Corriere 3.2.19
Anteprima
L’anima eterna di Adriano
Andrea Carandini: l’imperatore aveva una visione vicina alle credenze cristiane
Un volume firmato con Emanuele Papi (Utet) su uno dei più famosi sovrani dell’antica Roma
di Paolo Conti
L’archeologo
Andrea Carandini si confronta con Adriano, l’imperatore romano colto e
raffinatissimo che ha intrigato generazioni non solo di studiosi
dell’arte antica, ma anche di filosofi, di poeti, di teatranti, di
letterati (l’ovvio nome per tutti è quello di Marguerite Yourcenar). Ma
in questo suo Adriano. Roma e Atene edito da Utet (scritto con Emanuele
Papi, direttore della Scuola archeologica italiana ad Atene e che firma
la seconda parte del volume, dedicata appunto alla parte Adriano/Atene)
Carandini tiene saldamente le distanze da facili coinvolgimenti emotivi
per regalare al lettore, passo dopo passo, un ritratto documentato di un
politico titolare di «un principato eccellente», come scrive l’autore,
modernissimo nella sua concezione itinerante della gestione del potere
(«dove lui si trovava, lì era anche Roma, per cui Urbs e Orbis si
univano in lui grazie alla metafora suggestiva, che forse già circolava,
del foro di tutto il mondo»).
Una scelta politica ben precisa:
«Adriano lavorava all’impero come un architetto che dava una forma
riconoscibile, unitaria e perenne all’edificio-mondo che si era proposto
di costruire». Voleva essere un sovrano assoluto, «capace di imprimere
un ordine giuridico e amministrativo nel vasto impero». Dunque i suoi
lunghi viaggi lontano da Roma, visto il giudizio finale di «principato
eccellente», non erano sintomo di eccentrica noia esistenziale, ma
consapevole strumento di controllo dell’impero.
C’è di più.
Carandini, incontrando Adriano, propone un’ipotesi straordinariamente
suggestiva della sua concezione della morte verso la fine della vita. Il
punto di partenza sono i celeberrimi versi adrianei: «Animula, vagula,
blandula/ hospes comesque corporis,/ quo nunc abibis in loca,/
pallidula, rigida, nudula,/ nec ut soles dabis iocos» (che Carandini
così traduce: «Piccola anima smarritella e delicatella/ ospite e
compagna del corpo,/ verso quali luoghi ora te ne andrai,/ lividina,
intirizzita e nuderella;/ né più come solevi darai svaghi»). Adriano
anticipava i tempi anche qui: «Aveva una speciale e accresciuta speranza
di sopravvivere oltre la morte. Faceva comunque una differenza
immaginarsi ombra negli inferi dell’Acheronte e dell’Orco oppure anima
astrinfiammante in cielo». Ecco, qui entra in ballo il ragazzo-chiave
della vita di Adriano, ovviamente l’amato Antinoo: la sua anima, dopo la
misteriosa morte in Egitto, «aveva d’un tratto brillato nel notturno
cielo sopra il Nilo in forma di stella». Era la «collocazione tra gli
astri», ovvero il «catasterismo». Esattamente l’iconografia trovata
recentemente in un mosaico rinvenuto a Pompei dagli scavi voluti dal
direttore generale di quel parco archeologico, Massimo Osanna: il mitico
Orione assunto in cielo per diventare costellazione (ne ha scritto
Livia Capponi su «la Lettura» del 30 dicembre). L’iniziazione ai Misteri
Eleusini, racconta Carandini, la padronanza dell’astrologia e della
magia dei tempi condussero Adriano «alla sfera inusitata, interiore e
invisibile dell’anima». Addirittura consapevole che la sua condizione di
principe non fosse «abissalmente diversa da quella dell’uomo comune e
perfino dello schiavo, i quali anch’essi possedevano in loro un
frammento della divinità cosmica, luminosa ed eterna». In fondo Antinoo,
finito in cielo, era un uomo comune. Dunque, argomenta l’autore, «era
come se il mondo antico si stesse appropinquando passo passo a quella
uguaglianza etica di tutti gli uomini scoperta un secolo prima da un
oscuro falegname della Galilea». Infatti «la credenza in un eterno
futuro andava propagandosi nel mondo greco e romano».
C’è un’altra
ipotesi suggestiva proposta da Carandini. Chiunque abbia visitato San
Pietro a Roma avrà in mente lo strepitoso fonte battesimale in porfido
rosso nella navata sinistra firmato da Carlo Fontana. Per l’archeologo
quel pezzo unico è il coperchio rovesciato (e riutilizzato come fonte
battesimale nel 1698 da Fontana) del sepolcro di Adriano: il quale
avrebbe optato, sempre consapevolmente, per l’inumazione e non per la
tradizionale incinerazione. Prese le misure da Carandini, quel sarcofago
ora a San Pietro entra perfettamente nella nicchia centrale della
camera funeraria del sepolcro di Adriano «che sembra progettata
apposta». Insomma, dice l’autore, «Adriano ha segnato una grande ed
eccezionale discontinuità, a livello imperiale, sia nella concezione
dell’anima sia nel trattamento del corpo, contrario a quello della
tradizione romana, ripresa poi dai suoi successori».
La prosa di
Carandini è sempre intrigante e insieme chiara, non dialoga solo con gli
addetti ai lavori, ma anche col grande pubblico appassionato di Roma
antica. Un vasto corredo di immagini e tavole (lavoro coordinato da
Maria Cristina Capanna e da Maria Teresa D’Alessio) arricchisce un
viaggio alla scoperta di un Adriano nuovo, sottratto ai facili (e spesso
irritanti) stereotipi.