domenica 3 febbraio 2019

La Stampa 3.2.19
Operazione Abu Simbel
Così, nonostante la Guerra fredda, il mondo si unì per salvare i templi
di Maurizio Assalto


Fa effetto pensarci, in questo principio di mirabolante Terzo Millennio in cui le testimonianze più preziose del passato vengono saccheggiate o prese a cannonate o polverizzate sotto le bombe, da Bamiyan all’Iraq, dalla Siria al Kurdistan, sotto lo sguardo angosciato ma sostanzialmente impotente del mondo. Eppure nel vecchio millennio c’è stato un tempo - non tanto tempo fa, poco più di mezzo secolo, piena Guerra Fredda - in cui tutto il mondo fu capace di unirsi per un’impresa cultural-tecnologica senza precedenti, con un «nobile spirito di cooperazione che si manifestò in ogni campo», con un «aiuto materiale, finanziario e scientifico» che accomunò «Occidente e Oriente, uomini delle più diverse razze, fedi e convinzioni politiche»: sono parole di Sarwat Okasha, l’allora ministro della Cultura egiziano, nella cerimonia che annunciava il completamento dell’operazione di salvataggio dei templi di Abu Simbel. Era il 22 settembre 1968.
Sedici anni prima, Gamal Abdel Nasser, appena salito al potere con il golpe che spodestò re Faruq, aveva avviato il progetto della Alta Diga sul Nilo, nei pressi della prima cateratta, a Assuan. Avrebbe sostituito quella, ormai inadeguata, costruita a fine ’800 dagli inglesi sei chilometri più a valle. La nuova gigantesca opera - 111 metri di altezza per 3600 di lunghezza e 980 di larghezza alla base, 40 alla sommità - sarebbe servita a contrastare l’aridità di quella parte meridionale dell’Egitto, consentendo l’inondazione e quindi la coltivazione di diecimila chilometri quadrati di deserto, e incrementando nel contempo la produzione di energia idroelettrica. La realizzazione del progetto avrebbe comportato anche non indifferenti danni ambientali, tanto nella zona interessata quanto nel delta, ma non era questo il problema maggiore.
L’emergenza che fin da subito mobilitò la comunità archeologica internazionale era un’altra: il lago Nasser, il grande invaso artificiale di 550 chilometri di lunghezza creato dalla diga, da Assuan fino a oltrepassare i confini con il Sudan, avrebbe sommerso una quantità di tesori archeologici della Nubia, tra i quali i più rilevanti erano i due grandiosi templi rupestri di Abu Simbel, con le pareti interne ricoperte di splendide decorazioni a bassorilievo. Eretti nel XIII secolo a.C. da Ramesse II in onore di sé stesso e della Grande sposa reale Nefertari (oltreché degli dèi Horus e Hathor) per celebrare la (millantata) vittoria contro gli Ittiti nella battaglia di Qadesh, erano stati individuati nel 1813 dallo svizzero Johann Ludwig Burckhardt e violati per la prima volta quattro anni dopo dall’italiano Giovanni Battista Belzoni. Una meraviglia. Ma adesso si poneva il dilemma se conservare il passato o garantire il presente e il futuro alle popolazioni bisognose. Con molta buona volontà, le opposte esigenze si poterono contemperare.
I lavori per la diga partirono il 9 gennaio 1960. L’Egitto si rivolse all’Unesco, che l’8 marzo rispose con un appello lanciato dal suo direttore generale Vittorino Veronese per salvare i templi nubiani: «Il mondo intero ha diritto alla loro perennità perché sono parte di un patrimonio comune che comprende tanto il messaggio di Socrate quanto gli affreschi di Ajanta, le mura di Uxmal quanto le sinfonie di Beethoven. Ai monumenti di valore universale si deve una tutela universale».
All’appello rispose tra le prime la comunità egittologica italiana, con l’Università Statale di Milano e la Sapienza di Roma, con le iniziative personali di Sergio Bosticco (Università di Firenze) e di Edda Bresciani (Pisa), e soprattutto con il Museo Egizio di Torino, il cui direttore Silvio Curto avviò una vasta campagna di scavi in un’area poco conosciuta della Nubia. Il governo italiano stanziò per Abu Simbel 856.000 dollari, il terzo maggior contributo dopo quelli di Stati Uniti e Francia. Ma come procedere?
Le proposte per il salvataggio furono svariate e fantasiose. Qualcuno suggerì di lasciare i templi sott’acqua, protetti da cupole di calcestruzzo e accessibili per mezzo di ascensori incapsulati all’interno di condotti verticali, addirittura si fece avanti un produttore cinematografico americano, William MacQuitty, infatuato dal mito di Atlantide, che prevedeva di renderli visitabili attraverso gallerie subacquee. Alla fine prevalse l’idea di smontare i templi e spostarli 65 metri più in alto e 280 metri più all’interno, conservandone l’orientazione originaria rispetto agli astri e al sole, e ricostruendovi intorno una collina artificiale identica a quella originale. Un’operazione titanica, se si considera che il tempio più grande pesava 265 tonnellate e quello più piccolo 55. La realizzazione del progetto, messo a punto da un’azienda svedese, fu affidato all’italiana Impregilo (oggi Salini Impregilo, l’impresa che ricostruirà il Ponte Morandi di Genova, e che a 50 anni dalla conclusione dei lavori celebra il successo con un sontuoso volume edito da Rizzoli in collaborazione con il Museo Egizio di Torino, con belle immagini inedite, disegni esemplificativi e la possibilità di ulteriori informazioni grazie alla realtà aumentata).
All’impresa, del costo di 40 milioni di dollari, contribuirono con fondi e sostegno tecnico, oltre all’Italia, 113 Paesi di tutto il mondo, dagli Usa all’Argentina, dall’Austria al Belgio, alla Cecoslovacchia, le due Germanie, Gran Bretagna, Olanda, Polonia, Spagna, Svizzera, Jugoslavia, Urss, fino all’India e al Ghana. I lavori partirono il 16 luglio ’65, approfittando del basso livello estivo del Nilo. Dapprima si procedette a erigere una diga di sbarramento, per proteggere l’area archeologica dall’innalzamento delle acque. Quindi cominciò la delicata opera di smontaggio. I templi vennero sezionati in 1030 blocchi di 20-30 tonnellate ciascuno, numerati per identificarli e stoccati, in attesa di essere riassemblati come un gigantesco puzzle tridimensionale.
Fu una corsa contro il tempo, mentre il lago Nasser si ingrossava e allungava verso Sud: durò fino al ’68, con l’impiego di oltre duemila uomini, guidati da un gruppo di esperti cavatori di marmo italiani fatti venire appositamente da Carrara e dal Bresciano. Per non compromettere i monumenti non si utilizzarono esplosivi ma solo martelli pneumatici e seghe azionati a mano: tutti i macchinari arrivarono dall’Europa, via mare. Ricostruiti i templi, nei primi mesi del ’69 l’operazione fu coronata con la costruzione di una cupola di calcestruzzo armato al di sopra dei templi, in funzione protettiva e per dare forma alla collina artificiale a cui vennero addossati.
Come ricompensa per l’aiuto prestato, all’Italia andò il tempietto rupestre di Ellesiya, il più antico scavato nella Nubia, costruito da Thutmosi III nel 1430 a.C. e investigato da Silvio Curto durante le sue missioni. Sezionato a blocchi con la medesima tecnica impiegata a Abu Simbel, è stato rimontato al Museo Egizio di Torino, di cui è uno dei tesori più rilevanti. Altri quattro templi, non di età faraonica, furono donati alla Spagna, agli Stati Uniti, all’Olanda e alla Germania. Ma al di là delle ricompense materiali, e anche dei tesori archeologici che furono salvati, dell’impresa di allora resta la lezione: di quel che si può fare per il patrimonio culturale quando si è capaci di superare le divisioni, e di quel che può il patrimonio culturale per far ragionare il mondo.