La Stampa 4.2.19
La ferita del mio amico Amos Oz
Yehoshua
ricorda lo scrittore scomparso e il dramma da cui fu segnato. Il
suicidio della madre come fonte creativa tra allusioni, compassione e
rabbia
«Aveva 12 anni quando lei si uccise. Ma quella tragedia non ebbe fretta di rivelarsi nei suoi libri»
di Abraham B. Yehoshua
Non
ricordo esattamente quando Amos Oz definì «ferita» la sorgente creativa
da cui lui e altri scrittori traggono ispirazione. Ricordo però
benissimo che io mi affrettai a dissociarmi da questa affermazione un
po’ generica, dicendo che non ravvisavo in me alcuna ferita che mi
spingesse a scrivere, malgrado capissi perfettamente la forza che la sua
biografia esercitava su di lui.
Ho l’impressione che questo
scambio di opinioni tra noi avesse a che fare con una discussione più
ampia, alla quale lui fece riferimento nel suo ultimo libro What is in
an apple [in corso di traduzione per Feltrinelli, ndr], nel quale
respinge esplicitamente la mia pretesa che la letteratura ponga in primo
piano anche conflitti morali. Per lui, dare vita a figure umane in
un’opera letteraria è di per sé un atto morale, mentre il dibattito su
temi etici va condotto con una «seconda penna», come definiva i suoi
interventi giornalistici. E in effetti, nei suoi testi ideologici e
politici, Amos esprimeva posizioni etiche forti, coraggiose e scevre da
eccessive semplificazioni
Saggezza letteraria
La «ferita»,
tuttavia, non ebbe fretta di rivelarsi nei suoi libri e, in
retrospettiva, Oz agì con saggezza letteraria. Il suicidio di un
genitore non è soltanto la rivelazione di un’effettiva debolezza di una
famiglia che getta un’ombra scura sui membri rimasti, ma sminuisce anche
il valore di un figlio o di una figlia, come se questi non valessero
abbastanza perché i genitori si mantengano in vita per loro. Una
«ferita» di questo genere viene quindi anche recepita come un grave
difetto, al punto che persino durante le nostre conversazioni intime,
quando l’amicizia tra noi si fece più stretta, Amos evitava di
parlarne.«Aveva 12 anni quando lei si uccise. Ma quella tragedia non
ebbe fretta di rivelarsi nei suoi libri»
Ma la morte della madre,
il suo suicidio, emergeva con lampi poco chiari e allusivi dalle
profondità della sua produzione letteraria e dal groviglio delle
situazioni immaginarie. Quasi fosse impossibile toccare quella ferita
senza approfondirne maggiormente le origini, la natura e tutto ciò che
l’avvolgeva. Ricordo che quando lessi dell’incidente di Ivria, la moglie
del protagonista morta fulminata all’inizio di Conoscere una donna, mi
dissi «ecco un primo segnale di avvicinamento alla ferita».
«Aspetta, ci sta arrivando»
Ma
era un avvicinamento ancora titubante, superficiale e privo di effetto.
E il fatto che in Fima il protagonista è orfano di madre non mi parve
sufficiente per ritenere che Oz fosse arrivato a toccare a fondo quella
ferita.
Avrebbe osato discendere ancor più in profondità e sondare
il trauma che, a suo dire, rappresentava la fonte principale della sua
scrittura? Ricordo che mia moglie Ika, sia benedetta la sua memoria, che
leggeva i romanzi di Oz in maniera più corretta e precisa di me, mi
disse: «Aspetta, ci sta arrivando, non deve correre. Per esprimere
compassione, ma anche rabbia, deve prima superare la vergogna».
Ed
è strano che il cammino verso il suicidio della madre in Una storia di
amore e di tenebra dovesse passare attraverso il lirismo di Lo stesso
mare, il libro che Oz amava più degli altri. Ed era incredibile anche
per lui, autore di prosa per eccellenza, riuscire a dedicarsi a un’età
avanzata ai toni lirici che avvolgevano la morte silenziosa di Nadia
Danon. Un lirismo che diluì un poco la rabbia che si portava ancora
dentro per la dipartita della madre. Ma in effetti Lo stesso mare - un
libro strano, ibrido e variegato, sul cui frontespizio Amos scrisse
nella dedica a me e a Ika: «Eccomi qui, di fronte a voi, il più vicino
possibile a quel posto tutto mio» - fu il testo che spianò la strada
alla grandiosa mimesi che ricostruì la storia della sua famiglia, della
sua infanzia e dell’ambiente in cui era cresciuto, comprese le origini
lituane della famiglia della madre grazie alle meravigliose
conversazioni che Amos ebbe con sua zia Sonia, un’autentica miniera
d’oro per lui.
Audace franchezza
Ritengo tuttavia che anche
la pubblicazione di Lacci d’amore, lo stupendo libro autobiografico di
Haim Be’er che precedette Una storia d’amore e di tenebra, diede a Oz il
coraggio di discendere negli abissi dell’infanzia per girare intorno,
con pignoleria e fedeltà (ma anche con umoristica gaiezza), alla madre,
al padre, e a tutta l’atmosfera della Gerusalemme della guerra di
indipendenza nel quartiere Kerem Avraham, e ricostruire minuziosamente
non solo i dettagli privati ma anche il clima storico e sociale in cui
la sua «ferita» si formò e si aprì. E di giungere con audace franchezza
alle pagine finali in cui la compassione, ma anche la rabbia, si
intrecciano, alimentandosi a vicenda nel modo più intenso e fedele
possibile: le ultime tre pagine, nelle quali è descritto con minuzia il
suicidio della madre e che ho letto il 1° febbraio durante la cerimonia
di commemorazione in suo ricordo al Teatro Cameri.—
Traduzione di Alessandra Shomroni