Il Sole Domenica 10.2.19
Il ricordo. È passato un anno dalla morte di Giuseppe Galasso
Per una funzione sociale della storiografia
di Emilio Gentile
«Qualche
volta agli amici che mi rivolgono la consueta domanda: “Come state?”
rispondo con le parole che Salvatore di Giacomo udì dal vecchio duca di
Maddaloni, il famoso epigrammista napoletano, quando, in una delle sue
ultime visite, lo trovò che si scaldava al sole e gli rispose in
dialetto: “Non lo vedi? Sto morendo”. Ma non è già un lamento che mi
esca dal petto, ed è invece una delle solite reminiscenze di aneddoti
letterari che mi tornano curiosamente alla memoria e mi allegrano.
Malinconica e triste che possa sembrare la morte, sono troppo filosofo
per non vedere chiaramente che il terribile sarebbe se l’uomo non
potesse morire mai, chiuso nel carcere che è la vita, a ripetere sempre
lo stesso ritmo vitale che egli come individuo possiede solo nei confini
della sua individualità, a cui è assegnato un compito che si
esaurisce.[…] La morte sopravverrà a metterci in riposo, a toglierci
dalle mani il compito a cui attendevamo; ma essa non può fare altro che
così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci
interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare».
Aveva
85 anni Benedetto Croce quando nel febbraio del 1951 scrisse questo
soliloquio sulla morte, che lo colse l’anno successivo, seduto nella sua
biblioteca, dove aveva continuato a lavorare fino all’ultimo giorno.
Aveva compiuto 88 anni da pochi mesi Giuseppe Galasso, quando la notte
del 12 febbraio 2018 la morte giunse silenziosamente a interrompere il
suo compito di storico, al quale attendeva da oltre settanta anni. Solo
tre giorni prima, aveva partecipato all’adunanza dei soci dell’Accademia
nazionale dei Lincei, con la sua gioviale vitalità; e a chi gli rivolse
la consueta domanda, rispose diversamente da Croce: «Caro amico, sto
lavorando. E questo fa bene». Non era risposta di circostanza, per
fugare un’intima malinconia, come quella che pur traspare nella
meditazione di Croce sulla morte, perché poco indulgeva Galasso al
pessimismo, anche se era giunto all’ultimo quarto della sua giornata.
Nel
ricordare lo storico scomparso all’Accademia dei Lincei l’11 gennaio
scorso, Luigi Mascilli Migliorini ha evocato «il rispetto che un grande
storico» come Galasso «manteneva per la storia, cioè per la vita, bella
perché imprevedibile, terribile perché imprevedibile. Quella vita che
egli aveva sempre amato e che aveva insegnato ad amare e che lo ha
ripagato con una morte priva degli insulti che solitamente la
annunciano. Una morte giovane, si potrebbe dire, una intelligenza
intatta che ci ha lasciato in una notte di febbraio».
Eppure, come
già su queste pagine abbiamo avuto occasione di osservare (si veda
l’articolo del 5 febbraio 2017 dal titolo «Storiografia in crisi
d’identità»), ormai da alcuni anni si avvertiva negli scritti dello
storico napoletano una crescente preoccupazione per la «emarginazione
della storia», come egli stesso la definì in uno dei suoi ultimi
interventi, pubblicato dopo la sua morte, che egli aveva presentato il
28 ottobre 2016 in un convegno su questo tema al Centro europeo di studi
normanni.
“Crisi”, intesa come periodo di difficoltà, era parola
che allo storico non piaceva, eppure della «crisi della storia come
stagione storiografica» Galasso trattò in quell’occasione, avvertendo
che «una certa crisi della storia – nel senso corrente della parola – è
reale», e si manifesta «in una certa insicurezza circa l’identità e le
funzioni della storia nel contesto culturale e civile in cui gli storici
si muovono». E che sia crisi «non affatto immaginaria o poco evidente»
lo conferma, osservava Galasso, la «continua emarginazione della storia
nei programmi scolastici», che a sua volta rivela una più grave carenza
di coscienza civile nell’opinione pubblica e nei responsabili «di un
settore fondamentale, e anzi determinante, per tutto lo sviluppo
materiale e morale della società – qual è quello della scuola», dal
momento che la storia non è più «ritenuta una materia essenziale per la
formazione, oltre che per l’istruzione, dei giovani che formeranno le
future classi dirigenti del Paese».
Manifestazione ancora più
inquietante è la «messa in discussione della storicità come dimensione
del mondo e dell’uomo», che Galasso vedeva «in relazione profonda con la
crisi dell’identità europea», perché la storiografia così come si era
sviluppata nel corso dell’Ottocento e del Novecento, contemporaneamente
all’ascesa della civiltà europea all’egemonia planetaria, aveva
rappresentato «il culmine della visione europea del mondo».
Napoletano,
italiano ed europeo per cultura e coscienza civile, Galasso vedeva
nella crisi della storia la crisi della stessa civiltà europea nel mondo
contemporaneo. Contro gli andazzi delle mode antistoricistiche e
sociologizzanti, «per cui molti ritengono che la nostra stagione
storiografica si contorca e si agiti in una riceerca di novità che si
rivelano troppo spesso insoddisfacenti escogitazioni di metodo o di
problematiche non sorrette da un reale vigore di pensiero storico»,
Galasso perorava la riconquista dell’autonomia e della specificità della
storia. A ciò non lo spingeva una qualche nostalgia per la tramontata
egemonia europea, ma la consapevolezza che la coscienza storica, la
storiografia «è stata e rimane uno dei contributi più originali e
rilevanti che il pensiero europeo, l’umanità europea hanno portato alla
world history, al progresso intellettuale, morale e civile di tutta
l’umanità».
Rivendicare alla civiltà europea la scoperta della
storicità, come dimensione della esistenza e della coscienza umana, era
per Galasso un modo per riaffermare la indispensabile funzione sociale
della storiografia, come disse in un altro dei suoi ultimi interventi,
edito dopo la sua morte. Si tratta della conferenza che egli, allievo
nel 1953-54 dell’Istituto italiano per gli studi storici, fondato da
Benedetto Croce nel febbraio 1947, tenne il 13 ottobre 2017, nella sede
dell’Istituto, per l’inaugurazione della Associazione degli ex allievi.
Ricordando il discorso di Croce all’inaugurazione dell’istituto,
dedicato al «concetto moderno della storia», Galasso ribadiva la piena
attualità della circolarità fra storia e vita civile, posta a fondamento
della funzione sociale dello storico, come l’aveva concepita e
praticata Croce, e lo stesso Galasso, collocandola a un’altitudine etica
e culturale che nulla ha in comune con la storia politicizzata né con
l’uso pubblico della storia. E anche nei pensieri espressi in quella
occasione, sulla funzione sociale dello storico, si avverte forte
l’inquietudine di chi, al tramonto di una lunga vita dedicata al
mestiere dello storico, era consapevole che lo la perdita della
coscienza storica comporterebbe un’irreparabile menomazione della
moderna civiltà umana.
Emarginazione della storia e nuove storie a cura di Giuseppe Galasso
Rubbettino, Soveria Mannelli,
pagg. 132, € 13 Studi storici e vita civile, a cura di Giuseppe Galasso
il Mulino, Bologna, pagg. 107, € 12