Corriere 5.2.19
Al Museo Egizio Cinquant’anni fa il «trasloco» del faraone a opera di Salini Impregilo. Un libro ricorda l’impresa
Abu Simbel, la sfida italiana che mise in salvo i templi di Ramses
di Cecilia Bressanelli
Torino
Tra il 1964 e il ’68 i templi di Abu Simbel vennero smontati e
rimontati 180 metri più indietro e 65 metri più in alto, per essere
salvati dalle acque della diga di Assuan che avrebbero sommerso gran
parte del patrimonio archeologico delle Nubia tra Egitto e Sudan. Il 22
settembre 1968, grazie a una grande opera di ingegneria che coinvolse un
consorzio europeo e attirò l’interesse di tutto il mondo, i due templi
fatti costruire nel XIII secolo a.C. dal faraone Ramses II si trovavano a
riparo nella nuova collocazione che conservava anche l’originale
orientamento rispetto agli astri.
Il gruppo Salini Impregilo — che
con la Impregilo fu una delle società protagoniste —, celebra il 50°
anniversario dell’impresa con il libro Nubiana. The great undertaking
that saved the temples of Abu Simbel, realizzato in collaborazione con
il Museo Egizio di Torino (edito da Rizzoli).
Il volume, che
mostra centinaia di immagini provenienti dall’archivio del gruppo,
infografiche ed esperienze in realtà aumentata (su smartphone si accede a
video e contenuti aggiuntivi), è stato presentato ieri a Torino
all’interno della Galleria dei Re del Museo Egizio, proprio accanto alla
statua del faraone Ramses II.
«Fu un lavoro visionario, che ha
rappresentato una frontiera nel nostro settore», ha affermato Pietro
Salini, ceo di Salini Impregilo, durante la presentazione. «Paesi da
tutto il mondo hanno unito le loro forze per salvare un patrimonio che
sentivano parte di una storia condivisa. Culture e capacità tecniche
uniche si sono unite per vincere una sfida per le generazioni future».
Tra
le sfingi e la statua del dio Ptah, sono intervenuti anche Evelina
Christillin, presidente della Fondazione Museo Egizio, e Christian
Greco, direttore del Museo. Christillin ha sottolineato come il volume
si inserisce nella «mission» del museo: «La ricerca fa vivere le nostre
collezioni». Greco — che con Beppe Mosio e Tommaso Montonati ha
contribuito alla parte storica del volume — ha ricordato di come, quando
l’Unesco nel 1960 lanciò l’appello per salvare il patrimonio della
Nubia, «l’Italia rispose pure con importanti campagne archeologiche a
cui partecipò anche il Museo Egizio sotto l’illuminata direzione di
Silvio Curto. Si dovette agire in fretta, molto fu salvato, ma molto
andò perduto. L’impresa faraonica di Abu Simbel ci ricorda che il
patrimonio culturale è di tutti; ma è fragile e richiede cura e ricerca
continue, anche con le più moderne tecnologie».
L’Unesco era
rappresentato ieri da Ana Luiza Thompson-Flores, direttore dell’Ufficio
regionale dell’Unesco per la Scienza e la Cultura in Europa. «Questo
intervento», ha ricordato, «rappresenta un esempio eccezionale di come
monumenti antichi possano essere consegnati ai posteri, grazie
all’azione della comunità internazionale».
Mentre la prima parte
di Nubiana è un viaggio nel passato ai tempi di Ramses II, nella seconda
— a cui si arriva dopo aver sfogliato gli acquerelli del taccuino di
Stefano Faravelli — sono descritti i dettagli della colossale impresa
che permise di spostare, dividendoli in 1.070 blocchi, i due templi
pesanti 265 mila e 55 mila tonnellate. Vennero coinvolti 2 mila
lavoratori, per un totale di 40 milioni di ore di lavoro (e un costo di
40 milioni di dollari). Impregilo si occupò dello smontaggio
coinvolgendo nel compito (svolto soprattutto a mano) alcuni marmisti di
Carrara. Tra loro Luciano Paoli, anche lui a Torino: «Quando sono
partito per Abu Simbel avevo 26 anni». Oggi ne ha 78. «Fu un’impresa
eccezionale, ma per noi non fu molto diverso dal tagliare il marmo».
Ogni Paese portò la sua esperienza. In una «catena internazionale» in
cui ognuno aveva il suo compito.