il manifesto 3.2.19
Il ritorno oscuro dell’elettroshock
La
scarica elettrica al cervello sembra una barbarie del passato. Invece
divide ancora gli scienziati. È stato inventato 80 anni fa a Roma, da
Ugo Cerletti e Lucio Bini come «metodo dell’annichilimento». Nell’ultimo
numero del «British Medical Journal» la discussione in corso
di Andrea Capocci
Tre
volte l’anno, l’Istituto di Psichiatria del King’s College di Londra
organizza i «Maudsley Debates». Si tratta di dibattiti pubblici su
tematiche di largo impatto sociale, in cui il pubblico è chiamato a
schierarsi a favore o contro la sua tesi dopo le presentazioni di due
esperti. Con un telecomando il pubblico in sala esprime la sua
posizione, sia prima che dopo il dibattito. Si tratta di discussioni di
alto livello, tanto che il prestigioso British Medical Journal (Bmj) ne
dà regolare resoconto.
COME RIPORTA l’ultimo numero del BMJ, la
57/a edizione del dibattito verteva sull’uso della terapia
elettroconvulsivante, più nota come «elettroshock»: il suo uso medico è
ammissibile? A favore del suo uso, è intervenuto lo psichiatra Sameer
Jauhar dell’Istituto di Psichiatria dello stesso King’s College. Giocava
invece in trasferta l’oppositore John Read, psichiatra anche lui ma
all’università di East London. Il pubblico, telecomando alla mano,
all’inizio del dibattito si è schierato decisamente con il beniamino di
casa.
Questo schieramento, in Italia, può apparire sorprendente.
Nel nostro immaginario collettivo, l’elettroshock è una terapia
appartenente a epoche oscure, come il salasso o la lobotomia. Molti
ritengono (sbagliando) che l’elettroshock sia stato addirittura bandito
dalla legge Basaglia come una barbara pseudoscienza. Invece, il
trattamento è ancora utilizzato, all’estero e pure in Italia.
D’altronde, l’elettroshock è stato inventato proprio ottant’anni fa a
Roma, da Ugo Cerletti e Lucio Bini. Lo sperimentarono per la prima volta
su un quarantenne senza fissa dimora.
Secondo uno studio della
ricercatrice norvegese Kari Ann Leiknes del 2012, Usa, Belgio, Norvegia e
Australia sono oggi i paesi in cui l’uso dell’elettroshock è più
comune. In America tocca a circa duecentomila persone ogni anno.
D’altronde, le assicurazioni private statunitensi preferiscono
rimborsare l’elettroshock rispetto ad altre terapie. In Italia, secondo
un’inchiesta dell’Espresso di un anno fa, ci passano circa trecento
persone ogni anno. In maggioranza si tratta di individui gravemente
depressi. In quasi tutti i casi si fa sotto anestesia, anche se in molti
paesi asiatici questa precauzione è ancora rara.
NELLA COMUNITÀ
scientifica, però, è in corso una sorta di riabilitazione
dell’elettroshock ed è probabile che dopo anni di calo, nel prossimo
futuro il trattamento torni di moda. Ci sono ragioni reali per un simile
cambio di rotta?
In ottant’anni, le conoscenze sugli effetti
biochimici dell’elettroshock non sono progredite granché. Si sa che la
«scossa» agisce su alcune proteine coinvolte nella trasmissione dei
segnali neuronali, e secondo qualche ricercatore sarebbe anche in grado
di stimolare la crescita dei neuroni. Ma come questi fattori esattamente
influenzino l’umore è ancora ignoto.
Si sa qualcosa in più sugli
effetti. Secondo Jauhar, che nel dibattito londinese perorava la causa
del trattamento, molte ricerche dimostrano che nei pazienti gravemente
depressi l’elettroshock funziona meglio dei farmaci. Anche Read ha
citato la letteratura scientifica, ma si è limitato agli studi condotti
secondo i corretti standard scientifici. Infatti, stabilire che «il
paziente migliora» non è sufficiente per accertarne le cause. Occorre
confrontare gli effetti del trattamento con quelli di un placebo
(un’anestesia generale senza elettroshock). Come ha mostrato Read, solo
una decina di studi è stata condotta secondo le regole. E solo quattro
hanno indagato gli effetti terapeutici a lungo termine. L’ultimo risale
al 1985.
DA QUESTI STUDI «DOC», emerge una realtà diversa da
quella descritta da Jauhar. L’elettroshock ha un effetto benefico molto
debole durante la somministrazione delle scariche. Non appena il
trattamento finisce, svaniscono anche gli effetti e la percentuale di
ricadute è la stessa che si osserva con i trattamenti tradizionali.
«Dopo ottanta anni, non c’è alcuna prova che l’elettroshock abbia
effetti duraturi», ha affermato Read.
Inoltre, gli effetti
collaterali sono assai più marcati di quanto dicano i suoi fautori.
L’elettroshock provoca un notevole stress per il sistema
cardiocircolatorio, con un aumento relativo dei rischi di infarto. Anche
l’impatto sulla memoria è controverso. Negli studi monitorati da Read,
«la percentuale di casi di perdita persistente o permanente della
memoria varia tra il 29% e il 55%». Secondo i fautori dell’elettroshock
l’amnesia dipende dalla depressione e non dal trattamento. Dimenticano
che la perdita di memoria è stata a lungo considerata uno degli
obiettivi dell’elettroshock e proprio a essa venivano attribuiti gli
effetti benefici. Lo stesso Bini negli anni ’40 mise a punto il
cosiddetto «metodo dell’annichilimento», basato sulla quasi totale
amnesia per i pazienti più refrattari attraverso ripetuti elettroshock.
MOLTI
SCIENZIATI, però, sorvolano e preferiscono attribuire la diffidenza a
una rappresentazione inesatta della terapia. Puntano il dito soprattutto
contro un film Qualcuno volò sul nido del cuculo, che da noi uscì
proprio mentre Basaglia sperimentava l’anti-psichiatria a Trieste. In
quel film, si mostrava la funzione repressiva più che terapeutica del
trattamento sanitario. Due anni dopo, la legge Basaglia abolì i manicomi
e nacque il Servizio sanitario nazionale. Forse non è un caso che la
sua crisi, il ritorno delle mutue private (anche in Italia) e il
riorientamento scientifico avvengano proprio nello stesso periodo.
Dopo
un’ora di discussione serrata, alla fine il duello del King’s College è
andato a Read. I dati presentati sono apparsi più convincenti e lo
scienziato è stato in grado di ribaltare il pronostico iniziale. A colpi
di «evidence-based medicine» il 57° Maudsley Debate se lo è aggiudicato
lui.