sabato 2 febbraio 2019

Il Fatto 2.2.19
La fuga infinita degli americani
La scelta di Trump di lasciare Kabul non è improvvisa, ma l’ultimo tentativo di Washington di chiudere una guerra imbarazzante per tutti. Ora i Talebani sanno che gli Usa non torneranno


La storia della guerra in Afghanistan, la più lunga sostenuta dagli Stati Uniti, è la storia di un eroico fallimento militare e di un vile fallimento politico dietro l’altro. Il generale Harrison che firmò nel 1953 l’armistizio della guerra di Corea per conto degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite disse di essere stato “il primo generale americano a finire una guerra senza averla vinta”. Da quel giorno gli Stati Uniti non hanno più vinto una sola guerra e alcune le hanno drammaticamente perdute.
In particolare, in Afghanistan, gli Stati Uniti intrapresero una “spedizione punitiva” contro le basi dei terroristi di al Qaeda sostenuti dai Talebani al governo di quel Paese. L’operazione militare fu un successo, ma sul piano politico la “spedizione” non era sufficiente. L’eliminazione di basi di addestramento di qualche centinaio di terroristi non giustificava l’intervento della più grande potenza militare del mondo con uno spiegamento di mezzi e uomini degno di una causa più complessa e di un nemico più dotato. La causa fu subito elevata a guerra globale al Terrore (non ai terroristi) e divenne una questione ideologica, o da psichiatri. Il nemico da battere fu individuato nel regime politico-sociale e religioso afghano e quindi la finalità della guerra si tramutava in regime change, come venivano anche chiamati i colpi di Stato sudamericani sponsorizzati dagli Usa. Non poteva mancare il riferimento alla lotta in favore delle donne afghane costrette dai barbari fanatici a portare il velo. E così la ragione della guerra fu sublimata in ogni sua componente: la Causa, il Nemico, la Mamma.
Con una affrettata dichiarazione di vittoria sul regime talebano, gli Usa ordinarono alla Nato di approntare una Missione di Assistenza al nuovo governo afgano. Si riservarono comunque il compito di continuare le operazioni militari contro le sacche di terrorismo ancora presenti, ma sostanzialmente decisero di iniziare il ritiro delle loro truppe e ricominciare la guerra decennale mai terminata contro l’Iraq. Mai exit strategy e disimpegno militare furono così dolorosi e titubanti come quelli americani in Afghanistan. Fior di comandanti e guerrieri furono esonerati dal comando, le operazioni segrete (anche inconfessabili) presero il posto di quelle regolari, il governo afghano risultò il più corrotto di tutta l’Asia, il Paese tornò a essere leader della produzione e distribuzione di oppio e derivati. Per fortuna, però, alcune donne poterono togliersi il velo.
Il ritiro avrebbe dovuto essere completato entro il 2011, poi entro il 2014 e poi entro il 2016. Ancora oggi il contingente Usa è di circa 14.000 uomini dislocati a Kabul, Kandahar, Bagram e Jalalabad. La missione Nato dall’assistenza passò all’addestramento perdendo ogni competenza operativa, lasciata agli Usa. Nel frattempo lo sfascio in Iraq e Siria e la bella idea degli alleati mediorientali degli Usa di sostenere lo Stato Islamico e degli Usa stessi di sostenere l’opposizione al regime siriano (inclusi i gruppi jihadisti) portarono a una forte recrudescenza dell’opposizione armata in Afghanistan. Le truppe Usa e quelle afghane, addestrate anche dall’Italia, si trovarono ad affrontare i Talebani e un’altra ventina di formazioni di guerriglia armata.
La decisione del presidente Trump di chiudere la guerra non è quindi una sua idea né una semplice promessa elettorale. É la prosecuzione di una esigenza strategica di disimpegno da una guerra imbarazzante che né la potenza militare né la politica egemonica sono riuscite a vincere. Trump si è reso conto di avere un cerino in mano che a parole aveva spento durante la campagna elettorale ma che gli sta ancora bruciando le dita. Messo alle strette dall’opposizione e dalla giustizia, con un accordo di pace con i Talebani pensa di fare ancora in tempo a rivendicare il merito di aver terminato il conflitto e portato a casa i “ragazzi” in armi. Purtroppo per lui deve accordarsi con gli stessi Talebani che gli americani e molti suoi generali hanno sempre dipinto come il “male assoluto”. Per parlare con i Talebani ha dovuto escludere il governo afghano, gli alleati e i potenziali avversari. Trump può fregarsene degli afghani e degli alleati. Lo ha sempre fatto. Non può fregarsene della Russia, della Cina, del Pakistan, dell’India e di tutti gli Stati centro e mediorientali che dovranno assistere a un nuovo squilibrio degli assetti geopolitici. Non può fregarsene nemmeno degli interessi economici che gli stessi americani hanno nell’area. Forse sta pensando di difenderli con i pochi soldati rimasti e con i mercenari. Ma, per definizione, i mercenari difendono i propri interessi che di norma non coincidono con quelli dello Stato nemmeno se vengono pagati da esso. Purtroppo, i Talebani non controllano gli altri gruppi ribelli. Se dovessero tornare al potere anche solo in parte si muoverebbero per conquistarlo del tutto e se dovessero mantenere l’impegno di combattere i “terroristi” (come vogliono gli americani) dovrebbero scatenare una guerra civile. Purtroppo, Trump non ha capito che già sedersi al tavolo con i Talebani per tutti gli americani e molti alleati è una sconfitta. Una di quelle che lasciano i semi per un conflitto successivo. Purtroppo, per tutti noi europei e italiani, l’eventualità di un’altra guerra afghana è una iattura, non tanto perché abbiamo interessi nell’area, ma perché gli Stati Uniti questa volta, ritirate le loro truppe, la farebbero fare a noi. Trump e la maggioranza degli americani non guardano più all’Europa come un alleato o come un competitor, ma come un utile idiota. L’Europa è tornata un’espressione geografica da controllare pezzo per pezzo col bastone o la carota. Un’altra guerra in Afghanistan ce la dovremmo vedere noi sul terreno e chiedere umilmente agli Usa il loro appoggio dal cielo o dallo spazio: a debita distanza, e dietro congruo pagamento del disturbo.
D’altra parte, siamo noi stessi a indurci e ridurci in condizioni di sudditanza. In questi giorni di preliminari discussioni tra Usa e Talebani su un possibile ritiro americano (comunque non totale) già si pensa al ritiro delle nostre truppe. L’atteggiamento è di rammarico e di preoccupazione, ma la sostanza è di intima esultanza. Al primo tweet americano la ministra della Difesa Trenta chiede ai vertici militari di approntare i piani per il rientro. Questi si fingono sorpresi e intanto tirano fuori i piani elaborati cinque anni fa. Il ritiro è dato per scontato perché “senza americani non si va da nessuna parte, sono loro che garantiscono la logistica, la copertura aerea e le truppe speciali”, come ha detto un collega. Ed è vero: senza americani la guerra non si fa. Purtroppo però se ci verrà twittato dovremo farla e poco varrà il fatto che gli afghani hanno bisogno di tutto tranne che di un’altra guerra.