Repubblica 8.2.19
Il delitto di Samuele 17 anni dopo
La libertà di Annamaria che non ha mai fatto i conti con Cogne
di Brunella Giovara
Per
una specie di scherzo della vita, come a volte succede, si era
ritrovata a cucire bambole di stoffa, graziosi simulacri di bambini
appena più piccoli di «Sammy, che qualcuno mi ha ammazzato, e ancora
aspetto di sapere chi». Naturalmente non era una punizione crudele, ma
la cooperativa che collaborava con il carcere di Bologna aveva messo su
un laboratorio per le detenute, confezionavano bambole tipo Pigotta e
borse, pochette e sacche da spiaggia colorate, uno sprazzo di vita, per
chi vive in galera, oltre che una chance di lavoro futuro. Annamaria
Franzoni, però, non ne aveva bisogno. Una volta uscita, l’aspettavano
casa e famiglia, i potenti Franzoni l’avrebbero protetta, sorretta,
abbracciata, amata, come sempre avevano fatto, fin dal tempo di Cogne.
Questo
perché la piccola Annamaria, la "Bimba", l’ultima dei dieci figli di
Giorgio, era già stata da loro processata e assolta in una sorta di
dibattimento privato che si era svolto in varie case e in diverse
automobili, nei primi giorni dopo quel gelido 30 gennaio 2002. Ignari di
essere registrati dalle microspie dei carabinieri, padre e fratelli
avevano torchiato la ragazza, per poi decidere che così bastava, e
quindi cosa voleva il resto d’Italia, che si domandava se aveva davvero
ucciso il figlio di 3 anni, e cosa volevano gli inquirenti, i
magistrati, i giornalisti. Per i Franzoni, quella era una faccenda
privata.
La Bimba appariva quindi come una persona schiantata da
un doppio dolore, uno evidente, le lacrime al funerale, pur nella
perfetta tenuta della messinpiega appena fatta dal parrucchiere, il che
aveva fatto inorridire molti, come se il fatto che avesse trovato il
tempo e la voglia di andarci la rendesse sicuramente colpevole. Il
secondo dolore era nascosto e probabilmente è ancora lì, nonostante gli
anni di carcere, la psicoterapia poi proseguita anche ai domiciliari, il
figlio chiesto al marito subito dopo i fatti («aiutami a fare un altro
bambino»), ora un ragazzino che ama la mamma, come è giusto che sia. Il
dolore di non essere mai stata creduta, tant’è che anche ieri ha detto a
persone amiche «sono contenta, ma vorrei trovare la maniera di far
capire alla gente che non sono stata io». L’impresa è difficile, anche
ora che la pena è scontata, anche se tutti chiedono di chiudere la
porta, infine, sulla tragica storia di Cogne. Paola Savio, suo attuale
difensore, ieri diceva «solo gli ergastoli non finiscono mai, le altre
pene finiscono e anche per lei è finita, e adesso dimenticatela». E
Carlo Taormina, secondo avvocato, convinto di «sapere chi è il vero
assassino, ma non posso indicarlo», e aggiungendo che «però non mi ha
mai pagato la parcella, sono circa 400mila euro», e il primo legale, il
professore Carlo Federico Grosso, «ancora convinto che non ci fossero
elementi sufficienti per condannarla, sono contento per lei che sia
finito questo calvario».
Tocca però ricordare le parole del
procuratore generale Vittorio Corsi al processo d’appello, quando disse
«questa vicenda per me è uno dei casi più semplici di "figlicidio". Le
statistiche ci dicono che sono una ventina all’anno, per lo più compiuti
da madri, raramente da padri. Tanti sono stati rapidamente chiariti e
già dimenticati». E aveva riesumato le intercettazioni telefoniche e
ambientali, una conversazione del 3 marzo 2002 in cui la Bimba dice
«Cosa mi è succ...», poi corretto in «cosa gli è successo», a Samuele.
Una «reazione da corto circuito», la definì il magistrato. E una frase
del marito: «Bimba, non ti conviene dire che chiudevi sempre la porta di
casa». E del padre: «Dobbiamo prendere le contromisure, però se abbiamo
fantasia possiamo in un certo senso mettere al riparo alcune cose».
Così, Annamaria ha continuato a camminare sulla linea dritta tracciata
dai suoi, anche quando è uscita dalla Dozza ed è andata ai domiciliari,
nella casa di Ripoli Santa Cristina, un’ora da Bologna, anche questa una
casa isolata e sbarrata ai più, come era quell’altra in montagna, una
casa mai dimenticata, così amata e poi odiata, setacciata dai
carabinieri, riprodotta in un orrendo modellino plastico, tuttora vuota.
Oggi «ha ricostruito la sua vita», dice don Giovanni Nicolini, già
cappellano della Dozza, che l’ha seguita e «voluta bene. Ma è l’affetto
della sua famiglia che l’ha tenuta in piedi, sapesse quanti escono dalla
galera e si ritrovano soli. Nel suo caso invece si può pensare a una
specie di miracolo, dovuto all’amore dei suoi, che è stato grande».
Perché «lei aveva una speranza», tornare a una vita normale, chiudere
tutto, cambiare ancora una volta casa, via anche da Ripoli, sulla casa
ora c’è la scritta vendesi, la cuccia del cane Edo, abbandonata. Oggi è
una bimba di 47 anni, appesantita dagli anni e dal carcere, il doppio
mento che castiga quasi tutte le donne, la vita tranquilla della brava
casalinga che è sempre stata, la spesa alla Coop, i figli, molti
pensieri ancora da ritirare a Montroz, frazione di Cogne.