Il Fatto 9.2.19
Finlandia, il “reddito di base” aiuta la salute, ma non il lavoro
Meglio solo la qualità della vita (però l’Italia non c’entra)
di Stefano Feltri
Il
reddito di base, pagato dallo Stato senza condizioni, migliora la
salute e l’umore ma non aiuta a trovare lavoro (e neppure penalizza,
però). È la conclusione a cui arriva l’agenzia Kela che gestisce il
welfare della Finlandia dopo un esperimento durato due anni (2017-2018) e
che ha coinvolto 2.000 beneficiari i cui comportamenti sono stati
confrontati con quelli di un “gruppo di controllo” di 173.000 persone
che hanno continuato a ricevere i normali ammortizzatori sociali. Il
governo finlandese dell’ex premier Juha Sipilä aveva un obiettivo chiaro
con questo esperimento: valutare se un reddito di base, pagato senza
pretendere in cambio gli impegni alla formazione o ad accettare offerte
di lavoro previste dal reddito di cittadinanza italiano, fosse più
efficace nel permettere ai beneficiari di trovare un lavoro rispetto ai
normali sussidi di disoccupazione.
I 2.000 beneficiari hanno
quindi ricevuto 560 euro al mese per due anni a prescindere che fossero
disoccupati o trovassero un lavoro, che lo cercassero o che rimanessero a
casa. I normali sostegni pubblici si riducono se chi li riceve riesce
ad aumentare i propri redditi da lavoro e spesso prevedono obblighi o
hanno requisiti che finiscono per condizionare l’atteggiamento del
beneficiario verso il lavoro (chi prende la cassa integrazione in
Italia, per esempio, non può lavorare nel frattempo). L’ipotesi da
verificare in Finlandia era la seguente: un reddito di base rende i
lavoratori più inclini a lavorare, anche con orari e salari ridotti, o a
mettersi in proprio e rischiare perché si può contare su un minimo
garantito? O, viceversa, disincentiva il lavoro perché è meglio prendere
poco senza far nulla piuttosto che faticare per salari bassi?
Lo
scopo dell’esperimento è capire se conviene riformare il sistema di
welfare finlandese e sostituire alcuni degli attuali sostegni con un
reddito di base (mentre in Italia, finora, il reddito di cittadinanza è
stato introdotto in aggiunta ai sussidi esistenti, con l’eccezione del
Rei che viene inglobato). I risultati sono sorprendenti e
inequivocabili, anche se si tratta di uno studio preliminare che dovrà
essere approfondito. In un anno i beneficiari del reddito di base
lavorano meno di mezza giornata in più degli altri (le persone nel
gruppo di controllo che continuano a ricevere i normali ammortizzatori
sociali): 49,64 giorni lavorati nel 2017 contro 49,25. E se sono liberi
professionisti, guadagnano in media 21 euro annui in meno: 4.230 contro
4.251. “L’esperimento non ha effetti sulle condizioni lavorative nel
primo anno”, scrivono Kari Hamalainen, Ohto Kanninen, Miska Simanainen,
Jouko Verho nel report.
Ci sono dei benefici osservabili, però.
Chi riceve il reddito di base è molto meno stressato di chi è nel
sistema tradizionale: si dichiara i buona o eccellente salute nel 55,4
per cento dei casi contro il 46,2, ha una capacità di concentrarsi buona
o eccellente nel 56,7 per cento dei casi contro il 55,7, dice di
“vivere in modo confortevole” nell’11,9 per cento delle risposte, chi
non prende il reddito di base si ferma al 7,4.
Emerge anche un
effetto collaterale: nell’esperimento chi riceve il reddito di base ha
comunque diritto agli ammortizzatori sociali di entità superiore, ma è
meno propenso a chiederli, ma questo forse si spiega con una riforma
della burocrazia del settore entrata in vigore proprio mentre partiva
l’esperimento.
La Finlandia ha un tasso di disoccupazione del 7,6
per cento, l’Italia del 9,7, le due economie sono molto diverse. Ma due
lezioni sembrano chiare dall’esperimento. Primo: non è affatto detto che
garantire un livello minimo di reddito cambi l’approccio al mercato del
lavoro. Secondo, e più importante: quando si vuole fare una riforma
complessa, è bene aver chiari gli obiettivi in modo da poter stabilire
se l’intervento produce i risultati sperati o meno.