Correre La Lettura 10.2.19
Miseria e lussuria
Il destino di Weimar
Cent’anni fa nasceva la prima repubblica tedesca, fragile e delegittimata
Una
Costituzione avanzata, una vita culturale intensa, costumi disinibiti,
ma anche inflazione edisoccupazione incontenibili, famiglie alla fae
Berlino sembrava la nuova Babilonia del vizio e dello splendore, ma tutto venne stroncato dall’avvento al potere di Adolf Hitler
di Ranieri Polese
Alla
vigilia delle elezioni europee, torna il ricordo dei brevi, tempestosi
anni della Repubblica di Weimar. La prima repubblica della storia
tedesca, nata all’indomani della sconfitta e dell’abdicazione del Kaiser
Guglielmo II (novembre 1918), durò fino alla presa del potere di Adolf
Hitler nel 1933. Parlando dell’edizione italiana di D eutschland,
Deutschland über alles (appena uscita da Meltemi), violento manifesto di
satira politica di Kurt Tucholsky con le immagini di John Heartfield,
pubblicato nel 1929, Vittorio Giacopini scrive: «Torniamo a leggere
questo libro adesso, tristissimamente è il momento giusto». E così,
sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», Wolfgang Schneider: «Di questi
tempi, ripensare alla Repubblica di Weimar provoca un diffuso senso di
angoscia», nel timore appunto che la sorte di quella «democrazia poco
amata» possa ripetersi. Siamo del resto in presenza di una crisi
economica che, se non può essere paragonata all’iper-inflazione del 1923
e al crollo del 1929-30, genera comunque crescente disagio e scontento.
Qualcuno, addirittura, ha rievocato la durezza con cui i vincitori
della guerra costrinsero la Germania a pagare le riparazioni di guerra
(nel 1923 l’esercito francese occupava la Ruhr) parlando del modo con
cui Bruxelles e Berlino hanno trattato la Grecia.
Se infinite
tracce (una sterminata bibliografia, nuovi studi, ristampe di opere di
allora, cinema e mostre d’arte) ci riportano a Weimar, si torna a
ricordare la sfortunata Repubblica anche perché, cento anni fa,
nell’agosto del 1919, il presidente Friedrich Ebert promulgava la nuova
Costituzione votata dall’Assemblea nazionale riunita in quella città
della Turingia. Prendeva forma, con quel testo, una Repubblica
semipresidenziale che introduceva il suffragio universale per uomini e
donne. Se quella democrazia fu poco amata, spiegano gli storici, fu
perché nell’opinione corrente era stata imposta dai vincitori della
guerra e perché dovette sottoscrivere le pesanti riparazioni di guerra
previste dal trattato di Versailles. Inoltre circolava con crescente
successo la teoria della «pugnalata alla schiena»: se i tedeschi avevano
perso la guerra, la colpa era dei ricchi banchieri ebrei.
Esposta
a continui attacchi da destra e sinistra, la Repubblica ebbe una vita
difficile: a renderla fragile cooperavano miseria, disoccupazione,
scioperi, disordini nelle strade. Ci furono tentativi di golpe della
destra estrema: quello di Wolfgang Kapp (1920: fu bloccato dallo
sciopero generale) e quello di Hitler a Monaco, il «Putsch della
birreria» del 1923 (Hitler, arrestato e processato, finì in prigione,
dove scrisse Mein Kampf). Terroristi di destra uccisero, nel 1921, il
politico cattolico Matthias Erzberger e, l’anno dopo, il ministro degli
Esteri Walther Rathenau, entrambi colpevoli di aver sottoscritto gli
impegni di Versailles. Anche l’estrema sinistra tentò di rovesciare la
Repubblica per creare uno Stato socialista sul modello sovietico: nel
gennaio del 1919, l’esercito e le squadre armate dei Freikorps («Corpi
franchi», milizie di destra) soffocarono nel sangue la rivolta, e il 15
gennaio Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, fondatori del Partito
comunista tedesco (Kpd), furono arrestati e uccisi. Il presidente della
Repubblica, il socialista moderato Friedrich Ebert, aveva stretto un
patto con lo stato maggiore dell’esercito e aveva dato mano libera ai
Freikorps: questo «tradimento» segnò per sempre la frattura tra i
comunisti e i socialisti, che presentandosi divisi alle elezioni non
riusciranno a contrastare l’avanzata di Hitler.
Eppure, superato
l’inverno del 1923 («l’inverno dei cavoli» perché erano l’unica cosa da
mangiare), per la Repubblica di Weimar si apriva un periodo migliore.
Grazie agli americani, il piano Dawes — una sorta di anticipazione del
piano Marshall del secondo dopoguerra — fece arrivare in Germania una
grossa quantità di dollari come investimenti nelle industrie tedesche.
Per cinque o sei anni (dal 1924 al 1930) l’economia riprese a
funzionare, Berlino diventò una delle più vive e attraenti capitali
europee. Sono gli anni in cui il ministro degli Esteri Gustav Stresemann
ottenne una revisione del trattato di Versailles e fece entrare la
Germania nella Società delle Nazioni. Con la sua morte nell’ottobre del
1929 e l’arrivo in Europa delle conseguenze del crollo della Borsa di
Wall Street, gli «anni d’oro» finirono. La depressione produsse una
enorme disoccupazione e ad approfittare del malessere fu l’estrema
destra, il Partito nazista, le cui squadre d’assalto, le SA, seminavano
il terrore. L’ultimo atto si consumò nel gennaio 1933, quando il
presidente von Hindenburg affidava a Hitler, che aveva ottenuto il 33
per cento dei voti alle elezioni politiche del novembre 1932, l’incarico
di formare il governo. Dopo l’incendio del Parlamento (Reichstag) di
cui venne incolpato un comunista olandese (27 febbraio) e l’arresto dei
deputati della Kpd, nelle nuove elezioni del marzo Hitler ottenne il
43,9 per cento e con i voti dell’alleato Partito popolare nazionale
tedesco e del Centro cattolico fece approvare la legge dei pieni poteri
(24 marzo), che segnò l’inizio della dittatura.
Anni folli
All’inizio
del 1919, Harry Graf Kessler, aristocratico, diplomatico, collezionista
d’arte, scriveva nel suo diario: «Stiamo ballando sulla bocca di un
vulcano». E un americano in visita in quei giorni a Berlino raccontava
che tutti i locali notturni di Friedrichstrasse — bar, cabaret, sale da
ballo — erano pieni. Ma quando si usciva, ci si trovava in mezzo agli
scontri a fuoco fra comunisti spartachisti e soldati: questo però non
scoraggiava i frequentatori di quei luoghi di piacere.
L’aneddoto
si trova nel libro Es wird Nacht im Berlin der Wilden Zwanziger («Scende
la notte sulla Berlino dei folli anni Venti»), pubblicato da Taschen un
anno fa e ora uscito in edizione inglese e francese. Il testo è di
Boris Pofalla, scrittore e critico d’arte del quotidiano «Die Welt»,
mentre Robert Nippoldt è l’autore delle bellissime illustrazioni:
immagini che riprendono fotografie dell’epoca che Nippoldt traduce in un
contrastato bianco e nero a cui aggiunge campiture di beige a far da
sfondo, a suggerire luci e ombre. Correda il volume un Cd con
registrazioni d’epoca (Marlene Dietrich, Anita Berber, Jan Kiepura,
Lotte Lenya, Kurt Weill, Friedrich Holländer fra gli altri). Gioca, il
titolo del libro, sull’equivoco: può voler indicare le folli notti di
Berlino-Babilonia, champagne, droga, sesso; ma vuole anche alludere alla
buia notte della dittatura che nel 1933 chiuderà i brevi anni della
Repubblica di Weimar.
Certo, comunque, testo e immagini raccontano
il clima frenetico e tragico di quel periodo, di cui si ritrova l’eco
nei romanzi di Volker Kutscher (Feltrinelli pubblica adesso il secondo
volume della serie berlinese: La morte non fa rumore) tradotti
maestosamente nel film-tv Babylon-Berlin trasmesso da Sky Atlantic. Anni
durissimi con migliaia di reduci di guerra senza lavoro, famiglie senza
più casa né cibo. Il culmine venne toccato nel 1923, con la
iper-inflazione, quando un semplice pezzo di pane arrivò a costare
milioni di marchi. È quello il mondo rappresentato dai disegni e dai
dipinti di George Grosz, con i mutilati di guerra che chiedono
l’elemosina e i ricchi speculatori che bevono champagne.
Eppure,
le notti di Berlino continuavano a essere eccitanti... Ecco, in questa
contemporanea presenza di piaceri e tragedia, di lussuria e miseria,
risiede il fascino inquietante, perverso di quella Berlino. Il cui
simbolo, forse, è il ritratto della cantante di cabaret Anita Berber
eseguito da Otto Dix. Giovanissima, Anita aveva dato scandalo
presentandosi nuda sul palcoscenico; poi, molto prima di Marlene
Dietrich, andava in scena vestita da uomo, con lo smoking e il cappello a
cilindro. Nel dipinto, fasciata in un abito rosso fuoco, sguardo
sprezzante, la bocca rossa come una ferita, Anita Berber esibisce una
faccia bianca, quasi spettrale. Un effetto della cocaina, spiega lo
storico dell’arte Rainer Metzger. Del resto, il suo soprannome era «la
regina della neve». Morì nel 1928, a soli 29 anni per un eccesso di
droga e alcol.
Quando, nel 1924, la situazione tedesca aveva
cominciato a migliorare, Berlino, città senza tabù, divenne il luogo in
cui scrittori, intellettuali, artisti arrivavano per cercare stimoli e
ispirazione. È quello che si legge nel libro di Luigi Forte, Berlino
città d’altri (Neri Pozza), dove si raccontano i soggiorni berlinesi di
Joseph Roth, Luigi Pirandello, Simone Weil, Georges Simenon, Thomas
Wolfe, Vladimir Nabokov, Boris Pasternak. Senza dimenticare gli inglesi
Wystan Hugh Auden, Christopher Isherwood, Stephen Spender, che vissero a
Berlino negli ultimi anni della Repubblica. Isherwood nel 1929
raggiungeva l’amico Auden, che gli aveva descritto il clima euforico di
una città dove c’erano tanti ragazzi bellissimi e disponibili. Dei tre,
Isherwood rimase a Berlino fino alla primavera del 1933, quando ormai
Hitler era al potere. Ebbe il tempo di vedere la fine di Babilonia, e la
persecuzione di comunisti, omosessuali ed ebrei.
Di questa
tragica delusione parlano i suoi romanzi berlinesi, Mr Norris se ne va e
Addio a Berlino (quest’ultimo, nel 1972, sarebbe diventato il musical
Cabaret di Bob Fosse, con Liza Minnelli, vincitore di otto Oscar). Folle
e spensierata, comunque, è la Berlino di Lili Grün, la ragazza ebrea di
Vienna che arrivava in cerca di musica e divertimento. Il suo romanzo
Tutto è jazz (tradotto da Enrico Arosio per Keller) è una cronaca
allegra. La vita di Lili Grün fu invece tragica: fuggita da Berlino dopo
l’arrivo di Hitler, nel 1942 si trovava in Ucraina. Rastrellata insieme
agli altri ebrei dai nazisti che avevano invaso l’Unione Sovietica, fu
uccisa e gettata nelle fosse comuni.
Babylon Berlin
Berlino,
in quegli anni, è il cinema (Friedrich Wilhelm Murnau, Fritz Lang,
Georg Wilhelm Pabst), è il teatro (Max Reinhardt, Bertolt Brecht), è la
letteratura (Alfred Döblin, Erich Kästner, Heinrich e Klaus Mann, Else
Lasker-Schüler, Gottfried Benn e Vicki Baum), è l’arte (George Grosz,
Otto Dix, Christian Schad), è l’architettura e il design della scuola
del Bauhaus. Ma è anche la capitale dove tutto è permesso. A farci da
guida in quel mondo c’è il libro di Pofalla e Nippoldt, che fa il
ritratto di politici, uomini di cultura, attori e attrici, musicisti e
cantanti. Ma insieme elenca grandi magazzini, ristoranti, caffè, locali
notturni, club; descrive le mode che imponevano alle ragazze pettinature
a caschetto alla Louise Brooks e gonne corte (ma anche pantaloni da
uomo), mentre tutti sembravano impazzire per il jazz e i nuovi balli
(tango, fox-trot, charleston). Nel 1932, ricorda Pofalla, si contavano
119 licenze per night-club di lusso e 400 per bar e sale da ballo. I
ristoranti con licenza erano 20 mila, uno ogni 280 abitanti (a New York
la proporzione era di uno ogni 433). Notti illuminate, quelle di Berlino
ribattezzata «Città della luce»: nel Tiergarten, la ditta Osram aveva
eretto una Torre della luce alta 25 metri (ma nel 1939 il regime nazista
collocò al suo posto la Colonna della vittoria); sulle facciate e sulle
torri dei grandi magazzini Karstadt (1929) una cinquantina di colonne
di luce davano l’immagine di un imponente castello.
Per i piaceri
consentiti, il luogo preferito era Haus Vaterland vicino a
Potsdamerplatz: dodici ristoranti con le cucine del mondo, un cinema da
1.400 posti, una sala da ballo e una terrazza-ristorante in cui si
riproduceva il suono del temporale. Ma poi c’erano tutti i peccati
possibili, dalla cocaina al sesso in ogni sua declinazione e varietà. Fa
testo un libro uscito nel 1931, Berlino, guida alla capitale dei vizi
(ripubblicato di recente da be.bra Verlag), il cui autore, lo scrittore
Kurt Moreck, proponeva al lettore «in cerca di esperienze, avventure,
sensazioni forti» un viaggio nelle notti della moderna Babilonia, la
città in cui — scriveva Spender — «non ci sono vergini, nemmeno fra i
gatti». Notte e giorno, in ogni parte della città, si trovavano
prostitute, quelle registrate presso la polizia e sottoposte a controllo
medico, ma anche donne che avevano perso il lavoro, impiegate, madri di
famiglia che occasionalmente battevano il marciapiede. Uno studio
recente calcola che negli anni Venti c’erano circa 130 mila prostitute.
Ma altrettanto numerosi erano i gay: nel rapporto di un commissario di
polizia nel 1922 risultano 100 mila, di cui 25 mila minorenni.
Nonostante il paragrafo 175 del Codice penale, che puniva
l’omosessualità come un reato, c’erano circa 170 bar, pub, sale da ballo
per gay: il più famoso era l’Eldorado, per omosessuali maschi e femmine
e travestiti (ma era frequentato anche da eterosessuali, in cerca di
eccitanti novità). Il Top-Keller era solo per lesbiche. La più grande
sala da ballo per gay e lesbiche, il Nationalhof, proponeva serate a
tema come il «Ballo degli Apache».
Berlino era anche la sede
dell’Istituto per la ricerca sulla sessualità, fondato e diretto da
Magnus Hirschfeld, paladino della depenalizzazione dell’omosessualità,
morto in esilio in Francia. Luci, musiche, piaceri che non bastavano a
nascondere l’altra metà della capitale, il sotto-mondo della miseria.
Berlino era divisa in due, l’Ovest ricco e pieno di bar e cabaret alla
moda, l’Est miserabile e disperato. A Est c’erano mense per poveri e
dormitori pubblici affollati. Alcuni dei quali, con lo spirito caustico
dei berlinesi, erano stati ribattezzati con i nomi di locali di lusso:
Le Palme, Sala da ballo Froebel.
Marlene se ne va
La sera
del 1° aprile 1930, al Gloria Palast di Berlino, ci fu la prima mondiale
del film L’angelo azzurro di Josef von Sternberg, con Marlene Dietrich
nel ruolo di Lola-Lola, la cantante che porta alla rovina il timido e
puritano professor Unrat. Quando si accesero le luci, applausi e
ovazioni salutarono la nuova divina. Che, subito dopo, correva a
prendere il treno per Amburgo, da dove si sarebbe imbarcata per
l’America. Immagine simbolo della Germania sull’orlo dell’abisso,
Marlene arrivava al cinema dopo qualche apparizione in spettacoli di
varietà. Per il provino, cantò un fox-trot da un film appena uscito, Wer
wird denn weinen, wenn man auseinander geht («Perché piangere se uno se
ne va, tanto all’angolo di strada ne trovi subito un altro...»). La
sfacciata postura e il canto allusivo affascinarono von Sternberg.
Molti
anni dopo, nelle sue memorie piene di bugie, di falsità e di
risentimenti, Leni Riefenstahl avrebbe raccontato che anche lei aveva
sostenuto il provino, «ma il regista cercava una puttana, perciò scelse
la Dietrich». Grazie a quel film Marlene sarebbe diventata una star
internazionale nemica giurata del nazismo, la Riefenstahl sarebbe stata
la regista prediletta di Hitler.