mercoledì 6 febbraio 2019

La Stampa 6.2.19
La fede come scudo dei diritti
di Gian Enrico Rusconi


È un testo forte, drammatico quando parla della «frustrazione, solitudine e disperazione, che conduce a cadere nel vortice dell’estremismo ateo e agnostico oppure nell’integralismo religioso, nell’estremismo e nel fondamentalismo cieco». «L’estremismo religioso e nazionale e l’intolleranza hanno prodotto nel mondo sia in Occidente sia in Oriente ciò che potrebbero essere chiamati i segnali di una terza guerra mondiale a pezzi».
Ma ci sono anche passaggi in positivo tutt’altro che scontati - se presi sul serio.
Ad esempio l’invito ad «adottare la cultura del dialogo, la collaborazione come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio».
Siamo sicuri che la massa dei credenti di entrambe le fedi è pronta seguire questo invito? O rimarrà frenata da tenaci reciproci pregiudizi?
Tre punti meritano una particolare attenzione. L’insistente riaffermazione del valore dei diritti umani con un breve ma efficace paragrafo dedicato ai «diritti della donna». Il pluralismo e la diversità religiosa definiti nel documento come espressione di «una sapiente volontà» divina. L’affermazione del concetto di «cittadinanza piena» con il rifiuto dell’uso discriminatorio del termine «minoranza».
E’ molto significativo che il sommo pontefice e il grande imam motivino e legittimino con ragioni religiose («la sapienza divina») le differenze di credo. Scrivono: «La sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad una certa religione o cultura come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano». Da qui la raccomandazione che, anziché generare competizione per il possesso in esclusiva della verità o favorire reciproche chiusure, le differenze diventino motivo di reciproca conoscenza.
E’ una raccomandazione che può sembrare rivolta soprattutto alla cultura islamica. Ma sono sicuro che in settori non irrilevanti del mondo cattolico ci sono voci di dissenso che paventano in tutto questo una forma di relativismo o di eclettismo religioso. Il contrario della reciproca conoscenza.
Del resto, su un piano diverso, non si sente ripetere da noi la tesi della incompatibilità dell’islam con la democrazia? E non si sta affermando ai nostri giorni una cultura politica che usa in modo discriminatorio il termine «minoranze» e quindi «prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli»? E magari agiscono così proprio coloro che intendono difendere la «nostra» cultura religiosa.
Non so quale efficacia avrà questo testo sulla «Fratellanza umana» che gli alti estensori vorrebbero diventasse oggetto di ricerca e di riflessione negli istituti di ricerca e di formazione. Certamente rimarrà un documento storico di un momento estremamente difficile per le religioni contemporanee.

il teorico dell'«operaio-massa», ormai da anni convertitosi al cattolicesimo, ancora prima dell’epoca di Bergoglio
Repubblica 6.2.19
Il libro
Le riflessioni dell’ex senatore
Tronti: " La sinistra dei benestanti ha perduto il suo popolo"
di Concetto Vecchio


ROMA Non mi va di trovarmi dalla stessa parte dei benestanti, mentre i nullatenenti stanno dall’altra parte. Non me la sento di stare con quelli che alle nove di sera entrano all’Auditorium contro quelli che alle sei di mattina escono di casa», sostiene Mario Tronti nel suo ultimo libro Il popolo perduto, una conversazione con Andrea Bianchi, che esce in questi giorni in libreria, edito da Nutrimenti.
È un grido di dolore. Ma anche una riflessione senza sconti sulle ragioni che ancora rimangono alla sinistra, fatta da un filosofo che vive in periferia a Roma, e che ogni mattina sale sullo stesso autobus, il 776, i cui viaggiatori hanno da tempo voltato le spalle ai partiti progressisti.
«Il dramma, almeno per me politicamente insopportabile, è una sinistra di benestanti e una destra di nullatenenti». La radice dell’antipolitica sta tutta qui, secondo Tronti: in questa percezione. Ma è un guasto che viene da lontano. Dalla scissione del Pci, che andava evitata. A cui è seguita l’illusione dei post-comunisti che avrebbero potuto conquistare la maggioranza con un altro elettorato, generico, aprendosi così la strada al governo. Così ci si è allontanati da una cultura politica che avesse al centro i bisogni sociali. La conseguenza è stata che «non si sono più riconosciuti i conflitti veri dove poter spendere politica vera. Ne è venuta fuori una melassa di buoni sentimenti che non acchiappavano niente della nuova dura realtà che picchiava sulle condizioni di vita delle persone».
Morale: la mentalità culturale democratico-progressista non ha più capito il popolo. E il ceto politico imbevuto di quella cultura non è più venuto da lì, e non è più andato lì.
Dice Tronti: «Contate quante volte si nomina la parola cittadini e quante volte la parola lavoratori. Quante mobilitazioni di piazza si sono fatte su rivendicazioni umanitarie e quante sul flagello delle morti sul lavoro?».
I democratici, di cui Tronti è stato senatore, seppur senza tessera, hanno dato l’idea di credere vera la falsa notizia che non c’è più sfruttamento del lavoro. «Soltanto che il popolo li ha sgamati». Una mutazione genetica.
Il Novecento è finito e la sinistra non ha saputo investire la sua missione in una nuova impresa.
Tronti ricorda che un tempo il segretario di sezione del Pci faceva la relazione all’assemblea dell’Attivo. Che cos’era l’Attivo?
Erano gli iscritti al partito della zona che portavano orientamenti e riflessioni dalla strada e dalla vita di tutti i giorni.
Morto l’Attivo il popolo si è ribellato e ha finito per regalarci L’uomo qualunque al governo.
Si è ancora in tempo, mentre i populisti hanno stregato il paese? L’antipolitica si batte rifondando, in istituti nuovi, i partiti e la democrazia rappresentativa, per sintonizzarsi con i bisogni degli ultimi, «muti, soli, disperati e incattiviti». Anche Tronti fa ammenda: «Dovevo fare più politica e meno cultura politica.
Oggi forse è tardi».
Viviamo in una terra di nessuno.
Un tempo senza epoca. «C’è il nostro tempo, manca però l’epoca», osserva Tronti. La storia è diventata piccola, prevale la cronaca, il chiacchiericcio, il lamento. Cita Aldo Moro, quando diceva che «bisogna dominare con intelligenza gli avvenimenti». Soprattutto bisogna sapere da dove si viene, conoscere le origini. Le élite hanno fallito. Ma è compito delle élite risintonizzarsi con il popolo. «Perché — avverte il filosofo — non c’è vero popolo senza classi dirigenti e non ci sono vere classi dirigenti senza popolo».
Il libro e l’autore
Il popolo perduto.
Per una critica della sinistra (Nutrimenti, pagine 144, euro 14) Mario Tronti, classe 1931, filosofo, tra i fondatori dell’operaismo, intervistato da Andrea Bianchi

il manifesto 6.2.19
Cgil, Cisl e Uil pronti per piazza San Giovani
Sabato a Roma. Buone risposte dai territori. Ieri la critica a Quota 100: penalizza le donne


Cgil, Cisl e Uil scaldano i motori per la manifestazione in programma sabato a Roma. I segnali che arrivano dai territori sono positivi e hanno portato i sindacati confederali a spostarsi dall’iniziale piazza del Popolo alla più capiente piazza San Giovanni. Con i pullman già organizzati si stimano già circa 500mila presenze. Il concentramento del corteo è previsto alle ore 9 a piazza della Repubblica da dove partirà il corteo verso la storica piazza San Giovanni dove parleranno i segretari generali: ad aprire alle 11 sarà il neo segretario della Cgil Maurizio Landini, poi parlerà Annamaria Furlan della Cisl mentre la chiusura spetterà a Carmelo Barbagallo della Uil.
Il carattere unitario della manifestazione è confermato dal fatto che i pensionati di Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp – che manifestano anche contro il blocco della rivalutazione delle pensioni – hanno preparato un unico striscione e sfileranno insieme.
La conferenza stampa di presentazione ci sarà domani alla sede della Uil ma nel frattempo tutti i segretari generali stanno girando l’Italia per promuoverla. Lunedì Maurizio Landini ha tenuto una affollata assemblea alla Vodafone di Ospedaletto (Pisa) mentre oggi sarà alla Perla – azienda di intimo che ha cambiato proprietà – di Bologna. «Noi siamo per il lavoro, c’è il problema di crearlo: la critica che facciamo alla manovra è che non c’è un piano straordinario di investimenti e non si inverte la tendenza rispetto alle manovre sbagliate degli anni precedenti», ha detto ieri Landini.
Sempre ieri i sindacati sono stati ascoltati in commissione al senato anche su Quota 100, denunciando come si penalizzano i lavoratori del Sud e le donne perché difficilmente riescono a totalizzare almeno 38 anni di contributi. Riguardo alle 21mila domande già presentate di cui il 41 per cento al Sud, secondo i sindacati è probabile che la prima ondata di domande sia stata fatta soprattutto da coloro che hanno perso il lavoro e da persone che fanno i conti con un costo della vita più basso e quindi ipotizzano di andare in pensione anche con un assegno minore. «Ma non è escluso – come ha spiegato la presidente dell’Inca Cgil, Morena Piccinini – che molte domande siano state fatte con riserva in attesa di capire se possano essere accolte e con quale importo», come accadde per l’Ape social di due anni fa con il 30 per cento di domande non accettate.
Secondo i sindacati il requisito contributivo dovrebbe riconoscere la maternità e il lavoro di cura (con uno sconto quindi rispetto ai 38 anni minimi). Cgil, Cisl e Uil chiedono «un intervento organico basato sulla flessibilità in uscita a partire dai 62 anni di età, la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contribuzione a prescindere dall’età e il riconoscimento della diversa gravosità dei lavori».

il manifesto 6.2.19
Decreto sicurezza, noi psicoanalisti non possiamo tacere

sono 621 le firme in calce a questa lettera

Noi tutti, firmatari di questa lettera, siamo psicoanalisti appartenenti alla storica Società Psicoanalitica Italiana (SPI), componente dell’International Psychoanalytical Association (IPA), della quale fanno parte società psicoanalitiche di tutto il mondo. Molti di noi fanno parte di un gruppo denominato PER (Psicoanalisti Europei Per i Rifugiati), con il quale la SPI ha inteso raccogliere le esperienze di molti psicoanalisti che già da anni operano su tutto il territorio nazionale nel settore della migrazione. Del Gruppo PER inoltre, fanno parte anche psicoanalisti che appartengono al gruppo denominato Geografie della Psicoanalisi che ha per scopo l’indagine e i contatti della psicoanalisi con altre culture.
Grazie allo specifico sapere psicoanalitico, in grado di cogliere la complessità del lavoro con i migranti e con l’intero fenomeno che sappiamo essere attivatore di grande sofferenza psichica, è stato possibile fornire un contributo clinico scientifico in favore dei migranti e degli stessi operatori delle varie associazioni che, essendo in diretto contatto con i migranti, si fanno carico quotidianamente della sofferenza psichica di cui essi sono portatori silenti.
È proprio quest’esperienza quotidiana di contatto con il disagio psichico profondo e con la sofferenza legata a traumi, sradicamento e lutto migratorio che ci spinge a scrivere e ad assumere una posizione critica, ritenendo che non si possa tacere sulle complesse e gravi condizioni in cui versano i migranti in Italia.
La situazione, da tempo critica, si è drammaticamente aggravata dopo il varo e l’approvazione del “Decreto Sicurezza” che, contrariamente al termine “sicurezza”, sta già rendendo la condizione dei migranti e, consequenzialmente quella italiana, sempre più “insicura”. Concordiamo con quanto Lei afferma: “la vera sicurezza si realizza, con efficacia, preservando e garantendo i valori positivi della convivenza”.
Ed è proprio a partire da questa Sua dichiarazione che pensiamo di poter affermare che la convivenza non è un dato, ma una paziente tessitura da costruire nel quotidiano, sfidando paure e diffidenze reciproche inevitabili. L’accoglienza e la convivenza possono essere prove difficili quanto l’esilio ed è per questo che vanno sostenute attraverso politiche e azioni sociali capaci di dare ascolto anche al disagio della popolazione residente, evitando che si radicalizzi quel cieco rifiuto che si sta attivando.
E’ grave chiudere gli SPRAR, in quanto sistemi di “accoglienza integrata”, che fino ad oggi non si sono occupati solo del sostegno fisico delle persone immigrate, ma hanno anche promosso percorsi di informazione, assistenza e orientamento, necessari a favorire un loro dignitoso inserimento socio-economico. Precludere queste opportunità non vuol dire solo annullare drasticamente gli SPRAR, ma cancellare ogni possibilità di dare dignità alle persone sostenendo il loro legittimo diritto di aspirare ad una vita migliore e alla salute che, come sancito dall’OMS, “…è uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non solo l’assenza di malattia o infermità”.
La nuova legge, di fatto, rende impossibile l’integrazione dei migranti in Italia, esponendoli ancora una volta al rischio di umiliazioni e sofferenze psichiche profonde e disumane, non riconoscere più il permesso di soggiorno per motivi umanitari è disumano!
Gestire il fenomeno migratorio come una pura questione di ordine pubblico è segno di pericolosa miopia. Noi pensiamo che sia urgente ripensare completamente anche le politiche migratorie, riaprendo, ad esempio, i canali regolari della migrazione da lavoro, come opportunità per avvalersi dell’apporto di energie nuove che sempre le migrazioni riuscite hanno rappresentato e che sono alla base di ogni autentico processo di integrazione.
Quelli di noi che operano a Bologna, Genova, Milano, Roma, Trieste, Gorizia, Venezia, Caserta hanno visto, dopo l’approvazione della legge, da un giorno all’altro, centinaia di migranti lasciati in strada senza protezione. Diventati fantasmi, privati di tutto, uomini e donne che restano esposti al pericoloso circuito vizioso alimentato dalla condizione di bisogno estremo, vulnerabili e inermi, assoggettabili a contesti delinquenziali che possono spingerli/costringerli verso comportamenti anti sociali.
E’ doveroso chiedersi da dove nasca questa ossessione per il migrante da parte dei nostri governanti, che generano e alimentano paure sociali, dal momento che gli sbarchi sono passati da circa 160.000 nel 2016 a 22.000 nel 2017.
Siamo consapevoli che le paure possono accecare al punto da distorcere la percezione non solo dell’altro ma persino della propria stessa umanità. La disumanità è un rischio costante per l’umano in cui si può scivolare quasi inavvertitamente spostando sempre un po’ più in là l’asticella di ciò che è tollerabile. E’ questa la ragione per cui è ancora più necessario riuscire ad ascoltare anche quello che si cela sotto la paura, per trasformarla in possibilità di contatto con se stesso e con l’altro. Attraverso il nostro lavoro di psicoanalisti siamo vicini alle complesse realtà umane e sentiamo urgente lavorare e riflettere, anche al difuori del nostro ambito, sulla possibilità di elaborare il “male” per prevenire il rischio che il “male” possa essere agito.
E’ necessario operare affinché l’inconsapevole distruttività, cui tutti siamo esposti, possa trasformarsi in conoscenza e comprensione generatrice di consapevole tensione verso il diverso, l’ignoto, l’altro.
Tragicamente sono aumentati percentualmente i morti in mare per la restrizione quasi totale della possibilità di operare salvataggi da parte delle navi di soccorso. Chi soccorre in mare può, paradossalmente rispetto alle leggi di mare, essere soggetto a processo per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina! Per non dire di ciò che accade nei percorsi di terra e nell’attraversamento dei deserti.
Quanto poi ai rimpatri, essi, di fatto, sono semplicemente impossibili in assenza di accordi sicuri con le Nazioni di partenza. In questo contesto, è molto grave che l’Italia non abbia partecipato al Global Compact for Migration dell’ONU, accordo globale sull’accoglienza dei migranti approvato con il voto favorevole di 152 Paesi.
Non possiamo accettare il razzismo crescente che sfocia in atti di cui una nazione civile dovrebbe vergognarsi. E’ in atto un diffuso, impressionante processo di disumanizzazione. Noi analisti siamo sempre attenti quando vediamo negli individui, nei piccoli e nei grandi gruppi, fenomeni più o meno striscianti o palesi di razzismo e di disumanizzazione. Siamo sensibili per formazione professionale e cerchiamo di tenere a mente l’insegnamento della storia, anche perché nel periodo delle leggi razziali, la psicoanalisi fu vietata e molti colleghi di allora, perché ebrei, furono costretti a emigrare.
Operando nel settore, non finiamo mai di stupirci di quanto dolore possa essere inflitto a un essere umano, anche senza volerlo, anche solo girando la testa dall’altra parte.
Conosciamo le gravi conseguenze psichiche di tutto ciò che sta succedendo, sia in coloro che si sentono rifiutati ed emarginati, sia nei figli che avranno, sia in coloro che si trovano a dover operare in modo disumano e che rischiano essi stessi di impoverirsi dei valori fondamentali dell’esistere. Non siamo disposti, per tutti questi motivi, a vedere una parte dell’Italia abbracciare xenofobia e razzismo. Organismi internazionali come Amnesty International hanno segnalato questi gravi fenomeni razzisti e xenofobi in Italia.
Un’altra Italia esiste e inizia a esprimere il proprio profondo dissenso: noi ne facciamo parte. Lavoriamo affinché i valori dell’ospitalità, della tolleranza, della convivenza e della responsabilità individuale per il futuro di tutti, siano mantenuti vivi. Siamo una “comunità di vita”, come lei ha definito il nostro Paese e, come tale, vogliamo continuare a esistere. Non possiamo tacere perché tacere sarebbe colpevole anche verso le generazioni future di figli e nipoti che ci potranno chiedere dove eravamo quando un’umanità dolente e in cerca della possibilità di ricostruire la propria identità spezzata e perduta, veniva respinta, emarginata o segregata in modo disumano.
Ci rivolgiamo a Lei, Signor Presidente della Repubblica, nella Sua qualità di Garante dei diritti umani e civili sui quali Essa è stata fondata, affinché questo appello, nato dalla nostra esperienza professionale, sostenuto dal nostro ruolo di cittadini e dalla nostra identità di esseri umani, abbia ascolto.

il manifesto 6.2.19
Le foibe per dimenticare i crimini del fascismo
Giorno del ricordo. I mancati conti col nostro passato fascista e l'assenza di una ridefinizione della complessità storica, fanno sì che le foibe vengano presentate come «pulizia etnica» o come violenza perpetrata contro gli italiani in quanto tali
di Davide Conti


Sono collocati da tempo al centro del dibattito in Italia, e non solo, l’uso politico della storia, la formulazione di leggi memoriali ad hoc e il tema, già discusso in Parlamento, di una codificazione normativa. Codificazione che si proporrebbe di sanzionare giuridicamente veri o presunti «negazionisti», determinando una torsione del senso del passato schiacciata sulla misura minuta del quotidiano. Un processo di questa natura comporta una semplificazione dei termini della complessità storica che, in ultima istanza, pone una questione di grande rilievo sul piano della memoria e dell’identità stessa della nostra società.
Da un quindicennio attorno al Giorno del ricordo si consuma un conflitto storico-memoriale che in alcuni casi ha finito per esorbitare nella dimensione politico-diplomatica (basti pensare all’aspra polemica tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’allora Presidente del consiglio croato Stipe Mesic e lo scrittore italo-sloveno Boris Pahor).
Questo conflitto è caratterizzato da un non detto pubblico relativo all’eredità fascista dell’Italia post-bellica che impedisce, di fatto, una completa ricostruzione ed un compiuto conferimento del senso della storia consumatasi sul nostro confine orientale e sfociata nelle violenze subite dagli italiani in quelle terre prima nel 1943, dopo lo sbando dell’8 settembre, e poi nel 1945.
Quanti conoscono in Italia il generale Mario Roatta e le misure di repressione di civili e partigiani jugoslavi riassunte nella sua «Circolare 3 C»? quanto l’opinione pubblica viene resa edotta della condotta del «governatore del Montenegro» Alessandro Pirzio Biroli, del generale Mario Robotti, per il quale in Jugoslavia «si ammazza troppo poco», o del generale Gastone Gambara che nel 1942 scriveva «logico e opportuno che campo di internamento non significhi campo di ingrassamento»?
Quanti sanno che delle migliaia di «presunti» criminali di guerra italiani inseriti nelle liste delle Nazioni Unite alla fine del conflitto nessuno venne processato in Italia o all’estero? Il mito degli «italiani brava gente» ha ragion d’essere di fronte alla consolidata storiografia che ormai da decenni ha ricostruito documentalmente i crimini di guerra del regio esercito e delle formazioni fasciste?
Fu Mussolini stesso, d’altro canto, il 22 settembre 1920 a Pola, ad anticipare ciò che sarebbe accaduto «di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che da lo zuccherino, ma quella del bastone […]credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».
I mancati conti col nostro passato fascista, dunque, impediscono di dare compiuta attuazione alle stesse disposizioni del Giorno del ricordo che si propone da un lato di «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe e dell’esodo» e contestualmente di affrontare «la più complessa vicenda del confine orientale». Senza una ridefinizione della complessità storica le foibe vengono presentate come «pulizia etnica» o come violenza perpetrata contro gli italiani in quanto tali.
In realtà l’Esercito Popolare di Liberazione comandato da Josif Broz Tito combatté contro tutti gli eserciti di occupazione e contro tutti i loro collaborazionisti, indipendentemente dalla loro nazionalità: gli ustascia croati, i cetnici serbi, i domobranci sloveni, i nazisti tedeschi ed i fascisti italiani. E sostenne quella lotta di liberazione con al fianco migliaia di soldati italiani unitisi alle formazioni partigiane dopo l’armistizio. Contestualmente un gran numero di jugoslavi deportati in Italia nei campi di internamento dopo l’8 settembre si unirono ai partigiani italiani nella Lotta di Liberazione Nazionale da cui è nata la Costituzione della Repubblica.
L’uso strumentale delle drammatiche vicende del confine orientale e delle foibe ha trovato espressione, nella cronaca politica, negli scomposti attacchi del ministro dell’Interno all’Anpi e nel paradossale voto della commissione Cultura della Camera che, indice del grado di erosione democratica del nostro tempo, vorrebbe impedire all’associazione dei partigiani, che il Parlamento riaprirono dopo il terrore del ventennio fascista, di parlare nelle scuole pubbliche del confine italo-jugoslavo durante la seconda guerra mondiale.
Di quella storia invece è indispensabile parlare. Rosario Bentivegna, comandante dei Gap a Roma e combattente in Jugoslavia, insisteva sempre nel dire «più ancora di ciò che abbiamo fatto noi partigiani si deve parlare di ciò che è stato il fascismo. Solo così sarà possibile seppellirlo per sempre».

Corriere 6.2.19
Caso Cucchi, generale indagato per le relazioni «aggiustate»
Casarsa, ex capo dei corazzieri, accusato di falso. L’alto ufficiale nega
di Giovanni Bianconi


Le frasi scomparse
Dai documenti sparì il riferimento ai dolori al capo e al costato lamentati dall’arrestato

ROMA Salendo un gradino dopo l’altro la scala gerarchica dei carabinieri all’epoca dei fatti, l’inchiesta-bis sui depistaggi nel «caso Cucchi» è arrivata a coinvolgere un generale di brigata. Si tratta di Alessandro Casarsa, fino a un mese fa capo dei corazzieri in servizio al Quirinale, attualmente in attesa di destinazione e nel 2009, da colonnello, comandante del Gruppo Roma. È indagato per falso in atto pubblico, insieme agli altri ufficiali già inquisiti per le manipolazioni di almeno due relazioni di servizio sul detenuto arrestato la sera del 15 ottobre 2009 e deceduto una settimana più tardi al reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini.
Casarsa è stato interrogato una decina di giorni fa dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, davanti ai quali ha sostenuto di essere estraneo a qualunque manovra per intralciare la ricerca della verità sulla morte di Cucchi, sia nel corso degli eventi che successivamente. Ma gli accertamenti dei magistrati sulle «anomalie» di un’indagine che ha già portato a un processo contro gli imputati sbagliati (gli agenti della polizia penitenziaria assolti in primo e secondo grado), e continua a svelare intralci anche mentre è in corso un nuovo processo a carico di cinque carabinieri, non si fermano.
La vicenda di cui è stato chiamato a rispondere Casarsa riguarda le annotazioni sulle condizioni di salute di Stefano Cucchi redatte dai carabinieri Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano, ai quali dopo la morte del detenuto era stato chiesto di riferire quello che avevano visto e sentito la notte dell’arresto. Il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione dei carabinieri di Roma-Tor Sapienza già inquisito per questo episodio, ha raccontato che le relazioni furono in seguito modificate dopo l’intervento del maggiore Luciano Soligo, che guidava la Compagnia e le riteneva «troppo particolareggiate», con «valutazioni medico-legali che non competevano ai carabinieri».
Secondo Colombo il maggiore (che da indagato si è avvalso del diritto di non rispondere alle domande dei pm su indicazione del proprio difensore) parlava al telefono con un superiore chiamandolo «signor colonnello», e fece trasmettere per posta elettronica le annotazioni all’allora capo dell’ufficio comando del Gruppo Roma, il tenente colonnello Francesco Cavallo, il quale le rimandò indietro modificate, con l’indicazione «meglio così». Dai documenti erano spariti i riferimenti a «forti dolori al capo e giramenti di testa», nonché a difficoltà a camminare, tremori e dolori al costato lamentati da Cucchi. Di Sano accettò di firmare la relazione modificata, Colicchio no.
Ascoltato dai pubblici ministeri, anche lui come indagato, Cavallo avrebbe spiegato di non ricordare le modifiche ma che in ogni caso tutto ciò che fu fatto all’epoca era concordato con il comando del Gruppo Roma, il quale peraltro aveva rapporti diretti con i comandanti di Compagnia, senza dover passare necessariamente da lui. E dato che il caso stava suscitando grande clamore, se ne era occupato pure il suo diretto superiore, il colonnello Casarsa.
Da questi e altri elementi, Pignatone e Musarò hanno ritenuto di dover iscrivere anche il nome di Casarsa (che nel frattempo era stato promosso ad altri incarichi raggiungendo il grado di generale) nel registro degli indagati prima di ascoltare la sua versione. Che oltre a escludere qualsiasi intento depistatorio, non avrebbe aggiunto particolari sulle modifiche; sono passati più di nove anni, ma tra i ricordi dall’alto ufficiale ci sarebbe l’indicazione data ai carabinieri che avevano avuto a che fare con Cucchi di essere il più precisi e dettagliati possibile nelle loro ricostruzioni. Cioè il contrario di quanto recepito da chi trasmise l’ordine di cambiare le annotazioni.

Corriere 6.2.19
Il retroscena
Diciotti, la difesa di Salvini:
«Il sequestro dei migranti? Scesero due ore dopo l’ok»
di Fiorenza Sarzanini


La nota per il Senato attacca i giudici: ignorate le nostre tesi
Roma Difende una «decisione collegiale» presa per la «sicurezza nazionale» e attacca il Tribunale dei ministri di Catania perché «non ha tenuto in conto le nostre ricostruzioni». Ribadisce il pericolo «che a bordo della nave ci fossero terroristi» e nega di aver «messo a rischio la sicurezza delle persone». Ma soprattutto sostiene che «i minori rimasero a pregare per due ore dopo l’ordine di sbarco». Sul caso Diciotti il ministro Matteo Salvini decide di andare all’attacco ribadendo la sua linea politica che associa l’arrivo dei migranti a un pericolo per l’Italia. Una tesi che il collegio di giudici ha già respinto sostenendo che non ci fosse alcuna prova. Alla giunta per le autorizzazioni del Senato consegnerà una relazione scritta e rivista parola per parola con Giulia Bongiorno, l’avvocatessa che ha difeso politici di primo livello e adesso è la ministra della Pubblica amministrazione in quota Lega. Niente audizione «perché scripta manent», spiega il titolare del Viminale alla vigilia di una giornata che per lui può essere decisiva. «Parlerò davanti all’aula», anticipa.
Per tentare di dimostrare il «pericolo» Salvini cita un precedente che però non ha nulla a che fare con la nave militare che rimase nel porto di Catania tra il 20 ed il 25 agosto scorso con 177 stranieri a bordo. E dice: «Il rischio di infiltrazioni era emerso più volte, anche in occasione del comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica che si era svolto pochi giorni prima in Calabria il 24 giugno 2018. Due tunisini sbarcati a Linosa erano risultati già espulsi dall’Italia nel 2015 per orientamenti filo-jihadisti». Sostiene che sono stati «i funzionari del Viminale a spiegarlo ai giudici, ma loro non ne hanno tenuto conto».
Il riferimento è al capo di gabinetto e alla responsabile del Dipartimento immigrazione che sono stati interrogati nel corso dell’istruttoria. In realtà nella relazione inviata in Parlamento dal Tribunale dei ministri è scritto: «Nessuno dei soggetti ascoltati da questo Tribunale ha riferito (come avvenuto invece per altri sbarchi) di informazioni sulla possibile presenza, tra i soggetti soccorsi, di “persone pericolose” per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionale».
L’accusa di sequestro di persona viene contestata perché «alle ore 22.30 del 17 agosto 2018, Salvini bloccava la procedura di sbarco dei migranti, così determinando consapevolmente l’illegittima privazione della libertà personale di questi ultimi, costretti a rimanere in condizioni psico-fisiche critiche a bordo della nave Diciotti ormeggiata nel porto di Catania dalle ore 23.49 del 20 agosto e fino alla tarda serata del 25 agosto, momento in cui veniva autorizzato lo sbarco. Fatto aggravato all’essere stato commesso da un pubblico ufficiale e con abuso dei poteri inerenti alle funzioni esercitate, nonché per essere stato commesso anche in danno di soggetti minori di età».
«Rischio terrorismo»
«Decisione collegiale, a bordo rischio terroristi»
Il testo scritto assieme alla ministra Bongiorno
La replica di Salvini si concentra proprio sulle procedure, sostenendo che «il 22 agosto, quando fu dato il via libera allo sbarco dei minori gli extracomunitari decisero di restare volontariamente a bordo per terminare un rito religioso per circa due ore, dalle 20.30 alle 22.30 e questo dimostra che non erano affatto stremati». Ma poi evidenzia come la maggior parte «ha rifiutato di entrare nelle strutture di accoglienza e si è trasferito in altre città, tanto che qualcuno è stato rintracciato a Roma tra gli occupanti del “Baobab”».
Su indicazione della Bongiorno, il ministro dell’Interno punta sul fatto che «la scelta politica è stata condivisa all’intero governo», facendo evidentemente riferimento al titolare delle Infrastrutture Danilo Toninelli che ha sempre subito le scelte del Viminale, al vicepremier Luigi Di Maio e allo stesso presidente del Consiglio Giuseppe Conte che non è intervenuto se non dopo aver ottenuto dall’Ue la distribuzione degli stranieri. E in questo modo sembra voler lanciare un messaggio ai 5 Stelle che sono divisi sulla possibilità di concedere il via libera all’autorizzazione a procedere nonostante lo stesso Salvini abbia chiesto in maniera netta un voto contrario e la Lega abbia parlato di «processo al governo».
La frecciata lanciata da Bongiorno è diretta: «Mi sento molto tranquilla. Le scelte fatte da Salvini non sono state fatte privatamente, ma da un governo che ha fatto della lotta all’immigrazione uno dei punti salienti della propria attività istituzionale».

Repubblica 6.2.19
Ungheria
Patria e culto del premier nei nuovi libri di scuola domina la dottrina Orbán
di Andrea Tarquini


BERLINO Nei libri di testo dall’ottavo anno, l’eroe contemporaneo è il premier Viktor Orbán: pagine importanti lo mostrano mentre viene ricevuto dal Papa, o mentre inaugura nuovi ponti. Le sue idee contro la migrazione sono sottolineate a ogni passo: «Consideriamo l’omogeneità della nazione un valore importante», dicono le sue citazioni nei testi di storia per la scuola pubblica. Nella storia moderna, l’unica macchia nera nazionale è il periodo comunista, non la lunga dittatura di Horthy che nel 1920 introdusse le prime leggi razziali antisemite in Europa.
Al potere da quasi nove anni, eletto e rieletto trionfalmente tre volte, il governo sovranista ungherese ha avviato una profonda "riforma" della pubblica istruzione.
Il controllo pubblico sui testi è di fatto totale, il premier è lodato ai limiti del culto della personalità, i libri diffondono una sola Weltanschauung fondata su orgoglio nazionale e valori cristiani. Quasi un contraltare sovranista della famigerata "rivoluzione culturale" di Mao.
Non è bastato imporre la chiusura della Central European University, quella sponsorizzata da George Soros e ora trasferitasi a Vienna, né abolire corsi universitari sul gender, «perché secondo noi esistono solo due sessi e studi sui gender sono inutili per la formazione professionale» come dice il portavoce e spin doctor del governo, Zoltan Kovacs. Né la maggioranza si è fermata alle epurazioni accademiche del suo debutto, che sono costate la cattedra a nomi illustri come Agnes Heller accusata di malversazione per avere ordinato nuove traduzioni critiche di Socrate e Platone, o Gaspar Miklos Tamas. Adesso tutti i testi, dall’inizio della scuola alla maturità, spiegano la docente Ildikó Repászki e il direttore dell’associazione degli editori di testi scolastici András Romankovics, sono sottoposti al controllo dell’autorità statale Ofi (Centro di ricerca e sviluppo sull’educazione).
I libri non escono piú firmati da singoli autori, dice Romankovics cui dopo anni e anni di lavoro serio non è stata rinnovata la licenza di scrivere e pubblicare testi scolastici: vengono rivisti da gruppi di storici "sicuri". Ogni nuovo libro di testo è esaminato in un lungo processo. Sull’immigrazione viene dato spazio ai discorsi di Orbán per l’omogeneità etnica e contro il multiculturalismo, i problemi che causano l’immigrazione vengono ignorati. Testi scolastici per gli adolescenti esaltano il patriottismo giovanile, la voglia definita «maggioritaria» di vivere in patria e fondare famiglie, secondo i valori cristiani. Sul diffuso desiderio di giovani magiari di emigrare in Paesi democratici, domina invece il silenzio.

Repubblica 6.2.19
A Londra
Danneggiata a colpi di martello la tomba di Marx


Dopo le statue di Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill, imbrattate di vernice un mese fa a New Bond Street a Londra, è la volta della tomba di Karl Marx a Highgate, a nord della città.
Colpi di martello sulla lapide in marmo con i nomi del filosofo, della moglie e del nipote, hanno sfregiato per sempre uno dei monumenti britannici considerati di eccezionale interesse storico. Non è la prima volta che accade. Il memoriale nel passato è stato imbrattato di vernice e privato del busto di Marx, tirato giù a forza con alcune funi.

Il Fatto 6.2.19
Dossier Venezuela: la bussola della Costituzione
Ogni giorno un corteo. A Caracas e nelle altre città si susseguono le proteste contro il regime di Maduro: lui conta sui fedelissimi di Chavez
di Salvatore Cannavò


Proviamo a capirci di più di Venezuela e passiamo in rassegna alcune opinioni diffuse alla luce dei dati reali.
Riconoscere Guaidó Juan Guaidó, brillante e giovane leader dell’opposizione venezuelana viene in queste ore proclamato presidente non dal popolo venezuelano, che finora sull’argomento non si è espresso, ma dai governi del mondo occidentale. È stato riconosciuto da Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e da oltre metà dei Paesi Ue, da gran parte dei Paesi latinoamericani, Brasile in testa. Questo basta a farne un presidente legittimo? Questo il giuramento di Guaidó: “Oggi nella mia veste di presidente dell’Assemblea nazionale, invocando gli articoli della Costituzione (…) davanti a Dio onnipotente, giuro di assumere formalmente i poteri dell’esecutivo nazionale”. Guaidó si è proclamato “presidente ad interim” in quanto presidente dell’Assemblea nazionale – dominata dalle forze di opposizione – e dichiarando illegittimo l’attuale presidente Nicolas Maduro.
La legittimità di MaduroMaduro, come da Costituzione, è stato eletto presidente il 20 maggio 2018 (e, sempre da Costituzione, ha preso possesso dell’incarico il 10 gennaio) con il 70% dei voti. Alle urne si era recato il 46 per cento degli aventi diritto, ma la coalizione Mesa de la Unidad Democrática (Mud), di cui fa parte Guaidó, non aveva preso parte alle elezioni che non furono riconosciute né dagli Stati Uniti né dall’Unione europea (da questo punto di vista con una loro coerenza interna). Questo però non fa venire meno la validità del voto a norma costituzionale, nonostante l’esistenza di un forte conflitto politico e istituzionale (scatenato dallo stesso Maduro dopo l’elezione dell’Assemblea nazionale, in cui l’opposizione ottenne oltre il 60% dei voti e contro la quale Maduro si inventò l’Assemblea costituente, una sorta di “soviet” con scarsa efficacia).
L’articolo 233
Resta il fatto che l’articolo 233 della Costituzione venezuelana è molto chiaro rispetto alle cause di rimozione del presidente eletto: “Sono cause di impedimento permanente del presidente della Repubblica: la morte, la rinuncia o la destituzione decretata con sentenza dal Tribunale Supremo di Giustizia; l’incapacità fisica o mentale permanente accertata da una commissione medica designata dal Tribunale Supremo di Giustizia e con l’approvazione dell’Assemblea Nazionale; l’abbandono dell’incarico, dichiarato come tale dall’Assemblea Nazionale, e la revoca popolare del suo mandato”. Solo in tali casi si procede a una nuova elezione e “in attesa della presa di possesso dell’incarico del nuovo presidente, il presidente dell’Assemblea Nazionale svolge funzioni di presidente della Repubblica”. Quindi, a norma di Costituzione, Guaidó non ha alcun titolo. L’abbandono dell’incarico, “dichiarato dall’Assemblea” significa che l’abbandono è confermato dall’Assemblea e non imposto al presidente.
La crisi economica
Maduro, certamente, è un presidente fortemente “delegittimato” ma politicamente. Se si andasse a elezioni sarebbe certamente sfiduciato. Ma non succederebbe lo stesso anche a Macron?
La crisi economica è quella che ha sancito il fallimento della strategia di Maduro. Secondo i dati diffusi dalla Caritas venezuelana, l’iperinflazione entro fine anno rischia di raggiungere la cifra di 1.000.000%. L’87% delle famiglie è povero, il 90% dei trasporti paralizzato, l’acqua è fornita meno di tre giorni a settimana. Se Chávez aveva mobilitato la ricchezza nazionale a favore delle fasce più povere, con Maduro, complice il crollo del prezzo del petrolio, si è verificato il processo inverso con il salario minimo mensile sceso dai 300 dollari del 2014 a 1 dollaro di qualche mese fa.
L‘Italia e l’Europa
Per Matteo Salvini “l’Italia non ha fatto una bella figura”. La prima posizione della Farnesina, però, non è stata “filo-Maduro”: “Chiediamo una vera riconciliazione nazionale e iniziative costruttive che scongiurino sviluppi gravi e negativi, assicurino il rispetto dei diritti fondamentali e consentano un rapido ritorno alla legittimità democratica, garantita da nuove elezioni libere e trasparenti”. Nuove elezioni, quindi, come ha ribadito l’altra sera Palazzo Chigi. Dopo l’intervento del presidente della Repubblica, che ha invitato a scegliere tra “democrazia e violenza”, con una semplificazione eccessiva dello scontro in atto, il ministro Moavero Milanesi ha subito dichiarato la propria partecipazione al “Gruppo di contatto internazionale” che si riunirà domani in Uruguay.
Il “gruppo” riunirà rappresentanti di otto Stati europei (Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia e Regno Unito) e di quattro Paesi dell’America latina (Bolivia, Costa Rica, Ecuador e Uruguay) con l’obiettivo “di far aprire uno spazio politico”.
Diverso dal “gruppo di Lima” di cui fanno parte Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Guyana, Honduras, Panama, Paraguay, Perú e che ieri ha accolto tra le sue file anche Juan Guaidó ribadendo la linea di netta contrarietà al dialogo con Nicolas Maduro. Linea dura gradita agli Usa e a gran parte della Ue.

Il Fatto 6.2.14
L’anonimo ingegnere che sogna di portare la democrazia
di G.G.


Juan Guaidó era un liceale di neppure 16 anni quando Hugo Chavez divenne per la prima volta presidente del Venezuela: se vivi gli anni della formazione dentro un regime, o ne sei plagiato (e ne divieni un fan), oppure ne cresci viscerale oppositore. Guaidó, cattolico, ingegnere per formazione, è diventato il leader dell’opposizione ed è ora l’autoproclamato presidente del Venezuela, l’‘anti-Maduro’ delle piazze, ma anche l’uomo su cui punta l’America di Trump, che l’ha mandato avanti coprendogli le spalle.
A incidere sul carattere di Guaidó, più dell’ascesa alla presidenza di Chavez fu, pochi mesi dopo, nel dicembre del 1999, la tragedia di Vargas, lo stato costiero a nord di Caracas dov’è nato e cresciuto: le piogge torrenziali causarono alluvioni e fiumi di detriti, che uccisero decine di migliaia di persone – le vittime stimate furono tra le 10 e le 30 mila –, distrussero migliaia di abitazioni e portarono al collasso le infrastrutture di tutta l’area. Interi quartieri della capitale La Guaira, specie Los Corales, furono sepolti da una colata di fango alta tre metri e molte case furono strappate via dalla furia dell’Oceano. Paesi come Cerro Grande e Carmen de Uria sparirono completamente.
La tragedia colpì la famiglia Guaidó, classe media, padre pilota d’aereo, madre insegnante, 8 figli; e segnò Juan, che l’anno dopo si diplomò e diede una mano alla famiglia per rimettersi in sesto, prima di andare a studiare ingegneria industriale all’Università Cattolica Andrés Bello di Caracas, dove si laureò nel 2007, prima di specializzarsi alla George Washington University negli Stati Uniti.
La politica e l’‘anti-chavismo’ lo avevano già catturato: era in piazza con gli studenti venezuelani che contestavano il referendum costituzionale promosso dall’allora presidente Chavez. E, nel 2009, con Leopoldo Lopez, suo mentore, una delle icone dell’opposizione, ora agli arresti domiciliari, è tra i fondatori del partito Volontà Popolare, che si batte prima contro Chavez e poi contro Maduro.
Nel 2010 è eletto deputato del suo Stato e promuove indagini sulla corruzione del regime. Rieletto al Parlamento, è fra i protagonisti dello scontro fra l’Assemblea nazionale, di cui il 5 gennaio viene eletto presidente, e il regime, che ha nel frattempo esautorato il Parlamento e lo ha soppiantato, con l’avallo della Corte suprema, con un’assemblea costituente che deve scrivere la nuova Costituzione.
È a questo punto che Guaidó, nel frattempo sposatosi e divenuto padre d’una bimba, sale davvero alla ribalta: fino ad allora personaggio non notissimo nel Paese, acquisisce un ruolo da leader, grazie anche all’investitura di Lopez, che, bandito dalla politica, lo manda avanti al suo posto. Lui riesce a ridare unità e forza a un’opposizione divisa, nonostante la gente sia provata dalla crisi economica e fatichi a credere al cambiamento. In un comizio a Caracas l’11 gennaio definisce Maduro un usurpatore; e sempre a Caracas, il 23, s’autoproclama presidente del Venezuela: “Non siamo vittime, siamo sopravvissuti. E guideremo questo Paese verso la gloria che si merita”, dichiara. Può contare sull’appoggio della gente che lo circonda e sull’aiuto, umanitario e non solo, di Washington. Guaidó ha alcune cicatrici sul collo: sostiene che siano state provocate da proiettili di gomma sparati dalla polizia durante una manifestazione anti-governativa a Caracas nel 2017. Ci sarebbe pure un video del 13 gennaio, la cui autenticità è discussa, che mostrerebbe agenti che lo fermano per strada. L’ingegnere divenuto presidente è conscio di correre rischi, perché Maduro, che ha già esautorato il Parlamento, potrebbe dichiararne le scioglimento, arrestarlo e scatenare una repressione contro gli oppositori. Finora non è accaduto. Guaidó dice di cercare il consenso. Ma Maduro non gli tende la mano.

Corriere 6.2.19
L’intervista
«Pronto ad aiutare il Venezuela se entrambe le parti lo chiedono»
Papa Francesco: «Ad Abu Dhabi segnali di pace. Le suore violate? Il problema c’è»
dall’inviato ad Abu Dhabi Gian Guido Vecchi


«Ho visto un Paese moderno, mi ha colpito la pulizia della città. Un Paese accogliente che guarda al futuro. E aperto, non chiuso. Anche la religiosità è aperta, di dialogo, un islamismo fraterno e di pace…». Francesco raggiunge i giornalisti sull’aereo che dagli Emirati lo riporta a Roma. Ad Abu Dhabi, c’erano 180 mila fedeli dentro e fuori lo stadio per assistere alla prima, storica messa pubblica del primo Papa nella Penisola arabica. Bergoglio ha citato Francesco d’Assisi come modello dei rapporti con l’Islam: «Ai frati diede istruzioni su come recarsi presso i Saraceni e i non cristiani: “Che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani”».
Santità, Wojtyla evitò una guerra tra Argentina e Cile. Maduro le ha inviato una lettera chiedendo aiuto per il dialogo in Venezuela. È disponibile a una mediazione?
«Fu un atto coraggioso di Giovanni Paolo II. Ma ci sono piccoli passi iniziali, facilitatori, non solo del Vaticano ma di tutta la diplomazia, la vicinanza all’uno e all’altro per avviare una possibilità di dialogo: si fa così in diplomazia, la mediazione è l’ultimo passo. Prima del viaggio sapevo che sarebbe arrivata col plico diplomatico una lettera di Maduro, ancora non l’ho letta. Ma perché si faccia un passo, una mediazione, ci vuole la volontà di ambedue le parti, come nel caso di Argentina e Cile. La Santa Sede per il Venezuela è stata presente nel momento del dialogo con Zapatero e ha continuato. Ma lì è stato partorito un topolino: niente, fumo. Ora leggerò la lettera e vedrò cosa si può fare. Le condizioni siano chiare: che le parti lo chiedano».
Il viaggio è stato segnato dalla firma del documento sulla fraternità.
«È stato preparato con tanta riflessione, il grande Imam con la sua équipe e io con la mia. Abbiamo pregato tanto per riuscire a farlo, perché per me esiste un solo pericolo grande, in questo momento: la distruzione, la guerra, l’odio tra noi. E se noi credenti non siamo capaci di darci la mano, abbracciarci e pregare, la nostra fede sarà sconfitta».
Una parte dei cattolici la accusa di farsi strumentalizzare dai musulmani…
La condizione femminile
Il maltrattamento delle donne è un problema Oserei dire che l’umanità ancora non è maturata
«Ma non solo dai musulmani, mi accusano di farmi strumentalizzare da tutti, anche dai giornalisti! È parte del lavoro. Dal punto di vista cattolico il documento non si è schiodato di un millimetro dal Concilio. Se uno si sente male io lo capisco, non è una cosa di tutti giorni. Ma è un passo avanti. Anche nel mondo islamico ci saranno discrepanze, ma i processi maturano».
Il suo appello per la pace in Yemen: che reazioni ha ricevuto?
«Sul problema delle guerre: lei ne ha menzionata una. È difficile dare un’opinione dopo aver parlato con poche persone. Dirò che ho trovato buona volontà nell’avviare processi di pace».
La rivista femminile dell’«Osservatore Romano» ha denunciato l’abuso sessuale sulle donne consacrate da parte del clero. Affronterà questo problema?
«È vero, il maltrattamento delle donne è un problema. Oserei dire che l’umanità ancora non è maturata: la donna è considerata di “seconda classe”. È un problema culturale, in alcuni Paesi si arriva ai femminicidi. Sì, è vero, nella Chiesa ci sono stati sacerdoti e anche vescovi che hanno fatto questo. E io credo che si faccia ancora: non è che dal momento in cui tu te ne accorgi, finisce. È da tempo che ci stiamo lavorando. Abbiamo sospeso qualche chierico, sciolto qualche congregazione. Si deve fare qualcosa di più? Sì. Abbiamo la volontà? Sì. Ma è un cammino che viene da lontano. Benedetto XVI ha avuto il coraggio di fare tante cose su questo tema. Il folklore lo fa vedere come debole, ma di debole non ha niente È un uomo buono, un pezzo di pane è più cattivo di lui, ma è un uomo forte. Su questo problema io voglio andare avanti. Ci sono dei casi. Stiamo lavorando».

La Stampa 6.2.19
Bergoglio: “L’umanità non è maturata
Considera la donna di seconda classe”
di Domenico Agasso Jr


È vero, il problema esiste». Ci sono «suore che sono state abusate da preti e vescovi». Perde il sorriso e l’allegria papa Francesco quando riconosce che questa piaga «nella Chiesa c’è». Però, anche se occorre fare di più, «ci stiamo lavorando», assicura con sguardo determinato. Sull’aereo che lo riporta a Roma da Abu Dhabi, dopo la visita di tre giorni negli Emirati Arabi Uniti, nella tradizionale conferenza stampa il Pontefice affronta il tema esplosivo sollevato nei giorni scorsi dall’inserto femminile dell’Osservatore Romano, cogliendo l’occasione per elogiare la bontà di Ratzinger e la sua forza nell’affrontare il crimine degli abusi.
È densa di contenuti la conversazione di quarantacinque minuti di Bergoglio con i giornalisti. Legati al viaggio appena concluso altri argomenti trattati. «Ho trovato buona volontà», risponde sulle reazioni al suo appello per la pace in Yemen. Più volte si ritorna sullo storico documento sulla «Fratellanza umana» firmato ieri ad Abu Dhabi col grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyib.
Come sarà applicata la dichiarazione sulla fratellanza?
«Per me c’è un solo grande pericolo in questo momento: la distruzione, la guerra, l’odio fra noi. Se noi credenti non siamo capaci di darci la mano, abbracciarci e pregare, la nostra fede sarà sconfitta».
L’appello per la pace nello Yemen che reazioni ha ricevuto?
«Ho trovato buona volontà nell’avviare processi di pace».
Dopo la firma di ieri, secondo lei quali saranno le conseguenze nel mondo islamico, pensando soprattutto a Yemen e Siria? E quali tra i cattolici, visto che c’è una parte che accusa lei di farsi strumentalizzare dai musulmani?
«Mi accusano di farmi strumentalizzare, ma non solo dai musulmani! Da tutti, anche dai giornalisti! (ride, ndr). È parte del lavoro. Una cosa voglio dire e lo ribadisco: dal punto di vista cattolico il documento non è andato di un millimetro oltre il Concilio Vaticano II. Se qualcuno si sente male, lo capisco, non è una cosa di tutti i giorni. È accaduto anche a me. Ho letto una frase del documento che mi ha sorpreso e mi sono detto: non so se è sicura. Invece era una frase del Concilio! Nel mondo islamico ci sono diversi pareri. Ieri nel Consiglio dei saggi c’era almeno uno sciita e ha parlato bene. Ci saranno discrepanze tra loro… ma è un processo, i processi devono maturare».
Il Grande Imam Al-Tayyib ha sottolineato il tema dell’islamofobia. Perché non si è sentito dire qualcosa anche sulla persecuzione dei cristiani?
«Il documento è più di unità e di amicizia. Ma condanna la violenza e alcuni gruppi che si dicono islamici - anche se i saggi dicono che quello non è islam - e perseguitano i cristiani. Ricordo quel papà a Lesbos con i suoi bambini. Piangeva e mi ha detto: sono musulmano, mia moglie era cristiana e sono venuti i terroristi dell’Isis, hanno visto la sua croce, le hanno chiesto di convertirsi e dopo il suo rifiuto l’hanno sgozzata davanti a me. Questo è il pane quotidiano dei gruppi terroristici. Perciò il documento è di forte condanna».
La rivista femminile dell’Osservatore Romano ha denunciato l’abuso sessuale delle donne consacrate nella Chiesa da parte del clero. La Santa Sede farà qualcosa per affrontare questo problema?
«È vero, è un problema. Il maltrattamento delle donne è un problema. Io oserei dire che l’umanità ancora non ha maturato: la donna è considerata di “seconda classe”. Poi si arriva fino ai femminicidi. È vero, dentro la Chiesa ci sono stati dei chierici che hanno fatto questo. Ci sono stati sacerdoti e anche vescovi che hanno fatto quello. E io credo che si faccia ancora. È da tempo che stiamo lavorando in questo. Abbiamo sospeso qualche chierico, mandato via, e anche sciolto qualche congregazione religiosa femminile che era molto legata a questo fenomeno. Si deve fare qualcosa di più? Sì. Abbiamo la volontà? Sì. Ma è un cammino che viene da lontano. Papa Benedetto ha avuto il coraggio di sciogliere una congregazione femminile che era di un certo livello, perché c’era entrata questa schiavitù, persino sessuale, da parte dei chierici o da parte del fondatore. Vorrei sottolineare che Benedetto XVI ha avuto il coraggio di fare tante cose su questo tema. C’è un aneddoto: lui aveva tutte le carte su un’organizzazione religiosa che aveva dentro corruzione sessuale ed economica. Lui provava a parlarne ma c’erano dei filtri, non poteva arrivare. Alla fine il Papa, con la voglia di vedere la verità, ha fatto una riunione e Joseph Ratzinger se ne è andato lì con la cartella e tutte le sue carte. Quando è tornato, ha detto al suo segretario: mettila nell’archivio, ha vinto l’altro partito. Ma appena diventato Papa, la prima cosa che ha detto è stata: portami dall’archivio questo. Il folklore lo fa vedere come debole, ma di debole non ha niente. È un uomo buono, un pezzo di pane è più cattivo di lui, ma è un uomo forte».
L’intervista integrale su www.lastampa.it

Corriere 6.2.19
I cattolici in politica per costruire il futuro
In Italia la presenza di papa Francesco limita l’uso dei simboli religiosi da parte di Salvini
Nel cambio d’epoca che attraversiamo, è tornato centrale il rapporto tra politica e religione
di Mauro Magatti


Nelle ultime settimane, in occasione dei cento anni dell’appello ai liberi e forti di Sturzo, si è riacceso il dibattito sul ruolo dei cattolici in politica (Galli della Loggia e Panebianco sul Corriere ). Comunque la si pensi, il tema è oggi rilevante per almeno due ragioni. In primo luogo perché nell’Italia a pezzi di oggi il variegato mondo cattolico, nonostante la secolarizzazione incalzante, continua a essere — seppur tra mille difficoltà — una delle poche presenze rilevanti. E in secondo luogo perché, nel cambio d’epoca che stiamo attraversando, il rapporto tra politica e religione è tornato centrale. Nel post-2008, in un mondo diventato multipolare, la ricerca di un nuovo equilibrio tra identità cultuali e sviluppo tecno-economico spinge le diverse aree del pianeta a posizionarsi secondo una logica che ricorda da vicino le tesi dello Scontro delle civiltà di Samuel Huntington. Dove la dimensione religiosa è necessariamente tirata in ballo.
Non a caso, in Occidente, le varie forme della nuova destra (da Trump a Orbán a Bolsonaro) sono sostenute dall’ala più conservatrice del mondo cristiano. Un’alleanza teorizzata da Bannon e costruita contro due «nemici»: la cultura progressista (che ha il torto di combinare la fede nella innovazione tecnoscientifica con i diritti individuali); e il mondo islamico, storico avversario oggi accusato di minacciare la cristianità attraverso l’immigrazione e il terrorismo. La «democrazia illiberale» di cui parla Orbán è il prodotto di una nuova «santa alleanza» tra politica e religione — da realizzare su base nazionale — per sconfiggere i due avversari sopra richiamati. La capacità di mobilitare i fermenti identitari di parte del mondo religioso costituisce un elemento importante nella spiegazione dell’avanzata dei nuovi partiti sovranisti.
In Italia la presenza di papa Francesco — con i conseguenti orientamenti della Cei — ha finora limitato l’uso da parte di Salvini dei simboli religiosi. Ma sotto la cenere, la brace brucia.
Cento anni fa, col suo appello, Sturzo tentò di radunare le forze cattoliche per evitare la dissoluzione della democrazia, stretta tra le destre emergenti e le sterili convulsioni della sinistra. Oggi in Italia, in Europa, in Occidente, quel bisogno si ripropone: come allora, il disordine mondiale sta risucchiando gli strati popolari su posizioni estremiste. Col consenso di quella parte del mondo religioso che spera in una rivincita nei confronti della secolarizzazione.
Rispetto a 100 anni fa, si possono notare una somiglianza e una differenza.
Sturzo fu il prodotto più maturo della lettura che l’Enciclica Rerum Novarum aveva offerto dei grandi cambiamenti prodotti dall’industrializzazione. Come allora, anche oggi il mondo cattolico ha a disposizione un testo (Laudato si’) che per ampiezza e ricchezza è in grado di fornire la cornice di riferimento per l’azione negli ambiti economico, sociale e politico. La differenza è che l’Appello a i liberi e forti arrivò dopo più di 20 anni spesi ad animare la presenza civile dei cattolici. Vero e proprio tirocinio nella carne delle società, che permise a Sturzo di maturare una concezione politica realista e vicina ai problemi reali delle persone.
Per quanto nel Paese ci sia molto di più di quello che emerge nella comunicazione pubblica, e per quanto molto di questo nuovo venga proprio dalla radice cattolica, c’è da domandarsi se sia già il tempo di serrare le fila o se non sia invece il momento di lavorare con più determinazione a innovare i processi dell’economia, della società, dei territori in modo da maturare i termini di una proposta adeguata ai tempi che viviamo.
Inutile cercare si rispondere in astratto a questa domanda. Quello che occorre fare è partire subito e comunque dalla società: ascoltando i bisogni e i sogni del «popolo» (termine caro a papa Francesco) e orientandoli nella direzione indicata dalla Laudato si’. E cercando poi di capire, strada facendo, quale siano i modi e le forme più adatte per contribuire al rilancio del Paese.
Quel che deve essere chiaro è che un impegno dei cattolici in politica, oggi come 100 anni fa, non riguarda la difesa di un’identità o di interessi di parte. Riguarda invece la capacità di questo sguardo sul mondo di immaginare una via d’uscita dalla crisi nella quale le società avanzate si trovano oggi. Nella convinzione che la radice cristiana abbia qualcosa da dire sul futuro e non solo sul passato.
Fu questa la grande sfida di Sturzo, che, nonostante le sue personali traversie politiche, alla fine portò frutti importanti. Il suo lavoro sul campo e la sua ispirazione politica furono infatti decisivi per la nascita dei partiti di ispirazione cristiana che, nel dopoguerra, ebbero un ruolo importante a livello internazionale.
Circa un eventuale ritorno dell’impegno dei cattolici in politica, sarà dunque di questo che si dovrà parlare: lo sguardo cristiano è capace di dire una parola nuova sulla crisi del mondo contemporaneo? Di costruire un consenso, ben al di là dei propri confini identitari, attorno alle linee tracciate dalla Laudato si’? Di essere voce di quei radicamenti concreti (nel mondo dell’impresa, della ricerca, delle professioni, del sociale e così via) da cui trarre anche quella classe dirigente di cui tutti sentono la mancanza?

Repubblica 6.2.19
"Ci sono abusi sulle suore" L’ammissione di Francesco è un atto di accusa alla Chiesa
Il Papa parla apertamente di violenze di preti e vescovi: "Succede ancora" Uno scandalo figlio di una cultura che considera le donne " di seconda classe"
di Paolo Rodari


ABU DHABI Suore violentate da preti e vescovi, abusi di potere, di coscienza e anche sessuali. È l’ammissione shock di papa Francesco nella conferenza stampa tenuta sul volo della Etihad che da Abu Dhabi lo riporta a Roma. Della cosa ne ha parlato qualche giorno fa l’inserto femminile dell’Osservatore Romano. E Bergoglio, a sole due settimane dal summit che avrà luogo in Vaticano dedicato agli abusi su minori da parte dei preti, conferma: «Il problema esiste nella Chiesa » , dice. E parla apertamente non solo di sacerdoti, ma anche vescovi che hanno abusato di donne consacrate a Dio: «Io credo che si faccia ancora, ma ci stiamo lavorando».
La rivelazione del Papa tocca anche il suo predecessore Benedetto XVI. Quando era ancora cardinale, infatti, Joseph Ratzinger conosceva il problema in particolare esistente in una Congregazione francese — anche se Bergoglio non l’ha citata esplicitamente — chiamata Comunità di San Giovanni e fondata dal padre domenicano Marie- Dominique Philippe nel 1975. Dal 1996 la Congregazione è stata oggetto di critiche per metodi giudicati da alcune associazioni religiose del Paese settari, con pressioni psicologiche sulle consacrate. Ratzinger, racconta Francesco, provò a intervenire, ma non vi riuscì tanto che disse al suo segretario di allora, Tarcisio Bertone, di mettere via la cartella con tutto l’incartamento: « Mettila nell’archivio, ha vinto l’altro partito » , disse. Anche se poi, una volta divenuto Papa, si fece riportare l’archivio e riuscì a intervenire.
Francesco dice che il problema è esistente ancora oggi in diverse parti del mondo. «Abbiamo sospeso qualche chierico — dice — mandato via per questo». Ma molto c’è da fare. Tante volte i fondatori di congregazioni femminili tolgono libertà alle suore, «svuotano di libertà le suore » arrivando anche ad abusare di loro. Il problema nella Chiesa è figlio, sostiene il Papa, di una cultura generale per le quale le donne ancora oggi sono considerate « di seconda classe » , tanto che sovente avvengono casi di «femminicidio».
Che sia su minori o su suore consacrate, per Francesco il problema parte all’origine sempre come abuso di potere. Sovente chi è abusato subisce il carisma del suo carnefice, ne è assoggettato in coscienza, un crimine diffusissimo nella Chiesa cattolica, in gruppi al limite del fanatismo ma anche in singoli sacerdoti ai quali viene data un’autorità della quale non sono minimamente degni. La strada della pulizia sembra essere ancora lunga. E che sia così lo dice il motivo per il quale il summit di febbraio sugli abusi è stato convocato: far sì che sia anzitutto la Chiesa a rendersi conto della gravità degli abusi. Sono troppi, infatti, i vescovi che minimizzano, gli uomini delle gerarchie con una mentalità che ancora spinge all’insabbiamento.
L’ultimo scandalo in questo senso riguarda la Chiesa cattolica in India. Sono venute alla luce violenze subite dalle suore ad opera di alcuni sacerdoti, e persino di un vescovo, che sono durate più di dieci anni. Le suore hanno descritto nei dettagli le violenze subite. Una di loro, una 44enne, ha presentato la scorsa estate una denuncia ufficiale alla polizia nei confronti del vescovo del Kerala che controlla il suo ordine, accusandolo di averla violentata tredici volte in due anni, dopo che i funzionari della Chiesa, ai quali pure si era rivolta, non le avevano dato alcuna risposta.

Corriere 6.2.19
Il 16 febbraio all’Università Statale di Milano il Forum di psicoanalisi
Le due passioni che dividono l’Europa
di Silvia Vegetti Finzi


Amore e odio per l’Europa, il titolo del Forum Europeo che si terrà sabato 16 febbraio presso l’Università Statale di Milano per iniziativa della Scuola lacaniana di psicoanalisi, introduce nell’acceso dibattito tra europeisti e nazionalisti due termini inattesi, che appartengono al catalogo delle passioni più che al calcolo delle ragioni. Un’antinomia originaria che incrina la nascita stessa dell’Unione Europea.
Non dimentichiamo che l’ideale europeista nasce nel 1941, a Ventotene, dalla fantasia utopica di due condannati al confino per antifascismo, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi in collaborazione con Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann. Dall’esilio, i padri fondatori redigono un documento che affida all’Europa la realizzazione degli ideali di pace, libertà e giustizia travolti dalla guerra. Ma quando, nel 1950, si attua la prima forma di coesione, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), sarà un patto meramente economico, una «fusione a freddo» che lascerà estranea e indifferente l’opinione pubblica, rendendo fragile e incompiuto il progetto unitario.
Tuttavia solo la crisi economica e l’impossibilità di contenere i flussi migratori riveleranno, all’inizio di questo secolo, il potenziale passionale celato dall’indifferenza.
Sull’onda di vecchie e nuove formazioni politiche e il riemergere di termini desueti quali «populismo» e «sovranismo», il disinteresse iniziale si frantuma lasciando emergere contraddittorie dinamiche di amore e odio, speranza e paura. Un coagulo di passioni che, nel corso dei lavori, gli psicoanalisti intendono analizzare dialogando con storici, filosofi ed economisti, nonché con i rappresentanti di varie istituzioni culturali.
Come suggerisce Marco Focchi, direttore del Forum: «Senza il collante dell’ideale, che convoglia i sentimenti ambivalenti mettendo a profitto l’amore ed economizzando l’odio come energia trasformativa, le passioni tracimano, si scatenano incontrollate, creano correnti alternative, attriti, collisioni, incontri cercati e al tempo stesso rifuggiti».
Per uscire da un’implosione che immobilizza e corrode, la psicoanalisi propone di riconoscere la coesistenza dei contrari che Lacan chiama hainamoration: una commistione di odio che divide e di amore che unisce, finalizzata a mantenere la giusta distanza tra Sé e l’Altro. Ove l’altro è anche una parte di me, la componente oscura di cui liberarmi e che, proiettata sull’estraneo lo rende, in quanto ricettacolo del negativo, sconosciuto e minaccioso. Si stabilisce così, nella logica speculare dell’inconscio, un’inversione paradossale: non sono io che odio l’altro, è l’altro che odia me. In un clima diffuso di sospetto e ostilità, non basta tuttavia la buona volontà per realizzare un buon uso delle passioni.
Tanto più in presenza di una profonda dissimmetria tra l’inconsistenza dell’Europa, sentita come un’istituzione algida e lontana, e una immagine del nostro Paese calda e condivisa, radicata nella temperie collettiva del Risorgimento e della Prima guerra mondiale. I nostri ragazzi crescono circondati da simboli e narrazioni — vie, lapidi, monumenti, musica e teatro — che rammemorano e celebrano fatti ed eroi di quelle storiche imprese. Nulla di simile per quanto riguarda l’Europa: se l’Italia rappresenta la madre patria, l’Europa evoca la matrigna che vorrebbe usurparne il posto. Come far coesistere due figure così eterogenee? Mentre l’una appare unitaria e coesa (una lingua, un suolo, una Legge), l’altra si presenta come polimorfa, composita e conflittuale, aliena.
Poiché ogni epoca storica si caratterizza per un problema da affrontare, alla nostra si chiede soprattutto di declinare uguaglianza e differenza fondendole in modo che l’amore prevalga sull’odio, l’unione sulla divisione. Ma perché quell’alchimia possa avvenire è necessario promuovere, in nome dell’Europa, una cultura diffusa e una formazione delle nuove generazioni all’altezza della sfida che le attende.

La Stampa 6.2.19
Alexandria Ocasio-Cortez
“Nessun compromesso con Trump
Solo così potremo sconfiggerlo”
30 anni, è stata eletta al Congresso per i democratici il 6 novembre 2018 al termine delle elezioni di midterm
di Paolo Mastrolilli


«Nessun compromesso con Trump. Solo così lo batteremo nel 2020».
Sono le nove del mattino all’aeroporto La Guardia, e mi sto imbarcando sul volo per andare a Washington a seguire il discorso sullo stato dell’Unione. Davanti a me c’è una ragazza minuta, con scarpe da ginnastica, cappotto e leggings neri, e un cappello di lana grigio calato sulla fronte fino agli occhiali.
Nelle mani stringe un bicchiere di cartone per il caffè. A vederla così, nessuno sospetterebbe che si tratta del fenomeno politico del momento negli Stati Uniti. Ma a sorprendere è soprattutto la gentilezza con cui Alexandria Ocasio-Cortez accetta di fare una chiacchierata, in attesa dell’imbarco.
Cosa si aspetta da Trump nel suo discorso sullo stato dell’Unione?
«Niente di nuovo. Dirà che vuole collaborare, ma sono offerte vuote. Insisterà sul muro al confine col Messico, e su tutte le sue posizioni che non hanno alcun senso pratico».
Cosa succederà il 15 febbraio, quando scadrà il provvedimento che avete approvato per riaprire le attività dello stato dopo la serrata?
«Dovreste chiederlo a lui, che mentre sono ancora in corso i colloqui tra repubblicani e democratici per discutere cosa fare sul tema immigrazione e sicurezza, già minaccia una nuova serrata, o la proclamazione dello stato d’emergenza».
Come dovrebbero rispondere i democratici?
«Tra i miei compagni di partito sento troppe voci inclini al compromesso, e penso che sia un atteggiamento sbagliato. L’ultimo shutdown è stato molto doloroso per Trump, che non ha ottenuto nulla di quanto voleva, e ha perso popolarità nei sondaggi. Ciò è accaduto perché la posizione ferma presa dai democratici non era solo conveniente sul piano politico, ma anche giusta nella sostanza e condivisa dalla maggioranza degli americani. Se Trump vuole davvero provocare un altro shutdown, o proclamare l’emergenza nazionale, non dobbiamo andargli incontro. Proceda pure, e si farà ancora più male».
Questa linea intransigente andrà seguita anche nella campagna per le presidenziali dell’anno prossimo?
«Esiste una possibilità concreta di sconfiggere politicamente Trump, senza pensare alle inchieste giudiziarie. Lo ha dimostrato il risultato delle elezioni di midterm, dove i repubblicani hanno perso gli Stati chiave del 2016, cioè Pennsylvania, Michigan, Wisconsin. Ciò è successo perché la nostra base è tornata a votare in massa, motivata dalle politiche sbagliate di Trump, e dalle proposte dei nostri candidati. Seguendo questa strada, possiamo batterlo anche nel 2020».
Lei sa che nei sondaggi molti elettori democratici vorrebbero candidarla alle presidenziali?
«Non ho neanche l’età legale per farlo».
E allora su chi bisogna puntare, nell’affollatissimo gruppo dei candidati già in corsa?
«Dobbiamo scegliere una persona coraggiosa, determinata a promuovere le idee che distinguono il Partito democratico su temi come l’uguaglianza, la sanità, l’istruzione, la politica fiscale e la difesa dell’ambiente».
Perciò l’accusano di essere una socialista irresponsabile, che vuole alzare le tasse al 70%, usando toni anche violenti.
«È dura, molto dura. Io però sto solo cercando di ristabilire il principio fondante dell’uguaglianza negli Stati Uniti, dove tutti abbiamo gli stessi diritti e le stesse opportunità».
Sa di essere diventata un fenomeno anche all’estero?
«Davvero?».
Noi su La Stampa abbiamo pubblicato il suo primo profilo durante le primarie.
«Oddio. Devo ammettere che tutta questa attenzione è stressante, molto stressante. Però io cerco di restare con i piedi per terra».

La Stampa 6.2.19
A Frascati caccia all’altro fotone per snidare la materia oscura
di Valentina Arcovio


Fisica astroparticellare. È la strada, forse, che porterà a stanare la materia oscura. Questa disciplina, nata dall’incontro tra studiosi dell’infinitamente piccolo e studiosi dell’infinitamente grande, tra fisici delle particelle e astrofisici, potrebbe risolvere uno dei maggiori misteri dell’Universo.
Si ipotizza che la materia oscura costituisca oltre l’85% della massa del cosmo. «Ma non sappiamo come è fatta o che aspetto hanno le sue particelle», conferma Antonio Masiero, vicepresidente dell’Infn. Per una sfida così ardua si è quindi deciso di unire le forze: è nato l’Institute for Fundamental Physics of the Universe (Ifpu), con sede nella Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, la Sissa di Trieste.
Il nuovo istituto nasce dall’accordo di quattro importanti istituzioni: oltre la Sissa, l’Abdus Salam International Centre for Theoretical Physics (sempre di Trieste), l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e l’Istituto Nazionale di Astrofisica. «È importante sottolineare l’aspetto interdisciplinare dell’iniziativa, che avrà nella raccolta e nella comprensione dei dati, organizzati con algoritmi innovativi, un punto di forza», aggiunge Stefano Ruffo, direttore della Sissa.
Ma per cercare un fantasma si procede per tentativi. Nel Modello Standard, la principale teoria fisica, non c’è spazio per la materia oscura. In una serie di nuove teorie sì, anche se non sappiamo ancora quale sia quella giusta. Nell’esperimento «Padme» (acronimo di «Positron Annihilation into Dark Matter Experiment»), da poco inaugurato nei Laboratori di Frascati dell’Infn, si ipotizza che la materia oscura risponda a un nuovo tipo di forza, una quinta, che non rientra tra le quattro fondamentali (elettromagnetica, debole, forte e gravitazionale). A questa è associata una particella messaggera, il «fotone oscuro», che a differenza del fotone ordinario sarebbe dotato di una piccola massa. Con «Padme» la caccia avverrà facendo scontrare positroni, le antiparticelle degli elettroni: lì verranno prodotte altre particelle e i fisici sperano di trovare indizi anche dell’esistenza del fotone oscuro.
Il cuore del test, costruito a Lecce da Università del Salento e Infn, è un bersaglio di diamante. Quanto all’esito, si dovrà attendere la fine dell’anno. «Avremo bisogno della collaborazione tra fisici teorici e fisici sperimentali - sottolinea Masiero -: i primi interpreteranno i risultati, i secondi le verificheranno».

La Stampa 6.2.19
La protesta dei giovani medici
“Il numero chiuso deve restare”
di Nicola Pinna


Loro direbbero che la cura non è quella giusta. Anzi, che la terapia prescritta rischia di essere persino più dannosa del male iniziale. Il caso da affrontare è la carenza di specialisti negli ospedali italiani e la diagnosi dei medici non sembra coincidere con la ricetta del governo. La situazione si è già incancrenita e nel giro di pochi anni rischia persino di aggravarsi. Già ora in diverse città italiane ci sono medici generici che ogni giorno si devono occupare anche di situazioni che richiederebbero il consulto di un esperto del settore. La soluzione prospettata è la cancellazione del numero chiuso per l’accesso alla facoltà di medicina e in Parlamento ci sono già alcuni disegni di legge. Il governo gialloverde sembra sostenere l’idea e il ministro della Salute Giulia Grillo lo ha ribadito anche ieri: «Lo sbarramento non è più adeguato ai tempi, bisogna rivederlo».
Qui dunque si gioca lo scontro, perché i medici contestano il piano. E per spiegare anche al ministro la loro protesta hanno iniziato a inviare a Roma migliaia di lettere-appello per chiedere una diversa riforma. La loro soluzione, invece, riguarda direttamente le scuole di specializzazione, che rappresentano il secondo sbarramento per chi intraprende questo percorso professionale.
«Lo scorso anno i posti disponibili nelle scuole erano 6996 ma i pretendenti più di 16 mila - denuncia Massimo Minerva, medico milanese che ha costituito l’associazione “Liberi specializzandi” con migliaia di giovani iscritti da tutta Italia - Questo vuol dire che in 10 mila sono rimasti fuori e si ritrovano col percorso bloccato. Se si vuole risolvere il problema delle carenze basta aumentare i posti disponibili e nel giro di pochi anni avremo tanti medici pronti per i reparti».
Il problema è sempre economico, perché ogni iscritto alle scuole di specializzazione costa allo Stato circa 1700 euro netti al mese. «Ma è paradossale - sottolinea Minerva - che i posti non siano proporzionati a quelli dei laureati, come avviene negli altri stati europei». Per il 2019 ci saranno 900 borse aggiuntive ma il “no” alla riforma del numero chiuso sembra chiaro. «Se si aumenta il numero dei laureati, si rischia che molte più persone restino senza la specializzazione - racconta Francesca, romana che si è dovuta trasferire in Francia per fare l’ultimo percorso di studi - Finché non si aumentano le borse per l’accesso alle scuole non si risolve il problema della sanità. Continueremo ad avere un esercito di laureati che non possono entrare in servizio».
Perché la specializzazione (un corso che dura tra i 4 e i 5 anni) non è un vezzo: è il titolo indispensabile per lavorare negli ospedali, a iniziare dai pronto soccorso dove oggi si registra una delle carenze più gravi.
La situazione degli ospedali rischia di complicarsi ulteriormente. Entro il 2025 si prevede che in 47 mila andranno in pensione e con le novità di “quota 100” il numero sarà persino più alto. Se ogni anno si sfornano solo 4 mila specialisti, il saldo è evidentemente negativo. «Nel 2021 le cose si complicheranno - racconta Antonio, medico torinese che da due anni tenta inutilmente di iniziare la specializzazione - Tra due anni ci saranno 16 mila laureati, cioè il doppio rispetto alla media attuale. Già in quel momento vedremo che cosa potrebbe succedere senza il numero chiuso». «Se si rendesse libero l’accesso alla facoltà - aggiunge Roberta, 35enne che sogna la specializzazione a Sassari - i nuovi medici entrerebbero in servizio non prima del 2030. Ora noi stiamo salvando il sistema sanitario, visto che in quasi tutte le regioni ci fanno lavorare nei reparti anche senza specializzazione».

Corriere 6.2.19
Caso Englaro e fine vita:
Speciale Mentana
di Maria Volpe

Coraggioso Enrico Mentana (foto) a sfidare il Festival di Sanremo. Del resto c’è una fetta di pubblico che non ama la kermesse e cerca alternative. Questo speciale tratta un tema delicato e serio: il fine vita. Viene ricordata la storia di Eluana Englaro, la ragazza di Lecco morta dopo 17 anni di coma vegetativo il 9 febbraio del 2009, in seguito all’interruzione dell’alimentazione artificiale, chiesta dal papà Beppino Englaro, un uomo con una grande dignità. La morte di Eluana divenne un caso politico, divise l’Italia.
Bersaglio mobile: Eluana, una storia italiana


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