Il Fatto 2.2.19
Reddito di cittadinanza, così non va bene
di Tomaso Montanari
Le
ragioni del mio giudizio negativo sul reddito di cittadinanza
gialloverde sono diametralmente opposte a quelle usate dal Pd, che
riesce anche in questo caso ad attaccare il governo da destra. Una
posizione incomprensibile: la prima proposta di reddito minimo garantito
venne nel 1997 dalla Commissione Onofri, insediata dal governo Prodi.
Ha
invece ragione Lorenza Carlassare: realizzare un reddito di base
significa attuare il progetto politico della Costituzione, rimuovendo
almeno qualcuno degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della
persona umana. Ma la domanda è: il reddito gialloverde è un reddito di
base, o è un’altra cosa?
L’obiettivo del reddito di base non è
quello di un sostegno temporaneo nella ricerca di un qualunque lavoro,
ma al contrario quello di affrancare dal ricatto della sopravvivenza chi
altrimenti non sarebbe in condizione di poter scegliere. Per questo
serve una misura che duri finché le condizioni economiche di colui che
ne usufruisce non cambino: mentre quella approvata dal governo è un
aiuto a tempo determinato (massimo 18 mesi), che poi riconsegna il
cittadino all’arbitrio del mercato. Non sfuggirà, pur tra mille
diversità, una contiguità culturale con le misure una tantum di Renzi, e
prima ancora con la social card. La visione che sorregge ogni vero
reddito di base riconosce, al contrario, il valore della produzione
sociale che sta fuori da quello che non a caso si chiama il ‘mercato’
del lavoro. È, cioè, un investimento pubblico che punta sulla crescita
di un modello alternativo a quello dominante: perché ritiene che la
coesione sociale e la sottrazione di larghi strati sociali a una
condizione non dignitosa sia conveniente sia sotto il profilo sociale
sia sotto quello strettamente economico. Il reddito gialloverde non ha
nulla a che fare con questa visione. Lo rende chiaro la retorica profusa
dal governo sulle norme cosiddette ‘antidivano’: “Traspare – ha scritto
il direttivo italiano del Basic Income Network, che pure ha dichiarato
di guardare con interesse a questa indubbia svolta – un’attitudine a
considerare i beneficiari del ‘reddito’ come responsabili della propria
condizione di bisogno e dunque suscettibili di essere gestiti
burocraticamente e persino spostati geograficamente a discrezione
dell’amministrazione. Le mancanze anche lievi nei rapporti tra i
percettori e l’ente erogatore sono sanzionate con una severità che non
trova riscontri in alcun’altra misura del nostro sistema di welfare; le
eventuali violazioni da parte di alcuni membri della famiglia ricadono
su tutti i membri in violazione del principio di responsabilità
individuale”. Appare, poi, inutilmente punitivo e umiliante l’obbligo
alle otto ore di lavori socialmente utili, che contribuisce a
configurare la povertà come una colpa da espiare.
Inoltre, la
definizione di reddito di base impone che esso sia diretto a tutti
coloro che percepiscono meno del 60% del reddito mediano del Paese:
dunque, non solo ai poveri attuali, ma a tutti coloro che rischiano di
diventarlo, o che comunque non riescono a essere davvero liberi nelle
loro scelte. Sta in questo abisso (4,5 milioni di persone invece di 9
milioni) la differenza fondamentale che separa un vero reddito di base
sia dal reddito di inclusione dei governi Pd, sia da questa diversa
forma di Rei pentastellato. Inoltre, l’esclusione di fatto dei migranti
(oltre a essere palesemente incostituzionale) è l’ennesimo provvedimento
con cui il governo affossa ogni idea di possibile integrazione,
preparando altre munizioni per quella guerra tra poveri a cui la Lega
deve il suo consenso. Nella scorsa legislatura, 91 deputati e 35
senatori del Movimento 5 Stelle avevano firmato per un progetto di
reddito di dignità grande il doppio di quello approvato, veramente
democratico e antisistema. Poi ha prevalso, non solo in questo campo, la
normalizzazione.