Il Fatto 2.2.19
Sognando l’Europa: Mamadou e i suoi “fratelli”
Sulla Sea Watch per 13 giorni
Il piccolo Mamadou sbarcato due giorni fa a Catania, assieme agli altri 46 migranti
di Giuseppe Borello, Maddalena Oliva
Quando
Mamadou inizia a raccontare, lo fa insaponando i piatti. Un colpo di
spugna, con la mano, e lo sguardo fermo alla costa, con gli occhi.
Quelle luci fisse, a bordo della Sea Watch 3, rimasta in rada per giorni
e giorni di fronte al Porto di Santa Panagia di Siracusa, era convinto
fossero case: “Come sono alte in Italia!”, esclama. Erano le ciminiere
del petrolchimico, ma per lui, come per gli altri 46 migranti salvati
dalla nave dell’ong Sea Watch 3, erano la prova che ce l’avevano fatta.
Ce l’hanno fatta.
Mamadou, partito a 14 anni anni dalla Guinea,
dopo un viaggio via terra durato più di 6 mesi e 13 giorni in mare, è
sbarcato due giorni fa a Catania. Vuole fare il calciatore, “come
Kalidou Koulibaly”. “Sono partito con una scusa, non ho detto niente a
nessuno, altrimenti mica me lo avrebbero permesso”, ricorda. Lo sguardo,
per tutti questi 13 giorni, è sempre rimasto allegro, vispo. A
differenza di molti altri, minori o adulti che fossero, presi a volte
dalla rabbia, a volte dalle lacrime, chi dalla disperazione, chi con
l’intento di saltare sulle navi che venivano a rifornire di generi di
prima necessità la Sea Watch. È con uno di questi “carichi” che a
Mamadou è arrivata la felpa azzurra, diventata la sua “divisa
d’ordinanza”. Assieme alle sue orecchie a sventola e ai capelli sparati
in aria: inconfondibili per l’equipaggio. Una tuta, inviata come le
altre cose da Caritas e dalla città di Siracusa, e indossata al posto di
quello che restava della maglietta a mezze maniche con cui era partito,
aveva attraversato il deserto, aveva vissuto in Libia, e aveva nuotato,
dopo che il suo gommone si era sgonfiato, nel Mediterraneo.
“A
mio nonno ho detto che andavo in Senegal a cercare lavoro, invece la mia
idea era già quella di arrivare in Libia. Per raggiungere mio fratello,
che lavora lì, e che mi ha spedito i soldi per finire il viaggio. Il
mio sogno è fare il calciatore, anche se i calciatori francesi non sono
un granché… ma lì la vita è tranquilla. Io gioco a centrocampo. La mia
squadra preferita? Juventus!”. “Non ho avvertito nessuno perché temevo
potessero bloccarmi. Solo in Libia ho chiamato il nonno, per dargli mie
notizie, mesi dopo la partenza. Cosa mi ha detto? Che sono un pazzo e
che sarei dovuto tornare assolutamente indietro, a casa, perché in Libia
avrei corso il pericolo di morire. Certo che sapevo cosa succede in
Libia, nei campi… ma io non ho paura, non ho avuto mai paura. Io sono
grande. Nel mio Paese, alla mia età, si è già uomini. E io lo sono
ancora di più dopo il viaggio”.
Racconta così come in Libia, lui,
piccoletto, fosse riuscito a farsi “benvolere”, e a risparmiarsi quello
che invece tocca agli adulti. “Ho iniziato pulendo i pavimenti di alcuni
negozietti, e poi facevo l’ambulante. Sono riuscito a racimolare così
un piccolo gruzzoletto che però non bastava a pagarmi la traversata in
mare, perché era davvero pochissimo: e così ho chiamato mio fratello,
per farmi spedire i soldi necessari. I miei genitori, invece, li sentirò
solo quando sarò al sicuro, quando sarò arrivato in Europa. Non l’ho
fatto finora perché sapevo che la paura, la preoccupazione, li avrebbe
distrutti. Non mi mancano, ma so che a loro mancherò”.
Il suo
momento più bello, racconta, è stato quando, dopo una notte passata
pensando che sarebbe tutto finito, ha visto arrivare con le luci del
sole le piccole imbarcazioni di salvataggio. Le grida: “We are Europe!
Europe!”. Prima di quelle parole, in molti, come Omar, un ragazzo
senegalese vicino a Mamadou, pensando si trattasse della guardia
costiera libica, si erano abbassati, ammassandosi ancora di più sul
gommone uno sull’altro, in tutta velocità. “Io ho capito invece che il
mio sogno si stava realizzando”.
Ogni giorno, nel mondo, 44 persone decidono di migrare
C’è
chi viaggia da mesi e ha abbandonato la famiglia, chi si muove in
gruppo e c’è, in alcuni casi, qualcuno che ha poco da raccontare,
qualcuno che non ha lunga memoria di ciò che ha lasciato: sono i
bambini. Almeno 300 mila tra bambini e adolescenti, non accompagnati da
adulti o separati da essi, sono stati registrati in circa 80 Stati tra
il 2015 e il 2016 (erano 66 mila nel biennio 2010-2011). Nel 2017,
nell’area dell’Unione europea sono stati registrati oltre 31mila minori
non accompagnati (che una sigla identifica come MSNA), in maggioranza
afghani. Una su tre richieste di asilo per minori stranieri è stata
effettuata in Italia. Otto minori non accompagnati su 10 hanno 14-15
anni, come Mamadou. Il ministero del Lavoro italiano ne ha censiti, al
31 dicembre 2018, 10.787. Sono prima di tutto albanesi, anche se non li
“vediamo” perché non arrivano via mare ma via terra, seguendo la rotta
balcanica, e poi ci sono i bambini che giungono dall’Egitto, dal Gambia,
dalla Guinea, dall’Eritrea, dalla Costa d’Avorio. Rischiano detenzione,
lavori forzati, percosse o morte. E, per quasi tutti, il viaggio è
anche un rito di iniziazione: a volte parti a 12 anni, arrivi a 15 e,
nel frattempo, sei diventato adulto. Ciascuno viaggia con le proprie
ragioni, aspettative, fantasie. Si sentono uomini. Gli brucia la terra
sotto i piedi. Sbarcano con in tasca l’indirizzo o il numero di telefono
di un parente. Senza cellulare, senza documenti. Chi parte dai villaggi
cerca una nuova vita. Chi fugge dalle guerre vuole solo transitare,
essere invisibile. Alcuni finiscono nella mani della criminalità o a
vendersi per strada. Altri spariscono, finendo per alimentare
quell’esercito di invisibili che è arrivato a contare, per l’anno che si
è appena concluso, oltre 4mila bambini di cui non si hanno più tracce.
La Sea Watch per molti è stata l’ancora in mezzo al mare
Abbandonati
dalla terraferma, intenta a ricercare un accordo tra le varie
diplomazie europee, l’unico rifugio sicuro, per i 47 migranti salvati
dalla nave dell’ong nella notte tra il 18 e il 19 gennaio scorso, è
stato il mare. Proprio quel mare che, solo la notte prima del loro
salvataggio, si era inghiottito 117 persone: persone, prima che corpi.
Ma
Mamadou sulla Sea Watch non ha mai sofferto, come invece gli altri.
Perché, diceva, “so che devo aspettare, anche se la vedo così a portata
di mano, l’Europa… gli altri non riescono, vogliono buttarsi in acqua,
piangono. Ma è solo una questione di tempo, di attesa”.
Non
sembrava avesse solo 14 anni. Anche se non ha mai smesso di giocare,
sulla nave. Il tempo lì può logorarti. Lo ha fatto, con alcuni dei
migranti. Specie con chi ha passato le torture dei centri di detenzione
libici. Come Alì, che la notte si svegliava all’improvviso, sognando “un
miliziano che mi colpiva in testa, come in prigione. Solo quando ho
aperto gli occhi ho realizzato di essere sulla nave, al sicuro”.
Mamadou
capitava spesso di vederlo sul pontile, assieme ad altri 5-6 ragazzi.
Mezzo sdraiato su un tendone, a ritagliare e colorare carta. Tanti
piccoli pezzetti di carta che sono diventati aeroplanini, barche e
barchette. Ognuna coi colori della bandiera dello Stato corrispondente.
Gli aeroplanini, italiani. La barca, la sua, coi colori della Guinea:
rosso, giallo e verde. Le altre barchette, tutte azzurre. Perché? “Sono
quelle finite in fondo al mare”.
Mamadou ha passato ore e ore
così: a mimare il suo salvataggio. Su e giù con gli aeroplanini. Non sa
nulla, non immagina alcunché del braccio di ferro che si è consumato tra
i vari Stati, in Europa. Non sa chi sia Salvini, non conosce il premier
Conte. Sa solo che ce l’ha fatta.
Percorrendo in discesa la
scaletta della Sea Watch, due giorni fa, chissà cosa avrà pensato. Ha
trattenuto le emozioni: a differenza degli altri, non è scoppiato a
piangere. E poi guardava dritto avanti, a testa alta. Entusiasta. Prima,
un piccolo spavento, per alcuni boati. È l’eco dei botti per la Festa.
Fra qualche giorno a Catania è Sant’Agata, la Santa patrona protettrice
della città. E poi, ad accogliere lui e gli altri suoi “fratelli”,
c’erano tutti quegli agenti di polizia e i militari della Guardia di
Finanza, tutte quelle luci lampeggianti. Chissà cosa avrà pensato,
Mamadou.
Assieme ai suoi “fratelli” – in tutto, i minori a bordo
della nave dell’ong erano 15 su 47, 8 quelli non accompagnati,
completamente soli – resteranno in Italia, accolti in una struttura
catanese che si occupa di progetti di inclusione per ragazzi stranieri.
Loro 15, più un altro migrante, adulto.
“Dove siamo?” hanno
chiesto una volta a terra. Alle 11.25 era sceso l’ultimo dalla Sea
Watch, dopo le urla, gli applausi, e gli abbracci a quell’equipaggio che
due settimana fa ha salvato loro la vita.
Siamo in Italia. Siamo in Europa.