Corriere La Lettura 3.2.19
È l’Afroeurasia: il XXI secolo sarà multipolare
“The future is Asian” uscirà tra breve in Italia
La tesi è chiara: c’è la Cina ma non c’è soltanto la Cina.
L’Occidente vivrà un declino relativo, però se saprà cogliere le opportunità...
Intervista a Parag Khanna esperto di relazioni internazionali
di Danilo Taino
Parag
Khanna vive a Singapore, probabilmente il luogo migliore dal quale
osservare l’Asia del XXI secolo. Così come chi vive a Parigi, Berlino o
Roma rischia di avere un’idea del mondo eurocentrica, anche questo
esperto di relazioni internazionali rischia di assumere una visione
asiatico-centrica. Forse, però, è lui più vicino alla realtà: chi
oserebbe, oggi, scrivere un libro dal titolo I l secolo europeo? Khanna,
invece, nei prossimi giorni pubblicherà senza titubanze The Future is
Asian: Commerce, Conflict and Culture in the 21st Century: il 5 febbraio
negli Stati Uniti, in marzo in Italia da Fazi con il titolo Il secolo
asiatico? (con il punto interrogativo, forse per non spaventare gli
europei). Khanna, 41 anni, nato in India ma studente di università
americane e inglesi, ha raggiunto una fama globale con il libro
Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale, pubblicato nel 2016
(in Italia sempre da Fazi). In questa intervista, raccolta mentre
viaggiava verso Davos per il World Economic Forum, introduce una
distinzione interessante, se vista nel dibattito che impegna gli esperti
di strategie internazionali: l’Asia non è la Cina, la Cina non è
l’Asia.
Che cosa intende per Asia?
«C’è solo una definizione
corretta: quel territorio che va dal Mediterraneo e dal Mar Rosso al
Mar del Giappone. Non solo quello che di solito viene chiamato Estremo
Oriente. È arrivato il tempo di riconoscere questa entità nella sua
interezza».
Qual è il ruolo della Cina in questo contesto: una forza unificatrice o un problema per gli altri Paesi?
«La
Cina è un punto di mezzo per capire l’Asia. Un po’ di tempo dopo la
Seconda guerra mondiale, fu il Giappone la potenza prevalente nel
continente. Poi arrivarono le tigri asiatiche — la Corea del Sud,
Taiwan, Singapore e così via. Paesi che furono poi i maggiori
investitori nella crescita economica della Cina. Lo sviluppo dell’Asia
degli scorsi decenni è la storia di un sistema interdipendente, fondato
su risorse naturali, finanza, tecnologia, demografia. La crescita
dell’Asia precede quella della Cina: si tratta di sistemi che si
rinforzano reciprocamente, anche oggi».
Ora siamo però di fronte
alla Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta organizzata da
Pechino, un progetto di infrastrutture senza precedenti. C’è chi ci vede
un’iniziativa imperialista di Pechino.
«È parte dell’onda di
reciproco rafforzamento tra Paesi. Si tratta della crescita e dei
capitali cinesi in eccesso indirizzati, riciclati, verso il resto
dell’Asia. La Belt and Road è la risposta a un fallimento del mercato
nel campo delle infrastrutture: dagli anni Quaranta, la popolazione
asiatica è quadruplicata e ciò ha creato un massiccio gap
infrastrutturale. In più, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, la Cina
vuole evitare di rimanere isolata nei commerci, vuole evitare la
cosiddetta “trappola di Malacca” (lo stretto passaggio marittimo tra la
Malaysia e l’isola indonesiana di Sumatra, ndr): ha un eccesso di
capacità produttiva da esportare e ha anche motivazioni strategiche».
L’economia cinese però rallenta.
«È
un Paese che cresce da tempo, è normale che ci siano ritorni minori. Ma
anche aumenti annuali di solo il 5% sarebbero un contributo sostanziale
all’economia del mondo. Ora la crescita è prevalentemente interna e c’è
molta potenzialità nascosta perché misuriamo le economie in un modo
vecchio, concentrati sulle merci. Le imprese estere devono capire di
diversificare. La Apple ha puntato tutto sulla Cina, solo adesso ha
capito l’esigenza di andare anche in India. E, come l’India, ci sono
altre economie asiatiche interessanti. È fuorviante vedere solo il
rallentamento della Cina».
Pensa che il presidente Xi Jinping
abbia il pieno controllo del potere oppure il rallentamento economico,
le tariffe imposte da Trump e le numerose opposizioni alla Belt and Road
lo possono indebolire?
«Penso che Xi sia in pieno controllo. Ma
non credo ai discorsi sul culto della personalità. Un uomo solo non può
guidare un Paese di un miliardo e quattrocento milioni di persone.
Inoltre, la Cina ha istituzioni molto forti».
Cina e India possono cooperare nel lungo periodo?
«La
loro relazione ha punti di rottura sin dagli anni Sessanta. Ma questo è
solo un aspetto del rapporto tra Pechino e New Delhi. Militarmente la
Cina è più forte, ma non vuole dare l’impressione di essere prepotente
ai suoi vicini, i quali sono spesso sospettosi. Un buon rapporto con i
vicini è essenziale per Pechino: è il Paese con il maggior numero di
confini con altri Stati. In economia, poi, non è vero che Pechino
investa solo in Paesi-clienti: in India investe più che in Pakistan.
Credo che nel digitale, per esempio, la collaborazione commerciale
Cina-India possa essere forte».
Lei vive a Singapore, luogo di
incontro tra Est e Ovest. Crede che i cosiddetti valori asiatici e
quelli occidentali possano convivere?
«Certamente. I nuovi valori
asiatici sono importanti soprattutto in tre aree. Primo, il governo
tecnocratico: c’è più tolleranza che in Occidente per un governo forte,
se è efficiente. Questo non significa che non ci sia democrazia in Asia,
come dimostrano le elezioni che si terranno quest’anno in India,
Indonesia e altrove, quasi due miliardi di persone coinvolte. Secondo,
il capitalismo misto, non solo quello privato ma anche quello di Stato,
capace di gestire l’innovazione. Terzo, il conservatorismo sociale, che è
più lento nel riconoscere questioni come quelle riferite ai gay: qui
l’Asia può imparare, ma ha anche da insegnare, per esempio nel regolare i
social media. In generale, l’Occidente può imparare, ad esempio sulla
ricerca del consenso sociale e sul rispetto dei civil servant: sarebbe
utile in Paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia. L’Asia, per
parte sua, ha già imparato molto dall’Ovest».
Che cosa significa per l’Occidente un secolo asiatico? Declino? Sottomissione politica?
«Declino
relativo. Significa soprattutto che il futuro vedrà una multipolarità
globale. Gli Stati Uniti resteranno un’àncora dell’ordine mondiale, lo
stesso l’Europa: ora entra l’Asia. La quale è multipolare essa stessa,
sa che cosa significhi. In Asia c’è una maggiore diversità interna che
altrove, la geografia è più ampia. Non si tratta più di dire quale sia
la nazione numero uno del mondo: in Asia abbiamo imparato la diversità,
la multipolarità».
Vede uno scontro tra Stati Uniti e Cina? Il
conflitto tra la potenza dominante e quella emergente, la cosiddetta
«trappola di Tucidide», è inevitabile?
«La proiezione lineare si
può superare. Lo scontro non è inevitabile. Anche perché Washington e
Pechino hanno interessi sovrapposti. Persino nella guerra fredda le due
superpotenze combattevano per procura: sta già succedendo oggi tra Usa e
Cina. Siamo in una fase di transizione del potere. Tensioni ci saranno.
Teniamo conto che gli Stati Uniti non sono una potenza asiatica: per
geografia, politica e storia. Ma il conflitto diretto si può evitare».
Pensa che una Eurasia o, come la chiama lei, una Afroeurasia sarà dominata dalla Cina?
«Anche
qui ci sono troppe proiezioni lineari quando si parla di militari o di
“trappola del debito” (i prestiti di Pechino ai Paesi poveri che si
indebitano troppo, ndr). L’intervento cinese in Africa è limitato per
natura. Anche l’India investe in Congo, Etiopia, Kenya. La Cina apre
porte: altri entrano. Inoltre, ci sono resistenze all’espansione degli
interessi cinesi, in Asia come in Africa e in Europa».
Quali sono gli obiettivi di Pechino in Europa?
«L’Europa
è il maggior partner della Cina. Pechino vuole commercio. I treni che
dalla Cina arrivano nella Ue carichi di merci ormai non sono più, come
un tempo, vuoti quando tornano. Ma ci vogliono maggiori accordi di
libero scambio, che sono favorevoli a entrambi. Come l’Europa ha capito
partecipando alla Belt and Road Initiative e alla Aiib (la banca che la
finanzia, ndr)».
L’Europa dovrebbe rompere con Washington e avvicinarsi a Pechino?
«Penso
che dovrebbe fare come la Germania: seguire i propri interessi. A
differenza degli Stati Uniti, partecipare alla Belt and Road Initiative,
cercare accordi commerciali».
Non rischierebbe di allontanarsi dalla democrazia e dai valori liberali?
«Il
modello cinese vale solo per la Cina. Non per altri. Un maggiore
coinvolgimento dell’Europa rafforzerebbe la democrazia in Asia».