il manifesto 13.2.19
Foibe, il revisionismo storico forma della politica
di Davide Conti
Per
settimane la classe politica italiana si è cimentata nell’uso politico
della storia, misurato strumentalmente sulla torsione del passato ad uso
pubblico del quotidiano e sulla caccia al «negazionista».
Così
alla fine le celebrazioni del Giorno del ricordo si sono addirittura
concluse a Basovizza con le parole del presidente del Parlamento europeo
Antonio Tajani: «Viva Trieste, viva l’Istria italiana, viva la Dalmazia
italiana, viva gli esuli italiani, viva gli eredi degli esuli
italiani». Contestualmente il ministro dell’Interno Salvini affermava
che «i bimbi morti nelle foibe e i bimbi di Auschwitz sono uguali»
cercando di stabilire una simmetria semantica delegittimante tra
nazifascisti e partigiani di Tito, ovvero tra le forze dell’Asse e
quelle Alleate formate da Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia e appunto
Jugoslavia.
Il Presidente della Repubblica della Slovenia Borut
Pahor ha dovuto scrivere una lettera al Presidente della Repubblica
Sergio Mattarella, che pure al Quirinale aveva parlato delle foibe come
di «odio etnico» paragonandole alla Risiera di San Sabba, esprimendo
«preoccupazione per alcune inaccettabili dichiarazioni di alti
rappresentanti della Repubblica italiana in occasione della Giornata del
ricordo che danno l’impressione che gli eventi legati alle foibe siano
stati una forma di pulizia etnica».
Il premier sloveno Marjan
Sarec ha definito le parole di Tajani «un revisionismo storico senza
precedenti» ricordando un punto pervicacemente omesso dalle celebrazioni
ufficiali: «Il fascismo era un fatto, e aveva lo scopo di distruggere
il popolo sloveno». Nel frattempo quasi tutti i deputati europei della
Croazia hanno condannato le dichiarazioni di Tajani definendole «una
vergogna» – come il deputato Ivan Jakovic – o «un relitto dei tempi
passati» secondo Dubravka Suica.
Le successive scuse pubbliche di
Tajani a Strasburgo non modificano la sostanza di quel cortocircuito
storico-memoriale che ha avuto innesco con l’istituzione del Giorno del
ricordo e con le modalità della sua celebrazione pubblica.
Era già
accaduto nel 2007 quando il Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano aveva parlato delle violenze sul confine italo-jugoslavo come
di «un moto di odio e furia sanguinaria che assunse i sinistri contorni
della pulizia etnica» aggiungendo poi un’esplicita critica alla pace di
Parigi «un disegno annessionistico slavo» che «prevalse innanzitutto
nel trattato di pace del 1947». L’allora presidente croato, Stipe Mesic,
si disse «costernato» da quelle parole in cui era «impossibile non
intravedere elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e
revanscismo». Protestò anche il grande scrittore Boris Pahor.
Fu
il ministro degli Esteri D’Alema – già Presidente del Consiglio nel 1999
durante i bombardamenti Nato in Serbia – ad intervenire in difesa del
Quirinale nell’ottica di una ricomposizione dell’incidente diplomatico
che trovò negli anni successivi la sua espressione nell’incontro a
Trieste di Napolitano con i presidenti croato e sloveno Josipovic e Turk
in occasione della visita congiunta alla «Narodni Dom», la Casa del
popolo data alle fiamme dai fascisti italiani il 13 luglio 1920, e al
monumento all’esodo degli istriano-fiumano-dalmati italiani.
Quel
passaggio avrebbe dovuto rappresentare una misura feconda non solo per
le relazioni Roma-Lubiana-Zagabria ma soprattutto per l’Italia, come
antidoto al ritorno di istanze egoistico-sociali e di «spiriti» politici
regressivi e razzisti che, in assenza di compiuti conti con la storia e
con il triste lascito fascista nella nostra e nelle altrui società,
avranno sempre la possibilità di riemergere se si troveranno di fronte
solo il guscio vuoto della retorica celebrativa. Siamo certi, in un
momento storico in cui in tutta l’Europa i nazionalismi, le
disuguaglianze sociali e le discriminazioni etniche hanno assunto
dimensioni molto gravi, che il colloquio telefonico intervenuto tra
Mattarella e Napolitano attorno al Giorno del ricordo abbia avuto al
centro questi argomenti di fondo anziché – lo speriamo vivamente – le
rivendicazioni dell’italianità della Dalmazia e dell’Istria ascoltate
domenica a Basovizza.
Perché la storia del confine italo-jugoslavo
racchiude un passaggio centrale del novecento italiano ed europeo. In
quelle terre il fascismo riuscì a trarre forza ma soprattutto
legittimità ancora prima di salire al potere. «In altre plaghe – scrisse
Mussolini nel 1920 – i fasci di combattimento sono appena una promessa.
Nella Venezia-Giulia sono l’elemento preponderante e dominante della
situazione politica». I crimini di guerra italiani degli anni ’40 ne
sarebbero stati la tragica conseguenza.
In quelle plaghe, oggi non
più solo italiane ma europee, la fratellanza tra i popoli, enorme
lascito storico delle tante Resistenze combattute nel nostro continente,
dovranno tornare ad essere gli unici elementi di una nuova
cittadinanza.