martedì 12 febbraio 2019

Il Sole Domenica 10.2.19
Il ricordo. È passato un anno dalla morte di Giuseppe Galasso
Per una funzione sociale della storiografia
di Emilio Gentile


«Qualche volta agli amici che mi rivolgono la consueta domanda: “Come state?” rispondo con le parole che Salvatore di Giacomo udì dal vecchio duca di Maddaloni, il famoso epigrammista napoletano, quando, in una delle sue ultime visite, lo trovò che si scaldava al sole e gli rispose in dialetto: “Non lo vedi? Sto morendo”. Ma non è già un lamento che mi esca dal petto, ed è invece una delle solite reminiscenze di aneddoti letterari che mi tornano curiosamente alla memoria e mi allegrano. Malinconica e triste che possa sembrare la morte, sono troppo filosofo per non vedere chiaramente che il terribile sarebbe se l’uomo non potesse morire mai, chiuso nel carcere che è la vita, a ripetere sempre lo stesso ritmo vitale che egli come individuo possiede solo nei confini della sua individualità, a cui è assegnato un compito che si esaurisce.[…] La morte sopravverrà a metterci in riposo, a toglierci dalle mani il compito a cui attendevamo; ma essa non può fare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare».
Aveva 85 anni Benedetto Croce quando nel febbraio del 1951 scrisse questo soliloquio sulla morte, che lo colse l’anno successivo, seduto nella sua biblioteca, dove aveva continuato a lavorare fino all’ultimo giorno. Aveva compiuto 88 anni da pochi mesi Giuseppe Galasso, quando la notte del 12 febbraio 2018 la morte giunse silenziosamente a interrompere il suo compito di storico, al quale attendeva da oltre settanta anni. Solo tre giorni prima, aveva partecipato all’adunanza dei soci dell’Accademia nazionale dei Lincei, con la sua gioviale vitalità; e a chi gli rivolse la consueta domanda, rispose diversamente da Croce: «Caro amico, sto lavorando. E questo fa bene». Non era risposta di circostanza, per fugare un’intima malinconia, come quella che pur traspare nella meditazione di Croce sulla morte, perché poco indulgeva Galasso al pessimismo, anche se era giunto all’ultimo quarto della sua giornata.
Nel ricordare lo storico scomparso all’Accademia dei Lincei l’11 gennaio scorso, Luigi Mascilli Migliorini ha evocato «il rispetto che un grande storico» come Galasso «manteneva per la storia, cioè per la vita, bella perché imprevedibile, terribile perché imprevedibile. Quella vita che egli aveva sempre amato e che aveva insegnato ad amare e che lo ha ripagato con una morte priva degli insulti che solitamente la annunciano. Una morte giovane, si potrebbe dire, una intelligenza intatta che ci ha lasciato in una notte di febbraio».
Eppure, come già su queste pagine abbiamo avuto occasione di osservare (si veda l’articolo del 5 febbraio 2017 dal titolo «Storiografia in crisi d’identità»), ormai da alcuni anni si avvertiva negli scritti dello storico napoletano una crescente preoccupazione per la «emarginazione della storia», come egli stesso la definì in uno dei suoi ultimi interventi, pubblicato dopo la sua morte, che egli aveva presentato il 28 ottobre 2016 in un convegno su questo tema al Centro europeo di studi normanni.
“Crisi”, intesa come periodo di difficoltà, era parola che allo storico non piaceva, eppure della «crisi della storia come stagione storiografica» Galasso trattò in quell’occasione, avvertendo che «una certa crisi della storia – nel senso corrente della parola – è reale», e si manifesta «in una certa insicurezza circa l’identità e le funzioni della storia nel contesto culturale e civile in cui gli storici si muovono». E che sia crisi «non affatto immaginaria o poco evidente» lo conferma, osservava Galasso, la «continua emarginazione della storia nei programmi scolastici», che a sua volta rivela una più grave carenza di coscienza civile nell’opinione pubblica e nei responsabili «di un settore fondamentale, e anzi determinante, per tutto lo sviluppo materiale e morale della società – qual è quello della scuola», dal momento che la storia non è più «ritenuta una materia essenziale per la formazione, oltre che per l’istruzione, dei giovani che formeranno le future classi dirigenti del Paese».
Manifestazione ancora più inquietante è la «messa in discussione della storicità come dimensione del mondo e dell’uomo», che Galasso vedeva «in relazione profonda con la crisi dell’identità europea», perché la storiografia così come si era sviluppata nel corso dell’Ottocento e del Novecento, contemporaneamente all’ascesa della civiltà europea all’egemonia planetaria, aveva rappresentato «il culmine della visione europea del mondo».
Napoletano, italiano ed europeo per cultura e coscienza civile, Galasso vedeva nella crisi della storia la crisi della stessa civiltà europea nel mondo contemporaneo. Contro gli andazzi delle mode antistoricistiche e sociologizzanti, «per cui molti ritengono che la nostra stagione storiografica si contorca e si agiti in una riceerca di novità che si rivelano troppo spesso insoddisfacenti escogitazioni di metodo o di problematiche non sorrette da un reale vigore di pensiero storico», Galasso perorava la riconquista dell’autonomia e della specificità della storia. A ciò non lo spingeva una qualche nostalgia per la tramontata egemonia europea, ma la consapevolezza che la coscienza storica, la storiografia «è stata e rimane uno dei contributi più originali e rilevanti che il pensiero europeo, l’umanità europea hanno portato alla world history, al progresso intellettuale, morale e civile di tutta l’umanità».
Rivendicare alla civiltà europea la scoperta della storicità, come dimensione della esistenza e della coscienza umana, era per Galasso un modo per riaffermare la indispensabile funzione sociale della storiografia, come disse in un altro dei suoi ultimi interventi, edito dopo la sua morte. Si tratta della conferenza che egli, allievo nel 1953-54 dell’Istituto italiano per gli studi storici, fondato da Benedetto Croce nel febbraio 1947, tenne il 13 ottobre 2017, nella sede dell’Istituto, per l’inaugurazione della Associazione degli ex allievi. Ricordando il discorso di Croce all’inaugurazione dell’istituto, dedicato al «concetto moderno della storia», Galasso ribadiva la piena attualità della circolarità fra storia e vita civile, posta a fondamento della funzione sociale dello storico, come l’aveva concepita e praticata Croce, e lo stesso Galasso, collocandola a un’altitudine etica e culturale che nulla ha in comune con la storia politicizzata né con l’uso pubblico della storia. E anche nei pensieri espressi in quella occasione, sulla funzione sociale dello storico, si avverte forte l’inquietudine di chi, al tramonto di una lunga vita dedicata al mestiere dello storico, era consapevole che lo la perdita della coscienza storica comporterebbe un’irreparabile menomazione della moderna civiltà umana.

Emarginazione della storia e nuove storie a cura di Giuseppe Galasso
Rubbettino, Soveria Mannelli,
pagg. 132, € 13 Studi storici e vita civile, a cura di Giuseppe Galasso
il Mulino, Bologna, pagg. 107, € 12