La Stampa 3.2.19
Da svolta della sinistra a lotta spietata
Il rito consumato delle primarie Pd
di Mattia Feltri
La
differenza fra le primarie d’esordio dell’esordiente Partito
democratico di dodici anni fa (2007) e le primarie di oggi, è che quelle
di allora servirono per fondare una comunità, e adesso saranno al
massimo buone per sfibrarla ancora un po’. Per paradosso le primarie
sono state fruttuose sinché sono state finte, una specie di sottintesa
ma consapevole messinscena democratica, una festa di piazza col sorriso
sulle labbra a marcare l’unicità di un partito che, circondato da
partiti monarchici, affidava l’incoronazione alla pura volontà del suo
popolo. La fondazione del Pd, senz’altro a freddo, senz’altro un
esperimento di ingegneria politica, fu la prima vera svolta della
sinistra italiana dalla fine del Regno del Male sovietico, accolta con
due tenere lacrimucce da chi ci aveva creduto, più a salutare la propria
gioventù che a piangere qualche decina di milioni di morti su cui si
era passati con la stessa noncuranza con cui, da un giorno all’altro, il
Pci era passato su di sé, si era ribattezzato Pds (e poi Ds) per
autonominarsi forza riformista, moderata e occidentale (e poi ci si
chiede perché nel 1994 l’abbia spuntata Silvio Berlusconi).
Ma
quell’unificazione fra eredi del Partito comunista, della Democrazia
cristiana e di qualche rimasuglio del socialismo, era l’unificazione
delle principali tradizioni antifasciste su cui si era edificata la
Costituzione repubblicana, con pari dignità (più o meno) e comunità
d’intenti. Era naturale che l’ideatore e il promotore del Pd, Walter
Veltroni, ne fosse anche il leader. Venne scelto dallo sproposito del
settantacinque per cento dello sproposito di tre milioni e mezzo di
elettori, e al culmine di un campagna elettorale in cui lui e i suoi
rivali, Rosy Bindi ed Enrico Letta, a tutto pensarono fuorché a
scannarsi, visto che i loro padri s’erano scannati per una vita, e loro
s’erano messi assieme proprio per rinfoderare le lame.
Dodici anni
dopo, Roberto Giachetti, Maurizio Martina e Nicola Zingaretti sono
tornati ad affilarle, le lame. Se le danno di santa ragione per
sottrarsi voto su voto, e secondo le regole dell’amore e della guerra:
nessuna regola. Succede da un po’ di tempo a questa parte, non soltanto
con loro tre. La contesa delle primarie per la leadership del Pd è
diventata democrazia autentica, quindi spietata, e tocca ripeterlo una
volta di più (con Norberto Bobbio): niente come l’eccesso di democrazia
uccide la democrazia. Insomma, mettetevi nei panni di un elettore del
Partito democratico, costretto a scegliere fra tre candidati, uno
(Zingaretti) che pensa di fare piazza pulita del renzismo, l’altro
(Giachetti) che il renzismo invece lo difende con orgoglio e il terzo
(Martina) un po’ e un po’. Fra tre candidati di cui uno non proprio del
tutto schifato dai Cinque stelle (Zingaretti), l’altro decisamente
schifato (Giachetti) e il terzo (Martina) un po’ e un po’. Fra tre
candidati di cui uno (Zingaretti) molto amorevole coi fuoriusciti
dalemiani (Zingaretti), uno per niente amorevole (Giachetti) e il terzo
(Martina) un po’ e un po’. Una specie di destra-sinistra-centro senza
possibilità di conciliazione, una tripla al Totocalcio, e non sarebbe
del tutto drammatico se i rispettivi stati maggiori e minori non si
randellassero quotidianamente via Twitter e Facebook, cioè i luoghi
paludosi della guerra tribale, accusandosi di intelligenza col nemico,
trame occulte, tradimento degli elettori, col carico di rancore che ci
si porterà dietro a cose fatte. Chiaro che così una comunità la si
sbrindella, come si è cominciato a sbrindellarla pazientemente e
chirurgicamente da qualche anno.
Non è un buona strategia per
altre ragioni ancora. Innanzitutto è difficile farsi venire un’idea di
respiro per il partito e per il Paese se si è impegnati a dichiarare
fellone l’avversario, e infatti non viene, nemmeno un’ideuzza; poi
perché non servirebbe un generale, basterebbe un sergente a sconsigliare
la lotta intestina quando si è accerchiati, il nemico storico a
sinistra, il nemico classico a destra (Berlusconi), uno non
irresistibile ma friccicarello ancora più a destra (Meloni) e due nemici
tosti e vincenti al governo, Lega e Movimento. Si vive in una bolgia
feroce e primitiva, e non sarà un partito che a quella bolgia feroce e
primitiva si adegua, e la alimenta e la importa, ad appassionare chi è
stufo della faida e ha voglia di un po’ di politica.
Si può
sospettare che un sostenitore del Pd desidererebbe tanto un bel
congresso stile anni Cinquanta, coi delegati e le mozioni, in cui ci
pesta in qualche stanzetta, per arrivare a una leadership innalzata
nell’applauso unanime e un poco ipocrita (santa ipocrisia).