La Stampa 10.2.19
Raddoppiano gli adolescenti che scelgono di cambiare sesso
Il percorso di transizione è lungo e complesso: la durata media è di due anni
di Claudia Luise
Tutti
gli stereotipi sono difficili da abbattere ma quelli legati
all’identità di genere possono finire per annientare la propria vita e
risucchiare nella depressione più cupa.
Si chiama disforia di
genere, quando nasci in un corpo di un sesso che senti non ti
appartenga. Dentro sei una donna ma tutti ti vedono un uomo, o
viceversa. Da non confondere con l’orientamento sessuale: due cose ben
distinte che hanno percorsi di consapevolezza e approcci diversi. A
Torino c’è un centro dedicato alla Città della Salute, il CiDiGem
(Centro Interdipartimentale disforia di genere -Molinette), che
rappresenta l’eccellenza in Italia per il supporto che offre alle
persone che soffrono di questa condizione. Diretto dal responsabile
dell’endocrinologia Ezio Ghigo e coordinato da Fabio Lanfranco, conta
un’equipe di una ventina di professionisti oltre che di endocrinologia
anche di uro-andrologia, psichiatria, psicologia, chirurgia plastica,
chirurgia generale e ginecologia ed è attivo dal 2005. Nell’ultimo anno
l’utenza è cambiata molto. Solo nel 2018 si sono rivolte al centro 62
persone, nel 2017 erano state 55. Non è una strada semplice ma un
percorso che dura anche due anni: ad oggi la struttura ha in carico 300
pazienti, in totale i casi affrontati dall’equipe sono stati 697 e si
dividono equamente tra uomini che si sentono donne e donne che vogliono
essere uomini.
«In questi anni - spiega Ghigo - è diventata più
intensa la domanda di adolescenti e questo è un problema ancora più
complesso quindi si lavora in collaborazione con la neuropsichiatria
infantile. Nel 2017 sono stati 13, lo scorso anno 25. E anche l’età è
sempre più precoce». Casi che vengono gestiti collegialmente, nel
rispetto di protocolli specifici studiati seguendo linee guida adottate
in Olanda e Regno Unito, due nazioni all’avanguardia sul tema. «Tutta la
famiglia è in transizione, non solo il minore, e l’impatto sociale è
forte. Ma oggi le famiglie sono più disponibili ad essere aiutate.
Durante l’infanzia dal punto di vista medico non si fa nulla. Con i
primi cambiamenti del corpo, se persiste il disagio, è possibile dare
più tempo alla persona con dei farmaci che bloccano la pubertà. Ma -
sottolineano la psicologa Chiara Crespi e l’endocrinologa Giovanna Motta
- devono essere dati in casi davvero selezionati, è una sorta di aiuto
alla persona ma anche ai clinici che devono valutare il percorso per
confermare lo sviluppo atipico dell’identità di genere». Questi farmaci
vengono usati un anno circa, poi si inizia la terapia ormonale per
affermare il genere. «Il nostro è un approccio prudenziale - spiegano -
abbiamo sempre pensato che non è la prima scelta. A volte anche solo
accogliere la richiesta basta a star meglio senza bloccare l’evoluzione
della pubertà. Nella nostra esperienza i ragazzini italiani non li
richiedono, forse è anche un fattore culturale».
Attualmente sono
solo due i casi di questo tipo seguiti al Regina Margherita ed entrambi
nell’ultimo anno. «È altrettanto vero che sono aumentate le persone
mature con matrimoni e figli e anche in questo caso le cose si
complicano, serve un supporto alla genitorialità», aggiunge Crespi.
Inoltre è cambiato l’atteggiamento dei medici e le terapie richieste che
devono «affermare il genere predominante, mentre prima si parlava di
conferma. La maggior parte delle persone però continua a desiderare
l’intervento, su 10 appena 2 chiedono solo la modifica dei dati
anagrafici». È un processo fatto di sofferenza e speranza, con due
avvertenze: «grazie ai gruppi social si può trovare comprensione ma la
terapia va personalizzata. E poi il linguaggio è importante e può
offendere profondamente».