Corriere 8.2.19
Il rapporto dell’Onu. Torture, stupri
L’inferno libico per i migranti
di Goffredo Buccini
Torture,
stupri, riduzione in schiavitù: è la sorte disperata dei migranti
trattenuti nell’inferno libico. La denuncia nel rapporto Onu.
U n
ragazzo, scappato dal mattatoio somalo e passato per un lager di Kufra,
l’ha spiegata con quella sintesi che si raggiunge solo attraverso il
dolore : «Che tu sia un rifugiato o un migrante, in Libia sei sempre
spaventato. Devi dormire con un occhio aperto. Vieni venduto da un
trafficante all’altro». Poche parole da merce umana, così efficaci da
finire in cima a un capitolo del dossier, il quinto, «Viaggio
dall’inferno». Quel dossier tutt’altro che inedito, 61 terribili pagine
redatte lo scorso dicembre, grava da un mese e mezzo sulle coscienze
dell’Occidente. E, come tutte le colpe che appaiono senza redenzione,
tende a essere rimosso.
Si chiama Desperate and dangerous: report
on the human situation of migrants and refugees in Lybia , ed è firmato
da due organismi dell’Onu: l’Alto commissariato per i diritti umani
(Unhcr) e la Missione di supporto in Libia (Unsmil). Consta di 1.300
interviste di prima mano raccolte tra gennaio 2017 e agosto 2018 nelle
visite di 11 centri di detenzione: non tutti e certo nemmeno i peggiori.
Cade due anni dopo un analogo rapporto (dicembre 2016) in cui l’Onu
dava l’allarme su una situazione umanitaria totalmente fuori controllo.
Ora scopriamo che in questo periodo le «autorità libiche si sono
dimostrate incapaci o del tutto refrattarie a mettere fine alle violenze
e agli abusi contro migranti e rifugiati».
Quelle 61 pagine
contengono in sé un paradosso: perché l’Onu, svelando gli orrori libici,
confessa una inanità nel contrastarli che potrebbe infine diventare
vergogna, in una sorta di Srebrenica mediterranea dove massacrata non è
una singola nazionalità per la sua appartenenza religiosa (allora, i
bosniaci musulmani) ma un’intera categoria umana: i fuggiaschi
dell’Africa.
Omicidi, fosse comuni nel deserto, stupri seriali e
di gruppo su donne anche incinte o su mamme che allattano, bambini
massacrati davanti ai genitori, ragazzi seviziati a morte in
collegamento video coi parenti che devono pagarne la liberazione,
schiavismo, lavori forzati, celle da centinaia di posti senza una
latrina, denutrizione, bruciature con ferri roventi, cavi elettrici ai
genitali, unghie strappate. Il paragone con Srebrenica non appare poi
forzato. Si muore di fame e di setticemia. Si resta in detenzione senza
motivo e all’infinito: una legge coniata da Gheddafi fa considerare
schiavi i migranti illegali, i governanti fantoccio di adesso non
l’hanno mai cambiata.
Cosa più importante, l’Onu ha «credibili
informazioni» sulla complicità di «ufficiali dello Stato… gruppi
formalmente integrati nelle istituzioni, rappresentanti del ministero
degli Interni e della Difesa, nel traffico di migranti e rifugiati.
Questi personaggi dello Stato si arricchiscono attraverso lo
sfruttamento e le estorsioni a danno di rifugiati e migranti».
Cade
il velo sulla menzogna della Libia come «porto sicuro» dove
plausibilmente ricondurre i migranti respinti in mare. Unhcr e Unsmil
hanno registrato 53.285 richiedenti asilo fermi in Libia quattro mesi
fa, ma sostengono che il numero sia enormemente più alto data l’estrema
difficoltà per le Nazioni Unite ad assolvere sul posto al proprio
mandato. A gennaio il segretario generale Antonio Guterres ha inviato al
Consiglio di sicurezza una relazione di 15 pagine (acquisita dalla
Corte penale internazionale dell’Aja) in cui spiega che lì i migranti
sono quasi 700 mila (10% donne, 9% bambini) ma in mano alle «autorità» è
solo una minoranza, di tutti gli altri non si sa quasi nulla, sono in
centri di detenzione inaccessibili, gestiti da gruppi armati.
Nel
rapporto Unhcr-Unsmil si sostiene anche che «nonostante la diminuzione
degli arrivi in Italia nel 2018, il viaggio è diventato più pericoloso,
con oltre 1.200 migranti morti nei primi otto mesi dell’anno scorso
durante la traversata». La guardia costiera libica (che ha preso il
controllo di 94 miglia nautiche di Sars) è descritta come una compagnia
di pirati in base a decine di testimonianze che parlano di uso delle
armi, collisioni in mare coi boat people, vere aggressioni.
Sulla
terraferma, Bani Whalid, Sabha, Kufra, Buraq al Shati, Shwerif, Sabratah
non sono, secondo l’Onu, centri di raccolta ma sostanzialmente campi di
sterminio gestiti da kapò di cui si conoscono persino i nomi e i
nomignoli, famigerati tra le loro vittime: Moussa e Mahmoud Diab,
Mohamed Karongo, Gateau, Mohamed Whiskey, Rambu… Le aste degli schiavi
furono documentate dalla Cnn in uno sconvolgente servizio nel novembre
2017. Le prigioni «alternative» sono hangar o cantine da 700 o 800 anime
stese le une sulle altre, donne e uomini in totale promiscuità: niente
acqua né luce. «A Shwerif ti sparano in una gamba e ti lasciano
dissanguare se non paghi… Per spingerci a pagare hanno picchiato mio
figlio di 5 anni con una spranga sulla testa», narra un profugo del
Darfur. I miliziani camminano sul ventre di donne incinte. Una tra mille
racconta: «Vengo dall’Eritrea, sono entrata il Libia a gennaio 2017,
sono stata rapita tre volte e portata ad Al Shatti, Bani Walid e
al-Khoms. Lì eravamo 200 in una stanza. Non potevamo respirare né
allungare le gambe. Ogni notte sono stata violentata da almeno sei
uomini, alcuni libici, altri africani, per cinque mesi. Mia madre ha
dovuto vendere la casa e impegnare tutto per pagare i 5.000 dollari che
questi volevano. Ora sono incinta di uno degli stupratori».
Nulla
di tutto ciò è, in assoluto, una rivelazione. Anche se il catalogo degli
orrori è così vasto da stordirci. A questi orrori dobbiamo l’enorme
(per quanto provvisorio) beneficio di non avere sulle nostre coste, in
qualche settimana, fiumi di disperati detenuti lì senza ragione e senza
scadenza. Ma certi benefici possono dannare. Se l’Onu non è una di
fabbrica di fake news (e ci sarà chi lo afferma, ne siamo sicuri) la
Libia è uno stato canaglia o, meglio, una federazione di bande
criminali. Certo, la realpolitik ci consiglia di voltarci altrove o,
addirittura, di spalleggiare una delle bande in lotta. Ma i fantasmi di
Bosnia hanno accompagnato la mala coscienza dell’Occidente per due
decenni. Davvero dobbiamo considerare la Libia come un buco nero, come
suggeriscono pragmatici strateghi? E quanto a lungo ci potrà proteggere
la realpolitik? Al posto di guardia Onu di Srebrenica, un graffitaro
cambiò la scritta «United Nations» in «United Nothing». Se la storia
insegna qualcosa, è che chi non combatte gli assassini, alla fine, ne è
complice.