Il Fatto 5.2.19
Romolo e Remo diventano re di Bollywood
di Pietrangelo Buttafuoco
Il
primo vero Re è Remo, Romolo ne eredita il regno. Tante sono le
possibilità di lettura de Il Primo Re, il film di Matteo Rovere con
Alessandro Borghi e Alessio Lapice, ma nell’Italia dei Remolo &
Romolo dell’indistinta apnea dei Sette Nani tutti ignoranti questa
pellicola informa in tema di origine e – in ragione del meritato
successo – dà forma alla possibilità di alzare il tiro: fare una
Bollywood nel Mediterraneo.
Come con Giovanni Paolo II che a fine
proiezione di The Passion di Mel Gibson – il film sul martirio di Gesù –
poté dire: “Racconta la Passione di Cristo per com’è veramente
accaduta”, con tutte le conseguenze politiche e teologiche, così oggi
con questo Re, con Roma che – va ricordato – preesiste al cristianesimo,
ci si restituisce alla fonte del sacro.
La tragedia di due
gemelli reciprocamente saldi nell’Orma Amor di Roma, costretti al
fratricidio per l’imperscrutabile volere del Divino, perpetua la luce di
Troia, la città di Enea, ed è il nostro Bhagavad-Gita se vale un tanto
quanto tra il deposito classico greco-romano e il lascito millenario
indiano tutto di commercio, industria e pop.
Quel tributo di
sangue sul limitare del Tevere – ancora prima di ciò che i cristiani
riconoscono nella Croce – è raccontato da Rovere per com’è veramente
accaduto nell’irruzione dell’Eterno nella storia. E non è una fola da
liceo, infatti, quella dei due orfani allevati dalla Lupa, bensì il
respiro a noi più prossimo, il canto rammemorante per tramite di
fotogramma senza più i peplum, senza i gladio di latta dei finti
centurioni, e con una Roma giammai romanesca, inedita e vera.
Non
c’è nulla in questo film che, con rispetto parlando, faccia pensare a
Francesco Totti, ad Alberto Sordi e tantomeno a Ridley Scott. Non c’è
niente di già visto ed è un Romulus perfetto questo dell’orfano che
ubbidisce agli Dei nel farsi assassino per come se l’immaginano al
mondo: un archetipo irresistibile in soldoni e non certo in erudizione.
Tra
i tanti piani di lettura del film che strappa applausi spontanei al
pubblico che magari nulla sa del fuoco di Vesta ce n’è dunque uno,
inaspettato, quello del suo esito commerciale. L’eleganza della
fotografia – tutta la malia di Daniele Ciprì – la scenografia
sfacciatamente anti-pittoresca e la recitazione degli attori (degna
della migliore scuola, quella dell’Inda, ovvero l’Istituto nazionale del
dramma antico di Siracusa, ben viva nella ipnotica presenza di Tania
Garibba, nel ruolo della vestale, o di Vincenzo Pirrotta) gettano le
premesse di un filone che non è un genere ma un preciso progetto
industriale: una Bollywood da realizzare in Italia, un centro di
produzione che sia tale e quale a quello di Mumbai, una fabbrica di
mobilitazione creativa inesauribile dell’audiovisivo che attinga, prima
che la scuola italiana ne faccia noia, alle risorse tutte trasfigurate
nell’immaginario.
Una strada oltretutto spianata nella solidità
fattuale di una geografia – è solo qui, non altrove – dove ambientare
quella parola viva che oggi cerca set, casting e scrittura quando
perfino molte produzioni italiane vanno ad adattarsi nel Maghreb, un
pochino nei Balcani e poi ancora nelle foreste d’Europa. Non era una
scena vichinga, per come segnalava ieri Repubblica, quella de Il Primo
Re. Era propriamente Farfa, era Viterbo, era un Lazio come solo il
numinoso sa rappresentare ed è la ghiotta unicità di un genius loci. Non
a caso si chiama “industria cinematografica”, ed è l’unica possibile
Fiat. È l’unico reddito derivato dalla cittadinanza – per sceneggiatori,
attrezzisti, tecnici per così mettere a frutto – nel solco di una
scuola pubblica qual è l’Inda, una macchina teatrale sbanca botteghino –
quel vantaggio ereditato dal passato che ci procura il futuro. È
industria di Stato. “Ed è quello che la Rai, per esempio”, mi dice
Giancarlo Cancelleri, leader del M5S a Palermo, “proprio qui, in
Sicilia, può già fare”.