Corriere La Lettura 3.2.19
Anticipò Darwin, sfidò la Chiesa: l’«aquila degli atei» che morì da filosofo
1619-2019
Il
9 febbraio di quattrocento anni fa finiva la straordinaria avventura
intellettuale e umana di Giulio Cesare Vanini: la lingua strappata, poi
strangolato, poi arso sul rogo
di Matteo Trevisani
«Andiamo
a morire allegramente da filosofi», disse Giulio Cesare Vanini al suo
boia, il pomeriggio del 9 febbraio 1619. Poco dopo gli verrà strappata
la lingua, strumento con la quale aveva offeso Dio e il re, verrà
strangolato e il suo corpo bruciato sul rogo si consumerà illuminando
Place du Sulin, a Tolosa. Aveva trentaquattro anni.
È con
quest’atto cruento che si compie, diciannove anni dopo il più famoso
rogo di Giordano Bruno in Campo de’ Fiori, l’ultimo tratto della
parabola di Vanini, filosofo italiano, principe dei libertini, aquila
ateorum.
Mi sono chiesto a lungo che cosa significasse «morire da
filosofi» e in che cosa questo differisse dal morire di tutti. Se fosse
solo una frase a effetto, la volontà di non mostrarsi vinti del tutto,
l’arroganza ultima di chi crede di essere dalla parte della ragione. Ma
per capire fino in fondo il significato della morte di Vanini bisognava
partire dalla sua vita. La straordinaria storia del più ateo dei
filosofi del Rinascimento è fatta di fughe repentine, di abiure, di
prigionìe, di spionaggio e diplomazia, ma anche di audacia e coraggio,
di una fede perduta e amore per l’essere umano.
Giulio Cesare
Vanini nasce a Taurisano, in Salento, nel 1585, in una famiglia
piuttosto agiata. Studia diritto a Napoli, dove nel 1603 entra
nell’ordine dei carmelitani. Rimarrà nella città partenopea nove anni
prima di iscriversi alla facoltà di filosofia a Padova, centro di
quell’aristotelismo non allineato che ai dogmi teologici preferisce
indagare i misteri della natura. Probabilmente conosceva già l’opera di
quello che riterrà il suo maestro: l’aristotelico Pietro Pomponazzi, che
nella sua opera più nota aveva sancito l’impossibilità di dimostrare
l’immortalità dell’anima. A Padova si consuma il primo dei molti strappi
che saranno la costante del suo peregrinare: dopo alcune prediche
contro il maestro del suo ordine, gli viene imposto il ritiro in uno
sperduto convento di Calabria. Vanini decide allora di fuggire in
Inghilterra, dove la Chiesa anglicana offriva volentieri asilo agli
apostati in funzione di propaganda anticattolica. Da quel momento
cominciano anni di peregrinazioni e fughe, in cui Vanini e il suo
spirito inquieto troveranno rifugio in molte città europee, aiutato
dalla diplomazia internazionale e al contempo braccato dal
controspionaggio. Quando alla fine il Papa lo richiama a Roma, sa che la
sua vita è in pericolo. Fiuta l’inganno dell’Inquisizione e decide di
fermarsi a Genova per poi riparare a Lione, dove pubblica il suo
Amphitheatrum, seguito l’anno successivo dal De Admirandis, stavolta a
Parigi, che gli procura un immediato successo presso i circoli libertini
della capitale francese.
Lo strappo, non più ricucibile, è anche
filosofico: sotto le spoglie di una forma apologetica e di un lessico
platonico, il filosofo teorizza il suo personale e rivoluzionario
ateismo, in cui l’uomo viene liberato da ogni dogma e il mondo da ogni
vincolo metafisico. Dio non è più il vertice della scala degli esseri,
ma una menzogna messa in atto dalle religioni allo scopo di suscitare
timore nel popolo, la Bibbia poco più che una favola, Cristo un
impostore.
Lo stile dissacratorio di Vanini abbraccia ogni ambito:
la visione antropocentrica dell’uomo si dissolve, diventa un essere
come gli altri in un universo meccanicistico e l’assoluta autonomia di
cui gode la natura non è soggetta a nessuna provvidenza divina.
All’interno di questo mondo liberato dal peccato e da ogni superstizione
magica il sesso non ha connotazioni negative, perché garantisce il
proseguimento della specie: l’innovazione di Vanini sta nell’affidare
all’uomo stesso e a lui soltanto la responsabilità della propria
condizione. L’anima è mortale, non esiste nessuna volontà organizzatrice
e la vita dell’uomo è inserita soltanto nell’orizzonte della natura,
niente di più. Niente è eterno, ma tutto è soggetto alle leggi naturali
del divenire, e così come tutto ha avuto un inizio, ogni cosa dovrà
finire.
Alla fine, sentendosi braccato, il filosofo tenta
l’azzardo più grande: sotto falso nome decide di cercare riparo proprio
tra le fauci della cattolicissima Tolosa, dove dopo due anni verrà
scoperto, arrestato a causa del suo ateismo e condotto al rogo.
Antispecista,
preilluminista, predecessore di Darwin e Schopenhauer, cantato da
Hölderlin, citato da Hegel, innamorato delle leggi di natura: a
quattrocento anni dalla morte, anche se molto è stato detto e scritto su
Vanini, la sua fortuna ha vissuto stagioni alterne, tanto che spesso è
ignorato perfino dai manuali di storia della filosofia.
Giulio
Cesare Vanini ha vissuto tutta la vita non accontentandosi di verità
precostituite: al contrario ha visto nella sua esistenza l’opportunità
di indagare la natura, liberandosi da ogni facile dogma e promesse di
future ricompense. Forse allora è questo che vuol dire, morire da
filosofo: sentire la pienezza della vita anche nell’ora più buia, ma
senza esserne vinti. Vivere fino alla fine con coerenza e coraggio.
Morire da filosofi significa morire da vivi.