - 16 anni, ma
dopo 7 già in libertà vigilata -, a rileggerla adesso, è sembrata quasi
un compromesso fra due ipotesi così distanti, ma non così sicure.
Non
sappiamo se con la fine della condanna si esaurisce anche la sua
cronaca, questo tratto di tempo cominciato quando c’erano ancora le
Brigate Rosse che uccidevano Marco Biagi, e l’Italia si fermava stranita
davanti ai 50 migranti morti nel mare di Lampedusa, arrivato fino ai
nostri giorni. Tutto quello che è venuto dopo ci ha reso un Paese così
distante da quei giorni che facciamo fatica a riconoscerlo. Eppure,
verso questa mamma che abbiamo creduto assassina, o che l’abbiamo vista
così, tutto è rimasto come prima, quasi che la sua voce incrinata e il
suo volto piangente non fossero altro che l’immagine della colpa
peggiore, quella di una madre assassina. Con lei, tutto questo tempo che
è venuto non è mai andato via.