La Stampa 7.2.19
Con i curdi a Kobane
“L’Isis è piegata. La prossima guerra sarà con la Turchia”
di Francesco Semprini
La
donna alata, simbolo di libertà, illumina i due mezzi cingolati
consacrati in uno spartano altare della patria. Siamo a Kobane, cuore
del Rojava - regione curda del Nord-Est siriano - nella piazza dedicata
ai martiri, i caduti della furente battaglia che nel luglio del 2015
portò alla liberazione della città occupata dai miliziani dello Stato
islamico.
Quel mausoleo, cicatrice di ferite profonde, simboleggia
il riscatto del popolo curdo iniziato, appunto, con la riconquista di
Kobane e la successiva liberazione di Raqqa, sino a spingersi alle
pendici della Siria, dove l’ultimo bastione delle bandiere nere ha ormai
i giorni contati. Per arrivare nella città martire dobbiamo compiere un
viaggio che parte più ad Est, da Peshabor estremo lembo di terra del
Kurdistan iracheno sotto il controllo Peshmerga, i guerrieri che
«guardano in faccia la morte». Le pratiche per varcare il confine
richiedono pazienza, a causa delle procedure di sicurezza e di una
burocrazia bizantina provata da un litania di richieste.
«Quando
Trump parla sono costretta a fare gli straordinari», ci dice Juana,
giovane donna che coordina l’ufficio permessi di Peshabor. Il
riferimento è alle dichiarazioni sul ritiro delle forze americane dalla
Siria, che alimenta le speranze di chi ritiene che il Califfato sia
stato ormai consegnato alla storia e aspira a tornare nella martoriata
terra siriana.
Passato il ponte provvisorio che attraversa un
affluente del Tigri ci attende un’altra fermata, questa volta
all’Azayis, l’intelligence delle Forze democratiche della Siria (FdS),
la coalizione anti-Isis che tiene assieme curdi, arabi sunniti e
combattenti cristiani. Intascati nuovi permessi ci avviamo verso Ovest
sulle linee del tramonto, a ridosso dei promontori che segnano il
confine turco, aspro e minaccioso. In circa tre ore arriviamo a
Qamishli, unica città del Rojava che le bandiere nere le ha viste
sventolare da lontano. Qui i jiahidisti di Abu Bakr al Baghdadi non sono
mai entrati, grazie anche ai bastioni di Damasco che presidiano una
delle più importanti basi aeree del regime.
Una convivenza
difficile, raccontata dall’alternarsi di piazze con il volto di Ocalan,
guida suprema dei curdi, e il distretto adornato da ritratti di Bashar
al Assad. «Con Damasco c’è un canale di dialogo aperto», ci racconta un
alto ufficiale delle FdS del quartier generale di Remillah, il quale ci
dice che la legittima aspirazione del Kurdistan siriano non è
l’indipendenza, ma lo status di regione autonoma in una Siria
democratica. «Temiamo tuttavia che il regime abbia la stessa mentalità
che aveva prima della guerra - avverte -, noi però non siamo disposti a
tornare indietro». Assad non è comunque in cima ai pensieri dei curdi,
almeno per ora. «C’è una guerra da chiudere e una da combattere», ci
racconta Cudi, coordinatore di uno dei reparti operativi delle Unità di
protezione popolare (Ypg) del Kurdistan siriano.
La seconda guerra
è quella contro Ankara, convinta che i curdi siriani sono l’emanazione
dei terroristi turchi del Pkk: «Ci sono 60 mila soldati turchi pronti ad
attaccarci usando anche droni e aerei, come hanno fatto ad Afrin, per
questo voglio credere che gli americani non ci abbandoneranno. Noi
comunque siamo pronti». Prima però c’è un conflitto da chiudere, quello
contro il califfato, oggi ridotto a un fazzoletto di terra di qualche
chilometro tra l’Eufrate e il confine con l’Iraq. Si tratta dell’ultima
sacca di resistenza di 500 jihadisti, asserragliati tra Marashdah e
Baghuz al-Fawqani, pochi km sotto Hajin, bersagliata dai raid americani,
stretta d’assedio a ovest dai governativi e dall’altra parte del
confine dalle milizie filo-iraniane, posizionate su quel valico di
Al-Qaim, da dove i terroristi di Baghdadi entrarono in Iraq nella fase
espansiva dello Stato islamico del Levante. «La fine è vicina, questione
di un paio di settimane, forse meno», ci continuano a ripetere i
combattenti curdi. Lo conferma il fatto che gli stessi jihadisti abbiano
offerto la consegna dei prigionieri, l’apertura di un corridoio per
raggiungere Idlib, ultimo feudo jihadista nella Siria governativa, o la
«tollerante» Turchia, in cambio della deposizione delle armi. «Non
accetteremo mai», affermano i curdi, convinti che nell’ultimo bastione
ci siano anche alti gradi dell’Isis, forse lo stesso al-Baghdadi.
A
complicare le operazioni è il fatto che gran parte degli irriducibili
sono ceceni, «i combattenti più temibili», pronti a trasformarsi in
kamikaze, anche se il califfo in persona avrebbe dato ordine di «non
farsi saltare in aria, tenere un profilo basso e rispondere al fuoco».
Per prendere tempo forse, aiutati dai circa 1.500 civili usati come
scudi umani ed esposti a rischio di incidenti fatali. Simili a quello
che ha causato la morte, due giorni fa, di donne e bambini uccisi per
fatalità dal fuoco amico, nel corso di un’offensiva delle FdS. Sul posto
«sono in corso operazioni congiunte di unità scelte Ypg, forze speciali
Usa e Cia, a conferma che la fine del califfato è vicina». Ma non
quella delle bandiere nere avvertono i curdi, facendo eco ai moniti di
Langley, che parlano di «seconda fase» dell’Isis quella degli attentati
sparsi compiuti dalle metastasi jihadiste disseminate tra i deserti di
Siria e Iraq, pronte, al momento opportuno, a raggrupparsi di nuovo.