giovedì 7 febbraio 2019

Il Fatto 7.2.19
Perché i giornali stanno soffrendo
Web e non solo - Negli anni della crisi i consumi delle famiglie sono scesi, quelli per la cultura sono crollati. La conoscenza è più democratica, ma sempre meno persone la cercano nei canali tradizionali. E l’attendibilità non conta
di Domenico De Masi


In cinque anni Repubblica e Corriere hanno perso 45.000 copie; La Stampa 34.000. Sia in versione cartacea che in versione digitale. Anche tutti gli altri giornali sono in calo. Repubblica ha sostituito Mario Calabresi (49 anni) che ha tentato innovazione e diversificazione con Carlo Verdelli (61 anni) che non è neppure sui social network.
La crisi dei giornali, che tutti i commentatori considerano irreversibile, viene attribuita a quattro cause: la decrescente credibilità dei giornalisti; l’eccessiva somiglianza e sovrapponibilità dei giornali; il proliferare delle fonti informative non cartacee, il progressivo prosciugarsi delle fonti di finanziamento, tutte in declino (la pubblicità, gli abbonamenti, le edicole, i finanziamenti pubblici, gli imprenditori che investono a fondo perduto).
Dal punto di vista sociologico i due fenomeni più rilevanti nella galassia dell’informazioni sono la proliferazione delle fonti informative e dei produttori di cultura e la democratizzazione della falsità.
Per secoli, prima dell’avvento dei mass media, le informazioni e la cultura sono state prodotte da pochi e destinate a pochi. L’arcivescovo di Salisburgo commissionava a Mozart una composizione e, ottenuto lo spartito, la faceva eseguire per la ristretta cerchia di gentiluomini e gentildonne che componevano la sua corte. Il conte Hermann Carl von Keyserling, che soffriva d’insonnia, chiese a Bach di comporgli quelle che poi sarebbero state chiamate Variazioni Goldberg, destinate solo a lui e, eccezionalmente, agli “intenditori, per il ristoro del loro spirito” come dice il frontespizio dello spartito.
Gli “intenditori” erano ben pochi in un mondo dove solo i preti e pochissimi laici sapevano leggere e scrivere ma bastavano per certificare proprietà, conoscenze, pratiche religiose, memorie di rilievo collettivo, amministrazione della giustizia, della politica e della guerra. Carlo Magno e Carlo V stentavano anche a scrivere la propria firma e fu la riforma protestante che, eliminando la mediazione del clero, attribuì a tutti i fedeli il diritto e il dovere di leggere la Bibbia. Per esigenze organizzative fu poi l’industria, soprattutto quella di grandi dimensioni, a esercitare un ulteriore impulso all’alfabetizzazione.
Nel 1861, subito dopo l’unificazione, gli italiani erano 28 milioni e gli analfabeti rappresentavano il 78%, con punte massime del 91% in Sardegna. Nello stesso anno gli analfabeti erano il 47% in Francia, il 31% in Inghilterra, il 10% nei Paesi scandinavi. A metà del Novecento l’Italia, dove ancora prevale l’agricoltura, ha 48 milioni di abitanti, per metà analfabeti. Nel 2002 gli italiani sono ormai 57,5 milioni e i cittadini senza alcun titolo di studio o in possesso della sola licenza elementare, sono pari al 36,5% della popolazione sopra i sei anni.
Oggi in Italia gli abitanti sono 60,4 milioni e, secondo le statistiche ufficiali, solo il 3% sono analfabeti. Ma in un articolo pubblicato nel 2008, Tullio De Mauro scriveva: “Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un’altra, una cifra dall’altra. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea… Solo lo Stato del Nuevo Léon, in Messico, ha risultati peggiori”.
Tutt’altra cosa è se si considerano gli analfabeti funzionali, cioè le persone che sanno leggere e scrivere ma non riescono a sviluppare un pensiero critico e hanno difficoltà a comprendere testi semplici, come ad esempio le istruzioni di montaggio di un oggetto appena acquistato. Un recente studio di Info Data e Sole 24 Ore ha calcolato le percentuali di analfabeti: in Italia sono il 28%, contro il 18% negli Stati Uniti e in Germania, il 13% in Svezia, l’11% in Finlandia.
Ma oggi saper leggere e scrivere non basta. Occorre essere connessi con il mondo circostante. Nella società industriale e con l’avvento dei mass media (giornali, radio e televisione) la cultura è diventata una faccenda di pochi per molti: quella stessa sinfonia che l’arcivescovo di Salisburgo commissionava, Mozart componeva, i musici eseguivano e solo la corte ascoltava, oggi può essere fruita da miliardi di persone grazie alle riproduzioni discografiche, alle trasmissioni radiofoniche e televisive, alle applicazioni quasi gratuite come Spotify. Stessa cosa avviene, tramite eBook reader, per quanto riguarda articoli, letteratura e saggi.
Poi, nella società postindustriale, con l’avvento dei social media, la cultura è diventata una faccenda di molti per molti. Tutti collaborano alla produzione di Wikipedia e tutti vi attingono informazioni. Stessa cosa avviene con Facebook, Instagram, WhatsApp, Youtube e con tutti gli altri sistemi interattivi.
Le tre modalità di produzione e consumo della cultura oggi convivono consentendo la loro ibridazione: secondo gli ultimi dati del Censis, il 94% degli italiani guarda la televisione, il 79% ascolta la radio, l’84,5% legge i quotidiani e il 31% legge i settimanali.
Il 42% per cento della popolazione dai 6 anni in su ha letto almeno un libro negli ultimi dodici mesi, e a leggere sono molto più le donne (28%) che gli uomini (16,5%), gli anziani più dei giovani, i laureati più degli altri, gli imprenditori e i liberi professionisti più degli impiegati e degli operai, i residenti nel Nord-Est (49%) più dei residenti nel Sud (28%), i ragazzi che vivono con genitori che a loro volta leggono (80%) più di quelli che hanno i genitori che non leggono (40%).
Ma tutti questi mezzi “industriali” di trasmissione culturale sono usati molto meno di dieci anni fa: i quotidiani hanno perso il 30% dei lettori, i libri il 17% e i settimanali il 9,5%. In grande ascesa, invece, i mezzi postindustriali: l’88% possiede un cellulare, il 78% è abbonato a Internet, il 29,5% usa il tablet. Rispetto a dieci anni fa, i possessori di smartphone sono aumentati del 59%, gli abbonati a Internet del 33%, i lettori di quotidiani online del 5%.
Negli anni della crisi, tra il 2007 e il 2017, la spesa totale delle famiglie si è ridotta del 2,7%; quella per giornali e libri si è ridotta del 38,8%; quella per computer e audiovisivi è aumentata del 54,7%; quella delle famiglie per il telefono è aumentata del 221,6%.
Dunque i sistemi elettrici e cartacei di produzione e di consumo culturale stanno cedendo il passo ai sistemi elettronici, anche se questo passaggio non è uguale in tutti i segmenti di pubblico: Internet è usato dal 42% degli anziani (65-80 anni) contro il 90% dei giovani (14-29 anni). Questi ultimi rappresentano il 55% dei fruitori di Instagram, il 71% dei fruitori di Facebook e di YouTube, l’82% dei fruitori di WhatsApp. E, man mano che gli adulti accedono a WhatsApp, i giovani emigrano verso Instagram, rifiutando persino la convivenza virtuale con chi è più anziano di loro. Interessante notare che il 66% degli italiani è convinto che i social network siano poco o per nulla affidabili. Il fatto è che i giovani (14-29) usano il web soprattutto per ascoltare musica, guardare film e telefonare; gli anziani (66-80), i laureati e i diplomati soprattutto per svolgere operazioni bancarie, trovare strade e località, trovare informazioni su aziende, prodotti e servizi. In entrambi i casi, l’affidabilità non conta.