sabato 9 febbraio 2019

Corriere 9.2.19
I criteri per valutare la condotta del ministro
Caso Diciotti
Il Senato si esprimerà sulla richiesta di autorizzazione a procedere contro Salvini:dovrà vagliare anche questioni di ordine giuridico, non solo politico
di Valerio Onida

Presidente emerito della Corte Costituzionale

Il voto che il Senato si accinge ad esprimere sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del ministro Salvini coinvolge valutazioni di ordine politico ma anche di ordine giuridico-costituzionale. L’autorizzazione è richiesta dall’art. 96 della Costituzione per poter procedere nei confronti dei ministri per reati «commessi nell’esercizio delle loro funzioni». Nel caso specifico, non vi è dubbio che le condotte per le quali il Tribunale dei Ministri ha ritenuto di dover chiedere l’autorizzazione a procedere, ritenendo che esse possano configurare reati come il sequestro di persona, abbiano tale qualificazione.
La legge costituzionale, come è noto, prevede che la Camera competente possa, con delibera a maggioranza assoluta, negare l’autorizzazione solo «ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo». La valutazione della assemblea non concerne quindi la fondatezza o meno dell’accusa (e di riflesso l’eventuale «fumus persecutionis», cioè il sospetto di un’accusa artificiosamente sollevata, che si ravvisi nell’iniziativa della magistratura), ma esclusivamente la riconducibilità o meno della condotta addebitata al perseguimento da parte del ministro, nell’esercizio delle sue funzioni, di un interesse costituzionale dello Stato (per ipotesi, la sicurezza) o comunque di un interesse pubblico ritenuto in concreto «prevalente» sugli interessi lesi dal reato ipotizzato.
L’interesse pubblico
Se per realizzarlo si compromettessero valori superiori, tipo la vita, nessuno lo accetterebbe
È una valutazione schiettamente politica, secondo cui il fatto, ancorché in sé costituente reato secondo la legge, non debba essere perseguito. Non si tratta tanto di una vera e propria «immunità», cioè della sottrazione a priori agli organi giurisdizionali del potere-dovere di perseguire e punire i reati commessi dai titolari di certe cariche pubbliche, come avveniva per le immunità parlamentari di antica tradizione, previste anche dalla nostra Costituzione fino alla riforma del 1993, e miranti a tutelare il libero esercizio della funzione parlamentare; o come ancor oggi avviene per il Presidente della Repubblica, che per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni «non è responsabile», tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione. Qui è affidata in esclusiva alla assemblea parlamentare una valutazione per cui, anche se il fatto in sé costituisca reato, essa ritenga l’agire del ministro giustificato dalla prevalenza dell’interesse pubblico, e quindi lo sottragga alle normali conseguenze processuali e sanzionatorie.
L’agente segreto
Può essere autorizzato a commettere reati per finalità istituzionali ma non a uccidere
Si tratta di qualcosa di analogo alle «garanzie funzionali» che assistono, ad esempio, gli appartenenti ai servizi segreti, che possono essere autorizzati dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dall’autorità delegata a compiere atti costituenti reato, quando questi vengano ritenuti «indispensabili alle finalità istituzionali di tali servizi». Il reato dunque c’è, anzi in questi casi è espressamente voluto e autorizzato, ma non è punibile perché sussiste una «causa di giustificazione», analoga allo stato di necessità o all’esercizio di un diritto o all’adempimento di un dovere, che secondo il codice penale costituiscono cause di non punibilità di condotte di per sé integranti ipotesi di reato. Ma — attenzione — una siffatta autorizzazione non può concernere qualsiasi condotta delittuosa. La nostra legge (art. 17 della legge n. 124 del 2007) stabilisce che l’autorizzazione non può essere data «se la condotta prevista dalla legge come reato configura delitti diretti a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone». Così, per esempio, l’agente dei servizi può essere autorizzato a commettere un furto, o un falso, ritenuto necessario per il conseguimento delle finalità istituzionali, ma non a uccidere o a torturare. Inoltre deve trattarsi di condotte «indispensabili e proporzionate al conseguimento degli obiettivi dell’operazione non altrimenti perseguibili», costituenti «frutto di una obiettiva e compiuta comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti», ed «effettuate in modo tale da comportare il minor danno possibile per gli interessi lesi».Nel caso dei reati ministeriali non si tracciano espressamente limiti di questa natura, e la valutazione è rimessa al Parlamento anziché alla magistratura. Ma questa valutazione non può non essere basata su analoghi criteri di comparazione di interessi e di proporzionalità. Non sarebbe pensabile che la «preminenza» dell’interesse dello Stato o dell’interesse pubblico valga anche quando siano compromessi interessi di «valore costituzionale» superiore, come la vita o l’incolumità delle persone. Così, nessuno potrebbe pensare di giustificare la condotta di un ministro il quale, per perseguire l’interesse pubblico alla protezione dei confini dello Stato da ingressi non autorizzati, ordinasse di uccidere o di ferire. Nel caso concreto, dunque, non solo la valutazione rimessa all’assemblea dovrebbe essere compiuta individuando l’interesse pubblico perseguito dal ministro: e nella specie non è difficile supporre che i parlamentari che sostengono il Governo possano ritenere che il ministro abbia agito in vista di un siffatto interesse, mentre i parlamentari dell’opposizione potrebbero naturalmente esprimere una valutazione politica opposta, ritenendo che l’interesse pubblico avrebbe dovuto condurre a una condotta diversa. Ma in ogni caso, ai fini del giudizio di «preminenza» dell’interesse pubblico, anche il Senato non dovrebbe omettere di valutare (come ha osservato Luca Masera in «Questione Giustizia») se siano stati lesi interessi di per sé di «valore» superiore, anche dal punto di vista costituzionale, come quelli che si riconducono al rispetto di diritti umani fondamentali, e se siano stati rispettati criteri di proporzionalità.