domenica 3 febbraio 2019

Corriere La Lettura 3.2.19
Culti e libertà
Processo al concordato
conversazione tra Francesco Margiotta Broglio e Massimo Teodori
a cura di Antonio Carioti


Novant’anni fa, l’11 febbraio 1929, Benito Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri firmarono i Patti lateranensi: un trattato, un concordato e una convenzione finanziaria. Abbiamo chiamato a confrontarsi su quella vicenda e sul suo seguito, fino alla situazione attuale, Francesco Margiotta Broglio, che partecipò attivamente alla revisione del concordato nel 1984, e Massimo Teodori, anticoncordatario convinto.
Non fu comunque positivo per l’Italia chiudere il conflitto che si era aperto con la breccia di Porta Pia?
MASSIMO TEODORI — Bisogna distinguere. La questione romana viene risolta dal trattato, che riconosce lo Stato Vaticano e l’extraterritorialità della Santa Sede, del resto già assicurata dalla legge delle guarentigie, approvata dall’Italia liberale nel 1871, ma rifiutata dalla Chiesa. Invece il concordato è un accordo di potere tra il regime fascista e il Vaticano. Mussolini si procura consenso per la sua politica totalitaria: da quel momento può contare sull’appoggio della Chiesa. Non a caso Luigi Sturzo e Francesco Luigi Ferrari, cattolici antifascisti in esilio, criticano il concordato. La Chiesa dal canto suo ottiene il riconoscimento del matrimonio religioso, l’esclusione dalla docenza e da altri uffici dei «sacerdoti apostati o irretiti da censura», l’insegnamento della religione in tutte le scuole. Inoltre Mussolini versa alla Santa Sede un miliardo e 750 milioni di lire del 1929: una somma enorme che diventa il nucleo centrale dell’Istituto per le opere di religione (Ior), la banca vaticana di cui conosciamo la successiva opera nefasta. Nel 1929 i liberali ancora presenti in Senato — primo fra tutti Benedetto Croce, che pronuncia un intervento molto coraggioso — si schierano contro i Patti lateranensi. E poi la Santa Sede firma accordi analoghi con la Germania nazista (1933), con il Portogallo salazariano (1940), con la Spagna franchista (1953). Nel Novecento il concordato è il tipico strumento d’accordo tra la Chiesa e i regimi dittatoriali, non è accettabile mantenerlo in democrazia.
F. MARGIOTTA BROGLIO — Vorrei ricordare che il concordato firmato da Adolf Hitler resta tuttora vivo e vegeto nell’ordinamento della Germania e nessun partito tedesco chiede di rivederlo. Ma anche l’Italia liberale prefascista non era laica, perché la sua Costituzione, lo Statuto albertino, attribuiva al cattolicesimo il rango di religione di Stato. E le trattative per superare la questione romana erano cominciate molto prima dell’avvento di Mussolini. Basti pensare che Pio X, Papa dal 1903 al 1914, vieta alla «Civiltà Cattolica», rivista dei gesuiti, di sollevare il problema. E poi tutti i capi del governo liberali perseguono la normalizzazione dei rapporti con la Santa Sede. Quando arriva Mussolini, la questione è già matura, tant’è vero che l’ex primo ministro Vittorio Emanuele Orlando, caduto il fascismo, rivendicherà il merito di aver posto le basi per i Patti lateranensi.
Nel 1947 fu approvato l’articolo 7 della Costituzione, che indica nei Patti lateranensi lo strumento di regolazione dei rapporti tra la Repubblica e la Chiesa cattolica. Fu una scelta inevitabile?
MASSIMO TEODORI — Non era affatto necessario immettere il concordato nella Costituzione. Nessuno nell’Assemblea Costituente rifiutava una soluzione pattizia che garantisse l’indipendenza assoluta della Santa Sede. Piero Calamandrei propose che i rapporti tra Stato e Chiesa fossero regolati in termini concordatari, ma in armonia con le norme costituzionali, cioè nel rispetto della libertà di coscienza. A opporsi fu Pio XII, che non voleva rinunciare ai privilegi concessi da Mussolini al suo predecessore Pio XI. E a fargli da portavoce fu Giuseppe Dossetti: se il concordato non viene inserito nella Costituzione, disse, si mette in discussione la pace religiosa. Così nell’Italia repubblicana gruppi religiosi minoritari come i tremolanti e i pentecostali furono vessati in base a norme fasciste di derivazione concordataria. Decisivo alla Costituente fu l’atteggiamento del Pci, che approvò l’articolo 7 per ragioni teoriche, in quanto non si curava della libertà religiosa, e pratiche, perché voleva trovare un’intesa con il Vaticano in vista del grande incontro tra comunisti e cattolici perseguito prima da Palmiro Togliatti e poi, con esiti disastrosi, da Enrico Berlinguer.
Però alcuni laici liberali alla Costituente votarono a favore dell’articolo 7.
MASSIMO TEODORI — Sì, personaggi come Meuccio Ruini, Carlo Sforza, Ivanoe Bonomi, in prevalenza massoni, fecero quella scelta. Pensarono che fosse necessaria per assicurare alla Repubblica il sostegno della Chiesa. Ma Croce, che non era presente al momento del voto, poi rese noto che era contrario.
F. MARGIOTTA BROGLIO — In realtà il quadro è ancora più nero, dal punto di vista laico. Gli accordi tra l’Italia e il Vaticano erano già stati inseriti nell’ordinamento costituzionale, in vista dei Patti lateranensi, con la legge sul Gran consiglio del fascismo, approvata nel 1928. E la Costituente segue la stessa linea, non c’è rottura. Anzi la formula dell’articolo 7 si ritrova nei progetti costituzionali fascisti abbozzati nel 1940 e sotto la Rsi. La continuità è maggiore di quanto si pensi, perché fascisti e antifascisti, con qualche eccezione, vedevano i rapporti con la Santa Sede allo stesso modo.
MASSIMO TEODORI — Non sono d’accordo. Tutti i socialisti e la maggioranza dei laici alla Costituente si pronunciarono contro l’articolo 7. Decisivo fu il voto favorevole dei comunisti.
F. MARGIOTTA BROGLIO — D’accordo, ma quelli che si schierarono per l’articolo 7, cioè la maggioranza, mostrarono di vedere le cose allo stesso modo dei fascisti.
La revisione del Concordato conclusa nel 1984 dal governo di Bettino Craxi fu una mossa opportuna?
MASSIMO TEODORI — Craxi fece un’operazione realista, deciso a raggiungere un accordo con i cattolici che tagliasse fuori i comunisti: all’epoca il duello a sinistra tra Psi e Pci era al culmine dell’asprezza. La leggenda narra che ai socialisti impegnati nel processo di revisione concordataria Craxi abbia detto: ai preti date i soldi e vedrete che si accontentano. Così si ottenne l’eliminazione di norme anacronistiche, ma il guaio è che il concordato del 1984 demandava a leggi successive il compito di regolare molte materie. E le conseguenze in materia economica sono state pessime. In realtà ormai negli anni Ottanta la società italiana si era secolarizzata, erano stati introdotti il divorzio e l’aborto. Capisco la mossa di Craxi in chiave politica, ma riproporre un concordato nel 1984 secondo me non aveva più senso. A mio parere la Chiesa cattolica ribadì all’epoca il suo carattere ambiguo: da una parte esprime un forte messaggio religioso universale, dall’altra tiene a ingerirsi negli affari interni italiani e a ricavarne profitti materiali.
Dunque la revisione del 1984 è stata un errore?
F. MARGIOTTA BROGLIO — Facciamo un passo indietro. Solo con l’ingresso al governo del Psi si comincia a parlare di revisione del concordato. Ma si procede a rilento. Il primo che s’impegna sul serio è Aldo Moro nel 1974, dopo il referendum sul divorzio, ma il testo negoziato allora con la Santa Sede, molto avanzato, viene poi cestinato da Giulio Andreotti. Le trattative proseguirono, furono definite altre bozze, ma solo Craxi arrivò in fondo. Ricordo che io e Giuliano Amato gli portammo il testo del nuovo concordato nel suo studio di Palazzo Chigi, dove teneva un ritratto di Garibaldi. Ci guardò, girò lo sguardo verso il quadro, si voltò di nuovo e disse: «Ci perdonerà?». Ecco lo spirito con cui firmò l’accordo.
Non sarebbe stato meglio allora puntare su un’ipotesi separatista?
F. MARGIOTTA BROGLIO — Secondo me è un’idea che non sta in piedi. L’unico Paese separatista nell’Unione Europea è la Francia, ma quella soluzione è in crisi già da tempo. L’attuale presidente Emmanuel Macron ha detto di voler rivedere la stessa nozione di laicità alla luce del principio non separatista di cooperazione tra le religioni e la Repubblica. L’obiettivo è far coesistere i diversi culti in un dialogo permanente con le istituzioni, ripensando la legge del 1905 che stabilisce la separazione tra lo Stato e la Chiesa cattolica. Non mi sembra realistico che l’Italia possa percorrere il cammino da cui la Francia pensa di tornare indietro.
Il meccanismo di finanziamento pubblico delle confessioni religiose è molto contestato dai laici. Perché?
MASSIMO TEODORI — Il principio per cui il contribuente è libero di destinare alla Chiesa cattolica o alle istituzioni di altri culti che hanno concluso un’intesa con lo Stato (ebrei, valdesi e così via) l’8 per mille della sua Irpef, indicando la scelta nella dichiarazione dei redditi, mi pare sacrosanto. Però c’è il trucco. La scelta compiuta da una minoranza, che si pronuncia in larga prevalenza per la Chiesa cattolica, si estende automaticamente anche all’Irpef di coloro che non conoscono il meccanismo e non indicano nulla, cioè la maggioranza degli italiani. Il loro 8 per mille viene diviso tra le confessioni religiose in proporzione alle scelte espresse da altri, quindi va quasi tutto alla Chiesa di Roma. Di fatto è un imbroglio a spese di cittadini inconsapevoli. Poi c’è la questione fiscale: oggi capita che un hotel di lusso, se ha una piccola cappella al suo interno, possa farsi passare per edificio religioso ed essere esentato dal pagamento dell’Ici. Infine il nodo dello Ior. In base ai Patti lateranensi, secondo una sentenza della Cassazione, la banca vaticana, in quanto ente centrale della Chiesa, non è soggetta alla magistratura italiana. E ciò ha trasformato lo Ior in un intangibile punto di passaggio per la corruzione e il riciclaggio di denaro sporco. Forse, dopo tanti scandali, ora la situazione sta cambiando, ma non sappiamo fino a che punto.
F. MARGIOTTA BROGLIO — La vera svolta è stata l’ingresso del Vaticano nell’euro, perché alcune norme europee hanno costretto la Santa Sede a modificare la disciplina dello Ior: la Corte di giustizia europea oggi può mettere il naso nella banca vaticana. Anche per quanto riguarda il fisco c’è una sentenza della Corte di giustizia dell’Ue che ha sancito il recupero dell’Ici non pagata dagli enti religiosi. Dell’8 per mille poi beneficiano anche le minoranze religiose, che prima non ricevevano nulla e faticavano a sopravvivere. Il sistema può non piacere, ma vorrei ricordare che in Germania la tassa ecclesiastica è obbligatoria: per non pagarla bisogna abiurare formalmente la propria confessione religiosa, mentre in Italia basta scegliere di dare l’8 per mille allo Stato. E le Chiese tedesche ricevono somme molto più alte di quella italiana.
MASSIMO TEODORI — Però anche in Italia c’è un’obbligatorietà di fatto: l’8 per mille di chi non sceglie finisce quasi tutta alla Chiesa.
F. MARGIOTTA BROGLIO — Bisognerebbe cambiare quel meccanismo, ma vedo che adesso anche le associazioni degli atei chiedono di essere ammesse a ricevere l’8 per mille.