Corriere 1.2.19
Memoria
La lezione dei maestri antifascisti
Le storie di dodici insegnanti che si opposero alla dittatura nel libro di Massimo Castoldi
Lo studioso porta alla luce per Donzelli esempi eroici di educatori perseguitati e uccisi dal regime di Mussolini
Quanto
pesano la dignità, il coraggio di un maestro per far sì che i bambini a
lui affidati crescano nel rispetto delle regole dei rapporti umani
cancellati dal fascismo
di Corrado Stajano
Com’è
importante la figura del maestro in una società civile. Sotto una
dittatura, poi, quanto pesano la sua dignità, il suo coraggio per far sì
che i bambini a lui affidati crescano nel rispetto delle regole dei
rapporti umani cancellate dal regime, qualsiasi regime. È uscito da
Donzelli un libro di Massimo Castoldi, professore di Filologia italiana
all’Università di Pavia, studioso della memorialistica della Resistenza:
Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti . Un libro amaro,
doloroso, commovente, utile a far capire perché quel passato deve
davvero passare per sempre, soprattutto oggi che il fascismo sembra
venga guardato con indulgenza. (Sere fa, durante il programma di Lilli
Gruber, Luciano Canfora spiegò con limpidezza a un giornalista di idee
nerastre, ignorante anche nel linguaggio, che cosa significa la parola
fascistoide, purtroppo tornata nel clima di una certa politica del
nostro tempo).
Nei primi vent’anni del Novecento, scrive Massimo
Castoldi, il maestro elementare aveva acquistato una centralità nella
vita socioculturale del Paese: era impegnato nella lotta contro
l’analfabetismo, per un’istruzione sempre più diffusa, per cercar di
sanare i mali dell’epoca, le malattie, la fame, la precarietà delle
condizioni igienico-sanitarie. Compito del maestro non era soltanto
quello di insegnare a leggere e a scrivere, ma anche a vivere meglio, a
creare una comunità in cui gli uomini e le donne fossero rispettosi di
se stessi e degli altri.
Sono gli anni delle leghe contadine,
delle Società di mutuo soccorso, delle università popolari, dei circoli
operai, delle cooperative, delle Camere del lavoro, delle casse rurali,
del socialismo umanitario nascente.
Poi il fascismo che frantumò
ogni idea di libertà: «I bimbi d’Italia si chiaman balilla». Piccoli
soldati in uniforme, con moschettini modello ’38, forse fieri del loro
dissennato giuramento d’obbligo: «Giuro di eseguire gli ordini del Duce e
di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la
causa della Rivoluzione fascista». Poveri bambini ignari. Coi maestri in
orbace e il pugnaletto alla cintura.
Ma c’erano anche gli altri, i
disubbidienti della libertà che spesso rischiavano il posto e anche la
vita, come Carlo Cammeo, trucidato nel 1921 a Pisa sulla soglia della
sua classe, come Salvatore Principato, fucilato dai fascisti della
«Muti» in piazzale Loreto a Milano, per ordine dei tedeschi, nel 1944.
Il libro non vuole fare un elenco di chi si oppose, vittima della
dittatura fascista. È la storia di dodici maestri e maestre che seppero
far fronte, ma è anche l’analisi di una società minuta e spesso
sconosciuta.
Sono vicende tristi, quelle raccontate da Massimo
Castoldi. Come la vita di Alda Costa, la maestra di cui scrisse Giorgio
Bassani nelle Cinque storie ferraresi: la Costa è la Clelia Trotti del
racconto, socialista riformista, appassionata alla condizione sociale
dei bambini, contro la guerra, vittima delle persecuzioni dei fascisti
che la insultavano sui loro giornali e a Bologna, nel 1922,
l’aggredirono in trecento, le strapparono le vesti, le sputarono
addosso, la costrinsero a bere l’olio di ricino perché si era rifiutata
di inneggiare al fascismo. Fu denunziata, non rispettava l’obbligo del
saluto romano e seguitava a rivendicare la sua fede socialista. Sospesa,
licenziata, inviata al confino alle isole Tremiti per cinque anni,
arrestata di nuovo quando il federale fascista Ghisellini fu giustiziato
a Ferrara: la vicenda è narrata nel film La lunga notte del ’43.
Popolano
il libro nomi di uomini e di donne che non sono passati alla storia, ma
che spiegano nel profondo che cosa fu il fascismo. Anselmo Cessi, un
maestro cattolico che infastidiva i fascisti per la sua appassionata
azione sociale nel Mantovano, fu ucciso nel 1926 mentre passeggiava con
la moglie a Castel Goffredo; Mariangela Maccioni, una maestra
antifascista sarda — 90 alunni — angariata perché si era rifiutata di
fare una lezione sul Duce, sospesa più volte dall’insegnamento. Alla sua
morte scrisse sul «Ponte» Salvatore Cambosu: «C’era in lei la forza e
la gentilezza antica dell’ulivo».
E poi Abigaille Zanetta,
socialista, antimilitarista, comunista, espulsa dalla scuola dal podestà
di Milano Ernesto Belloni, «per non sufficiente adattamento alle
direttive politiche del governo», arrestata, incarcerata, cercò di
sopravvivere con qualche lezione privata. Non ebbe neppure la gioia
della Liberazione. Morì un mese prima.
Con il medesimo destino di
perseguitati coraggiosi, tra gli altri, Fabio Maffi, Carlo Fontana,
Aurelio Castoldi, Giuseppe Latronico, Anna Botto, la maestra di Vigevano
che portò l’intera scolaresca alla messa funebre per il partigiano
Carlo Alberto Crespi e finì poi a Ravensbrück nel forno crematorio,
Salvatore Principato, già ricordato, uno dei quindici martiri di
piazzale Loreto, intellettuale attivo nel lavoro culturale, partigiano
socialista, dentro e fuori di prigione. Il suo nome resta, per sempre,
nelle poesie di Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Franco Loi.
Quanto
contano le parole nel far rivivere la memoria smarrita della libertà e
della giustizia. Le pagine di questo libro lo documentano.