La Stampa 2.2.19
Se gli alleati affilano i coltelli
di Andrea Malaguti
Pettorina
arancione da operaio edile, inevitabilmente indossata su un giubbotto
della polizia, Matteo Salvini si presenta a Chiomonte per ribadire il
proprio sì alla Tav nell’istante esatto in cui Luigi Di Maio, in
istituzionale completo scuro d’ordinanza, annuncia alla Camera che non
solo farà i nomi di chi ha partecipato «al fallimento di Banca Carige»,
ma anche degli sponsor politici che avrebbero contribuito a
saccheggiarla.
Il primo, ostentando un irriducibile atteggiamento
muscolare, parla al popolo delle Grandi Opere e pretendendo di
incarnarne lo spirito, sale, chissà quanto consapevolmente, sul carro
operoso di un’Europa che giura di detestare. «Si stanno facendo tanti
tunnel nelle Alpi. Non saremo gli unici che si fermano», annuncia
trionfante, anticipando la possibilità di arrivare da Milano a Lione in
due ore e mezza. Non importa se nella sua «semplicistica visione della
politica estera» (Angela Merkel dixit) detesta la Francia. Ora gli è
comodo millantarne l’alleanza. Persino la condivisione di un orizzonte.
«Presto riapriremo i cantieri», dice a lavoratori che non sanno più se
credere a lui, a Conte o all’incomprensibile Toninelli.
In Val di
Susa, Salvini torna a vestire i panni del settentrionale pratico per
scrollarsi di dosso l’immagine del leader tutto divano e reddito di
cittadinanza. «Da lunedì mi occupo del Piemonte». Non si sa se abbia un
senso. Ma, avvicinandosi le Regionali, suona bene. E oramai solo questo
conta.
Dal canto suo Luigi Di Maio, terrorizzato all’idea di
perdere terreno nel confronto individuale, si rivolge al popolo dei
dimenticati, alle vittime dei banchieri, sbandierando una lista di
proscrizione che non punta a singoli individui, ma al sistema di poteri
forti la cui sola evocazione rianima il perplesso universo (fu)
grillino. Si rivolge a gente che, per quello che ha subito, si
costituirebbe parte civile contro la vita, insistendo sul messaggio più
chiassoso della sua eterna campagna elettorale: mai più poveri, mai più
privilegi, mai più disuguaglianze. E aggiunge, come da frusto copione,
un No alla Tav che è il tentativo di scampare all’accusa di apostasia,
di tradimento alla comunità religiosa. L’Alta velocità Torino-Lione si
farà, il tunnel si farà, anche rinunciando a poche opere collaterali per
dire di aver risparmiato difendendo l’ambiente. Ma il capo politico dei
Cinque Stelle non può ammetterlo. Almeno fino al 26 di maggio.
Nella
simultanea campagna del Nord-Ovest, i vicepremier, indifferenti al
quotidiano accumulo di contraddizioni governative, svelano agende
definitivamente differenti, denunciando che il patto Molotov-Ribbentrop
in salsa giallo-verde è puramente tattico, e sottoscritto per poi essere
rescisso.
Salvini e Di Maio sono le due facce di un sedicente
potere plebeo che conosce la lingua, l’anima e i pensieri di coloro ai
quali riduce la libertà gridando: fidatevi di me. E fra elettori che non
vogliono capire i potenti, preferendo lodarli e baciar loro le mani, lo
schema funziona.
Così il logoramento a distanza continua,
partendo da Chiomonte per arrivare al Venezuela, in un ping pong che
consente ai due signori del Palazzo di recitare entrambe le parti in
commedia - governo e opposizione - e di radere così al suolo qualunque
ipotesi di alternativa. Atteggiamento audace e rischioso, perché -
diceva Hermann Lotze - affilare i coltelli è noioso se non si arriva mai
a tagliare. E l’impressione è che il tempo del battibecco stia per
lasciare il posto a quello del duello finale.