il manifesto 3.2.19
L’Aristotele di Lanza e Vegetti, corpo dell’animale e lettura marxista
Pensiero
antico. Bompiani riedita l’esemplare edizione delle Opere biologiche
del filosofo che i due antichisti curarono per la Utet nel 1971: un
lavoro scientifico di rottura
di Massimo Stella
La
riedizione delle Opere biologiche di Aristotele tradotte, commentate e
introdotte da Diego Lanza e Mario Vegetti (La vita, Bompiani «Il
Pensiero occidentale», pp. 2496, euro 60,00) offre l’occasione di
ricordare alla comunità dei lettori italiani (che già conoscono l’opera,
che ancora non la conoscono, studiosi o cultori del mondo antico)
l’importanza di questo imponente lavoro – uscito da Utet nel 1971 (2ª
ed. 1996) per la collana «I classici della scienza» allora diretta da
Ludovico Geymonat – nel panorama bibliografico internazionale
dell’antichistica e, più in generale, della storia del pensiero
occidentale. «Lavoro imponente» si diceva, lavoro fondamentale nella
storia degli studi filologici, epistemologici, filosofici, quanto di
rottura: è lo snodo cruciale tra anni sessanta e anni settanta, e per un
certo tipo di intellettuale marxista, autenticamente radicale e
libertario come lo furono convintamente durante tutta la loro attività
Lanza e Vegetti, la tradizione umanistica, insieme al suo storicismo di
matrice idealistica e al suo culto delle belles lettres rimodellato
wilamowitzianamente da edificio scientifico dei realia, non poteva più
convivere (per molti classicisti continuava e continua, invece, a farlo)
con quella Kulturkritik che deriva la sua origine specifica
dall’economia politica (prima ancora che dalla filosofia politica) di
Marx. Lanza e Vegetti non erano certo figure disponibili al compromesso
tra conformismo accademico e esercizio del pensiero. Ora come allora,
dunque, non si può capire assolutamente nulla della loro ricerca intorno
alle opere biologiche di Aristotele se non si parte da tale premessa,
soprattutto perché proprio essa è la ragione strutturale e immediata
dell’innovatività scientifica unanimamente riconosciuta dagli
aristotelisti all’opera dei due studiosi. Ed è un’innovatività ancora
oggi fiammante per quella sua impostazione marxista, della quale vorrei
ricordare qui i punti essenziali.
I limiti linguistici e discorsivi
Innanzitutto,
Lanza e Vegetti guardano ad Aristotele (come sempre, in generale,
guardavano all’Antico) a partire dalla Modernità: non si tratta di un
posizionamento storico (o tantomeno attualizzante) bensì analitico, nel
tentativo di tracciare i limiti linguistici e discorsivi (entrambi
condividevano l’archeologia foucaultiana) dell’osservazione e della
riflessione di Aristotele sull’animale, sul funzionamento delle sue
parti e della sua struttura – fermo restando il fatto, sia chiaro, che
l’unico tratto di discontinuità tra l’animale e l’uomo è la sophia. Il
costante riferimento alla biologia, alla fisiologia e alla zoologia
moderne, tra Harvey e Linneo, tra Cuvier, Lamark e Darwin, è dunque
essenziale ai due curatori per definire lo stile di razionalità (non
dunque il «razionalismo») aristotelico nelle sue caratteristiche
intrinseche insieme al linguaggio che gli corrisponde. Ne risulta che la
biologia di Aristotele è un sapere antropologico, calato nella memoria
collettiva, e tuttavia dislocato dalla teoria e dal teorico
sull’ulteriore livello dell’argomentazione. Ciò significa riconoscere
alla biologia di Aristotele lo statuto di pensiero scientifico, nel
quadro, però, di una prospettiva completamente differente da quella
positivista ed evoluzionista, sostenuta, ad esempio, da Jaeger.
Piuttosto e alternativamente, la biologia aristotelica, nella lettura di
Lanza e di Vegetti, ci restituisce il lato fenomenologico della
scienza, cioè il movimento teoretico-linguistico interno a un sapere
dell’esperienza che, tutt’al contrario e in modo decisamente retrogrado,
l’umanesimo storicista considera risolto nella verifica.
A questo
proposito, Lanza e Vegetti sottolineano che la linea di demarcazione
spesso tracciata tra scienza moderna e scienza artistotelica dagli
odierni epistemologi sul filo della speculazione finalistica è una
forzatura dovuta al peso della tradizione medievale, perché la dottrina
biologica di Aristotele non si fonda tanto sulla causalità finale,
quanto piuttosto sulle modalità causali. La vita stessa, secondo
Aristotele, non è altro se non una particolare forma o struttura assunta
dalla materia. E si tratta di un elemento particolarmente importante da
sottolinare, in questa sede, soprattutto per spirito di servizio ai
lettori, perché il titolo editoriale della riedizione Bompiani è, come
detto: Aristotele, La vita (formula che scarta dal denotativo titolo
Utet Opere biologiche). Lanza e Vegetti sono molto chiari nel merito: la
scienza biologica di Aristotele non si pone, infatti, il problema della
«vita», nell’accezione «vitalistica» del termine, l’anima stessa
essendo semplicemente la struttura funzionale del corpo. E d’altra
parte, per Lanza e per Vegetti, la conciliazione tra l’Aristotele
biologo e l’Aristotele metafisico è un atto di pura falsificazione.
Piuttosto, c’è uno psichismo tutto biofisiologico del corpo animale
legato alle funzioni della percezione e della memoria: ed è Lanza in
particolare a studiare da vicino, nelle sue note di commento e nelle
introduzioni alle opere psicologiche, i processi di acquisizione
conoscitiva (dall’esterno verso l’interno del corpo) e quelli che,
invece, si originano in un impulso (dall’interno del corpo verso la
realtà esterna), veri e propri dinamismi psicomotori in cui è possibile
riconoscere un’interessante anticipazione del concetto ben più recente
di «stimolo nervoso».
C’è poi l’altra importante intuizione
aristotelica intorno al legame tra l’attività psicomotoria e
l’immaginazione: vista dalla parte della macchina corporea,
l’immaginazione non è il gioco del «fantasticare», bensì il prodotto
dell’incontro e dell’intreccio tra esperienza somatica e rielaborazione
emotiva di quella stessa esperienza. Ne è un chiaro esempio il
funzionamento del ricordo, descritto da Aristotele nel De memoria come
il vorticare di una forma in un fluido, posto che l’equilibrio dei
fluidi (e soprattutto del sangue) è il perno della fisiologia
aristotelica. Possiamo davvero dire, dunque, che, nell’intero panorama
del mondo antico, è proprio Aristotele a scoprire il corpo nella sua
natura strutturalmente mista di biologico e di pulsionale, aprendo, di
fatto, problemi che soltanto, per un verso, le ricerche di Piaget (la
sua psicogenesi della conoscenza, i suoi studi sulla costruzione
dell’intelligenza e sulla capacità mimetica umana), e, per l’altro, la
psicoanalisi pre-freudiana e freudiana avrebbero esplorato fecondamente a
cavallo tra XIX e XX secolo (sia detto incidentalmente: se l’attuale
trend neuroscientifico degli studi letterari ritornasse all’Aristotele
«psicologo», ci guadagnerebbe in apertura).
Contro ogni accademismo
Questa
riedizione Bompiani, con l’aggiornamento bibliografico a cura di
Giuseppe Girgenti e una bibliografia degli scritti di Diego Lanza e
Mario Vegetti, ha il merito di rendere nuovamente e materialmente
disponibile in libreria per il grande pubblico le Opere biologiche
apparse da Utet (Ricerche sugli animali, Le parti degli animali, La
locomozione degli animali, La riproduzione degli animali, Parva
naturalia, Il moto degli animali, tutte con testo greco a fronte) e di
tenere viva la testimonianza di un lavoro che rappresenta, al di là del
suo altissimo apporto specifico agli studi aristotelici, un esemplare
saggio di metodologia marxista senza obbedienze diplomatiche o
fideistiche a nessun accademismo culturale e politico. Credo che oggi –
in questi nostri tempi di «caduta delle ideologie» e, per fatale
conseguenza, di studi «alla moda» i cui risultati sono sempre più spesso
oggettistica di mercato e poco più che rassegne bibliografiche
aggiornate all’ultima segnalazione google – sia importante ribadirlo:
un’opera scientifica che resti fondamentale e duratura non è mai
costruita primariamente sull’informazione e sul rispecchiamento delle
tendenze en vogue, e nemmeno sulla pur nobilissima erudizione, ma su
esatte scelte di pensiero che posizionino lucidamente lo sguardo critico
a distanza strategica dalla struttura dei fatti e dei fenomeni
analizzati.