Corriere La Lettura 2.3.19
Il trasloco del Faraone
Il salvataggio dei templi di Abu Simbel
Mezzo secolo dopo un volume documenta e celebra l’evento
di Cecilia Bressanelli
Due
enormi templi in roccia, ricavati nel fianco della montagna. A
costruirli, sul confine meridionale del regno, fu il faraone Ramses II
nel XIII secolo avanti Cristo. Sulla facciata del Tempio Maggiore, alta
33 metri e larga 38, quattro statue di 21 metri rappresentano il faraone
sul trono. La struttura è orientata in modo che i raggi del sole due
volte l’anno (il 22 febbraio e il 21 ottobre) possano raggiungere le
stanze più interne. Il Tempio Minore, dedicato alla moglie Nefertari, è
ornato sulla facciata larga 28 metri e alta 12 da sei statue di 10
metri.
A scoprirle il tempio più grande sotto uno strato di sabbia
fu lo svizzero Johann Ludwig Burckhardt nel 1813. Ma il primo a
esplorarlo fu, nel 1817, l’archeologo italiano Giovanni Battista
Belzoni. Per oltre tremila anni i colossi sono rimasti lì nella Nubia,
regione che abbraccia l’Egitto e il Sudan, a guardare il Nilo dalla riva
occidentale. In silenzio. Fino al 9 gennaio 1960.
La data segna
l’inizio dei lavori per la costruzione della diga di Assuan, voluta dal
presidente Gamal Abdel Nasser, che con le sue potenti turbine avrebbe
aumentato notevolmente le risorse elettriche dell’Egitto. A sud della
diga si sarebbe creato un lago artificiale (il lago di Nasser) che
avrebbe alterato il paesaggio: oltre 500 chilometri della valle del Nilo
sarebbero stati sommersi dalle acque e il patrimonio archeologico qui
ospitato si sarebbe perduto.
L’8 marzo 1960 l’Unesco lancia un
appello per salvare i monumenti e i siti in pericolo. Le risposte
arrivano da tutto il mondo. Si organizzano spedizioni archeologiche,
scavi, registrazioni di centinaia di siti e il recupero di migliaia di
oggetti. Ma i progetti più spettacolari sono i trasferimenti: interi
siti ricollocati in luoghi più elevati, al riparo dalle acque. È questo
il destino che spetta ai templi di Ramses II nel sito di Abu Simbel.
Fin
dal 1960 arrivano finanziamenti e proposte. L’Unesco opta per il
progetto di un consorzio formato dalla compagnia italiana Impregilo
(20%), dall’egiziana Atlas (20%), da Hochtief, compagnia tedesca con
base a Essen (24%); Sentab-Skanska, una ditta di Stoccolma (24%), e la
francese Grands Travaux de Marseille (12%). La proposta: smontare i
templi (pesanti in tutto 320 mila tonnellate; 265 per il Tempio
Maggiore, 55 per il Minore), stoccarli, trasportarli per poi
ricostruirli 180 metri più indietro e 65 più in alto. I lavori iniziano
nella primavera del 1964 e durano 1.117 giorni: il 22 settembre 1968 i
templi sono nella nuova collocazione.
Oggi, 50 anni dopo, Salini
Impregilo — gruppo industriale specializzato nella realizzazione di
grandi opere complesse su scala internazionale in cui è confluita
Impregilo — celebra l’impresa in un volume curato in collaborazione con
il Museo Egizio di Torino ed edito da Rizzoli: Nubiana. Qui «la grande
impresa che salvò i templi di Abu Simbel», come si legge nel
sottotitolo, è ricostruita grazie a centinaia di fotografie, sei grandi
infografiche e 33 esperienze in realtà aumentata (fruibili attraverso
l’app di Salini Impregilo) che tramite lo smartphone permettono di
visualizzare elaborazioni grafiche e filmati inediti provenienti
dall’archivio del Gruppo (in queste pagine sono mostrati due esempi).
A
introdurre il viaggio sono Pietro Salini, ceo di Salini Impregilo
(«siamo orgogliosi di aver scritto alcune pagine di quella storia»);
Christian Greco, direttore del Museo Egizio («il trasferimento è stato
un esempio senza precedenti di come le tecnologie possono aiutare a
salvare testimonianze straordinarie del passato»); e Willeke Wendrich,
direttrice del Cotsen Institute of Archeology dell’Università della
California («la campagna nubiana ha permesso di conoscere in modo più
approfondito questa parte della valle del Nilo»). Ci si immerge quindi
nei testi e nelle immagini, per ritrovarsi al tempo dei faraoni e venire
poi proiettati negli anni del «salvataggio», ricostruito nei dettagli.
La
prima fase (primavera 1964-primavera 1965) è dedicata alla
preservazione del sito e allo studio tipografico e architettonico. Viene
costruita una diga provvisoria larga 372 metri e alta 25 per proteggere
i templi dalle acque — gli ingegneri avevano previsto che nell’inverno
1964-65 il livello dell’acqua, dai 119 metri sopra il livello del mare
iniziali, avrebbe raggiunto i 127,5 metri; e poi i 133 l’anno
successivo, iniziando a sommergere l’area di Abu Simbel (la base del
Tempio Minore stava a 120,2 metri), fino a raggiungere i 183 metri. Una
sabbia protettiva ricopre le facciate; all’interno vengono poste
impalcature d’acciaio e tunnel artificiali. Intanto dall’Europa, via
acqua, arrivano i macchinari (630 tonnellate di escavatori, 350
tonnellate di ruspe, 610 di veicoli, 135 di compressori, martelli
pneumatici e perforatori). Duemila persone lavorano al progetto, per un
totale di 40 milioni di ore di lavoro e un costo di 40 milioni di
dollari.
All’inizio del 1965 parte la seconda fase (che si sarebbe
conclusa ad aprile 1966). Sopra ai templi si scava la nuova collina
artificiale destinata ad ospitarli; a partire dal soffitto, i templi
vengono segmentati in blocchi. Il peso di ogni blocco, studiato con
cura, deve essere tra le 20 e le 30 tonnellate; la dimensione massima è
di 15 mq per i blocchi della facciata e di 12 per le pareti delle
stanze. Lo «smontaggio» è affidato a Impregilo. La roccia arenaria che
compone i templi rischia di sgretolarsi con facilità; il taglio deve
essere effettuato con seghe a mano affidate ai marmisti di Carrara,
assoldati dall’impresa italiana. I templi sono divisi in 1.070 blocchi
(235 per il Tempio Minore, 835 per il Mggiore), identificati da un
codice (GA1A01 è il primo) che indica il tempio (G), il segmento (A), la
zona (1), la fila (A) e il blocco (01).
Nel gennaio 1966 si avvia
la ricostruzione. Resine speciali evitano lo sgretolamento dei blocchi,
barre di acciaio tra i 25 e i 32 millimetri di diametro ne consentono
il trasporto in un’area di stoccaggio di 44 mila metri quadrati, prima
della destinazione finale. Qui vengono riassemblati in un’innovativa
struttura artificiale. Le tecnologie più avanzate si combinano con
tecniche simili a quelle antiche: i calcoli astronomici permettono di
mantenere l’orientamento originario rispetto agli astri. Ed è così che
ancora oggi, come tremila anni fa, i raggi del sole due volte l’anno
penetrano nel Tempio Maggiore e arrivano a illuminare le statue del
faraone e degli dei Amon Ra e Ra Horakhti poste nella stanza più
interna. Mentre Ptah, dio delle tenebre, rimane nell’ombra.