il manifesto 9.2.19
Parigi, non più cara
Crisi
Italia-Francia. Un inquietante precedente storico. L’attacco alla
Francia del 1940 fu chiamato dagli antifascisti «la pugnalata alla
schiena». E una larga parte del mondo intellettuale, che alla cultura
d’Oltralpe si era sempre ispirato, versò lacrime, almeno nel foro
interiore: nessuno ebbe il coraggio di esporsi
di Angelo d'Orsi
Le
prime pagine dei quotidiani di ieri 8, febbraio, dal Figaro a Le Monde,
da Libération al cattolicissimo La Croix, sono tutte prese dalla «crisi
diplomatica senza precedenti» tra Francia e Italia. Sono,
«fortunatamente», a Parigi, e i colleghi francesi mi offrono
scherzosamente «asilo politico». Sorrido, ma non troppo. Mi viene in
mente quello che Alfassio Grimaldi e Bozzetti, in un libro del 1974,
chiamarono «il giorno della follia», il 10 giugno 1940. L’Istituto Luce,
realizzò poco dopo un vibrante montaggio del discorso del duce, di cui
si consiglia la visione: mostra il duce in tenuta da comandante militare
(non si sa di quale arma) con le mani alla cintola, la mascella più
volitiva che mai, e la bocca feroce, che fa in pompa magna, il suo
annuncio al «popolo» adunato sotto il balcone di Palazzo Venezia:
«Un’ora
segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle
decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata
consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in
campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente,
che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato
l’esistenza medesima del popolo italiano».
La Francia era in quel
momento piegata: il repentino crollo delle difese davanti alla micidiale
macchina da guerra germanica, finì per vincere le ultime esitazioni di
Mussolini, fino ad allora incerto sull’ingresso nel conflitto, un passo a
cui tuttavia l’alleanza con Hitler non lo obbligava avendo i tedeschi
avviato nel settembre ’39 le ostilità senza consultare l’alleato
italiano, come invece prevedeva il Patto d’acciaio del maggio ’39.
L’attacco
alla Francia fu chiamato dagli antifascisti «la pugnalata alla
schiena». E una larga parte del mondo intellettuale, che alla cultura
d’Oltralpe si era sempre ispirato, versò lacrime, almeno nel foro
interiore: nessuno ebbe il coraggio di esporsi. E del resto il duce,
nella sua megalomania, apparve refrattario agli avvertimenti dei
responsabili delle tre Armi, che lo sconsigliavano. La Francia gli
pareva, a differenza dell’Inghilterra (che però sembrava lontana), un
boccone facile da trangugiare: e a lui sarebbero bastati un pugno di
morti per sedersi al tavolo delle trattative, nella convinzione che il
conflitto sarebbe stato rapido, come lasciavano credere le prime
impressionanti vittorie naziste nel loro blitzkrieg. Nella testa del
duce, almeno Nizza e Mentone, sarebbero state facilmente recuperate al
territorio patrio…. Le cose andarono diversamente, come è noto.
E la pugnalata ai «cugini» francesi segnò l’avvio della catastrofe del regime.
Del
resto, anche prima di quel gesto improvvido, nel dibattito in seno al
fascismo, le pulsioni antifrancesi erano state forti: era la stessa
odiata Francia degli «immortali princìpi» irrisi da Mussolini molti anni
prima. E l’intervento del ‘15, sebbene accanto alla Francia, non aveva
mitigato le polemiche contro la «patria della democrazia», da parte di
uno schieramento ideologico che faceva capo ai nazionalisti, che, a
guerra archiviata, avrebbe condizionato e poi diretto le scelte del
fascismo al potere. Anche se non erano mancati coloro che, rispolverando
le camicie rosse garibaldine, si erano arruolati nell’esercito di
Parigi contro i «crucchi».
E nel ’29 fu a Parigi che Carlo
Rosselli fondò Giustizia e Libertà, colonna della «Concentrazione
Antifascista». E in tutta la Francia trovarono rifugio personaggi
eminenti da Turati a Silvo Trentin, da Lauro De Bosis a Salvemini…
Nell’Italia
veleggiante verso l’autarchia, non furono poche le polemiche verso le
«francioserie» (Ugo Ojetti arrivò a parlare di «mal francese», per
indicare l’influsso pernicioso, a suo dire, di Parigi sull’arte
italiana). E dopo le sanzioni imposte all’Italia per l’aggressione
all’Etiopia, i francesi divennero un bersaglio facile, accanto agli
inglesi: il senso era: voi le colonie ce l’avete, ora volete impedire
che noi ne abbiamo?
Parole e pensieri in qualche modo evocate
nella nostra mente davanti alle bizzarre (e pericolose diplomaticamente)
esternazioni di alcuni leader M5S, i quali tentano goffamente di
presentare una Italia anticolonialista e dunque antifrancese. Ma è
difficile polemizzare con i francesi che respingono i migranti (vero),
se l’Italia poi li blocca in mare, o peggio li rimanda nei lager libici,
a morire di fame e torture. E va ricordata quanto meno la guerra di
Libia in cui una pur recalcitrante l’Italia si accodò, bipartisan, a
Sarkozy. Anche Macron è, con maggior prudenza, un ultraliberista
colonialista. E le nostre imprese petrolifere hanno una condotta
eticamente più corretta di quella della Total o della Erg? Ma «il
governo del cambiamento» ha bisogno, come ogni regime in costruzione, di
individuare un bersaglio esterno, contro cui indirizzare la rabbia
degli esclusi. Una storia che conosciamo, e che non ha portato mai bene.