il manifesto 1.2.19
Un’autobiografia comunista. Senza perdere il sorriso
Scaffale.
«Rosso è il cammino» di Pino Santarelli per Bordeaux edizioni. «Ci
sentivamo cittadini del mondo». La memoria di una stagione ribelle,
quando dalle borgate di Roma si guardava al Vietnam, che per il
protagonista non si è mai conclusa
di Luciana Castellina
Ci
sono autobiografie e autobiografie, quelle che raccontano solo di sé
stessi e quelle che raccontano di sé stessi in rapporto agli umani che
hanno incontrato, con cui hanno operato, hanno fatto amicizia, si sono
combattuti e hanno combattuto: che, insomma, ci danno conto di uno
spaccato sociale dentro un tempo storico che così prende vita e ci fa
capire quanto i libri di storia spesso non riescono a fare. Quelle
autobiografie, insomma, che – come scrive Sandro Portelli
nell’introduzione – «non sono atti di narcisismo».
Il libro di
Pino Santarelli – Rosso è il cammino (Bordeaux edizioni, pp. 284, euro
18) – appartiene alla seconda specie. Attraverso le vicende della sua
vita ci restituisce, con la naturalezza di una chiacchiera, la storia
straordinaria e, aimè, perduta, della Roma comunista: del Pci ma anche
del ’68, del Manifesto e del Pdup, fra gli anni ’50 e gli ‘80.
DICO
STRAORDINARIA perché chi l’ha vissuta è stata una generazione che ha
dato senso alla propria vita attraverso la battaglia per un mondo
diverso e migliore, riuscendo a collegare la borgata romana con tutti
gli altri continenti. «Ci sentivamo cittadini del mondo , di un mondo di
cui – scrive Pino Santarelli – facevano parte insieme il Vietnam e la
via Casilina». E proprio per questo, nonostante la durezza della povertà
che ancora dominava nelle periferie proletarie di quell’epoca, i
giovani erano felici.
Mi scuso in anticipo con i lettori perché
questa che scrivo non è una recensione come si deve, è, piuttosto un mio
personale amarcord, perché le vicende di cui parla Pino sono – se si
eccettua il tempo della sua infanzia a Sgurgola Marsicana e nonostante
io abbia dieci anni più di lui e abitassi in un quartiere borghese e non
alla borgata Alessandrina – le stesse che ho vissuto io. Direte che le
differenze che ho elencato non sono di poco conto, ed è vero. Ma non
quanto potreste credere perché Pino parla a lungo della Fgci, e io
nell’organizzazione della gioventù comunista sono stata, dal ’47, prima
in quella romana e poi in quella nazionale, quasi 15 anni.
E,
allora, il nostro mondo erano quasi esclusivamente le borgate, gli
studenti rappresentando fra gli iscritti, e a lungo, neppure il 2%. Le
borgate dove, lo ricordo bene, proprio come racconta Pino, nei circoli
così come nelle sezioni adulte, prima di occuparsi della fontanella
all’angolo che non funzionava e bisognava lottare perché il Comune la
riparasse, si cominciava prendendo in esame quanto accadeva nel mondo,
poi in Europa, poi in Italia, quindi a Roma e, infine, all’angolo della
propria strada. Perché era per questo che ci si sentiva forti e non dei
poveracci: quella vertenza sulla fontanella diventata un pezzo di un
grande movimento di lotta internazionale di cui noi eravamo
protagonisti.
LEGGENDO IL LIBRO mi sono emozionata perché, passo
passo, Pino ricorda eventi che abbiamo vissuto assieme: la federazione
romana del Pci, i suoi dirigenti di allora, da Natoli fino al
leggendario Gigetto, gobbo e spiritosissimo, a lungo telefonista, prima a
Sant’Andrea della Valle e poi a via dei Frentani; il Mandrione, un
pezzo di borgata malfamato e la vicina Torpignattara, presidiata dal
circolo Fgci modello, solo lì erano iscritte 500 ragazze; la grande
manifestazione degli edili, la prima protesta sindacale di una crescente
massa di lavoratori che il «sacco urbanistico della capitale»
reclutava, in quei primi anni ’60, nelle campagne della Ciociaria e che
ogni giorno arrivavano all’alba in città per andare a lavorare nei
cantieri che stavano sorgendo come funghi, senza protezione alcuna.
Fu
una manifestazione storica, quella che ricorda Pino, perché gli edili
ammassati a Piazza S.S.Apostoli, furono improvvisamente attaccati dalla
polizia a cavallo. Sia io che Pino (con noi, incinta, anche Paola
Scarnati, oggi direttrice dell’Archivio audiovisivo del movimento
operaio), finimmo fianco a fianco, fermati con altri 500 nella caserma
di Castro Pretorio (e io, insieme ad altri 30 edili, mi feci due mesi di
prigione ). Trent’anni dopo, quando i documenti degli archivi della Cia
furono declassificati, si scoprì che si era trattato di una
provocazione ordita dalla Gladio, organismo creato dai servizi segreti
nostri e americani.
Ma poi c’è anche la rivolta giovanile, quella
contro il governo Tambroni, che fu chiamata delle «magliette a righe»,
così chiamate per indicare un abbigliamento che i vecchi comunisti,
diffidenti, giudicavano «americano»; e dovettero ricredersi perché è dai
più giovani che quel famigerato capo d’abbigliamento indossavano che
partì la storica e sanguinosa insorgenza.
Poi vengono i primi
dissensi col nostro grande partito, le emozioni vissute, di nuovo
assieme, quando gli applausi all’intervento polemico di Ingrao
sommersero i delegati dell’XI congresso, nel 1966. E, come sapete, finì
con la nostra radiazione e il Manifesto e quindi il Pdup, le deludenti
ma anche bellissime esperienze in cui ci ritrovammo a Roma in tanti,
dove intere sezioni avevano scelto la nostra strada.
LA VITA DI
PINO SANTARELLI è la storia di un giovane comunista del dopoguerra
rimasto sempre coerentemente comunista. Ma nel libro Pino ci racconta
anche di tante altre cose, fra queste le sue innumerevoli professioni,
fra cui l’apprendista elettricista, il fruttivendolo, il meccanico, lo
specialista di macchinari sanitari delicatissimi al Policnico (e qui
compare lo storico collettivo di medicina de Il Manifesto, il più forte
nucleo di facoltà del ’68). E però anche, e non per poco tempo, barista
in un paio dei più noti night club di Roma. È un’aggiunta importante:
dimostra, per un verso, la «normalità» dei comunisti, ragazzi come tanti
altri, non una noiosa ristretta avanguardia; e però, insieme, anche la
loro eccezionalità: impegnarsi a fondo nella politica (questa attività
oggi così insultata) e però non perdere il gusto per i vantaggi offerti
dalla dolce vita romana degli anni ’60.
P.S. Oggi, sia io che
Pino, ci troviamo (o ritroviamo) nella sezione del II municipio di Roma
di Sinistra Italiana. I comunisti, come sapete, sono cocciuti.