sabato 2 febbraio 2019

Corriere 2.2.19
Il caso
Diede fuoco al clochard. Ma la madre dice: è incapace di far male
Gli abbandoni, i giorni vuoti
Il 17enne assassino per noia
di Andrea Priante


VERONA «Non voleva ucciderlo: mio figlio non farebbe male a una mosca». Per raccontare la storia di Ahmed Fdil, l’operaio diventato clochard e morto nel rogo della sua auto il 13 dicembre del 2017, si può partire anche da qui: dalla frase che la mamma del diciassette accusato del delitto (assieme all’amico che all’epoca aveva 13 anni, e quindi non è imputabile) ha ripetuto a chi, in questi mesi, è riuscito ad avvicinarla.
La donna, originaria di un Paese dell’Est, sembra non comprendere fino in fondo ciò che è accaduto. Quel giorno il ragazzo e l’amico raggiunsero la vecchia Fiat Bravo abbandonata a Santa Maria di Zevio, nel Veronese, che era diventata la casa di Ahmed. E diedero fuoco a dei tovaglioli di carta per poi gettarli all’interno dell’abitacolo, che si incendiò bruciando vivo il senzatetto. «Volevamo fargli uno scherzo», ha raccontato. Giovedì il tribunale per i minorenni di Venezia ha deciso di sospendere il processo e di concedergli la messa alla prova: se nei prossimi tre anni dimostrerà di comportarsi bene, il reato verrà dichiarato estinto e nessuno sarà mai condannato per l’omicidio del clochard.
Anche se non c’è giustificazione per la morte di un uomo indifeso, si può comunque tentare di capire come uno studente delle superiori possa trasformarsi in assassino «per noia». La sua vita è sempre stata in salita. «Non sa piangere, perché fin da piccolo tutti l’hanno abbandonato», dice chi conosce la sua storia.
Infanzia difficile
«Non è capace di piangere, fin da piccolo nessuno si è mai occupato di lui»
Nato in un Paese dell’Europa dell’Est, quand’era bambino sua madre lo lasciò per cercare lavoro in Italia. Avrebbe dovuto occuparsene il padre, che però pare fosse più interessato a fare carriera nell’esercito che a seguire la crescita del figlioletto, il quale si ritrovò a vivere con il nonno, pure lui ex soldato. «Un uomo rigido, mai un gesto d’affetto», raccontano. Tre anni fa, il ragazzino ottenne il permesso di trasferirsi dalla mamma — che nel frattempo aveva trovato un nuovo compagno — in un paesino del Veronese.
Pareva l’occasione per una vita migliore. Ma la periferia veneta può diventare un ambiente molto complicato per un adolescente straniero. Lui a scuola ci andava di mala voglia. Su Facebook si fotografava scuro in volto e su You Tube postava i filmati delle partite a un videogame che prevede di uccidere i passanti sparando o massacrandoli di botte. Nei paesini della Bassa, faceva il bullo. E così, aveva finito col mettere nel mirino il povero Ahmed Fdil. Anche quel 13 dicembre, quando a Verona è la festa di Santa Lucia: mentre i suoi coetanei erano a casa ad aprire i regali, lui stava per la strada a dare fuoco a un clochard. «La morte di un uomo non è giustificabile — premette il suo difensore, l’avvocato Giovanni Bondardo — ma l’infanzia difficile di questo ragazzo ci impone, oggi, di concedergli almeno la chance di diventare una brava persona».
I pomeriggi li trascorreva con l’amichetto che forse era l’unico a capirlo. Pure lui straniero, pure lui abbandonato a se stesso. Oggi ha 15 anni e nei mesi scorsi il tribunale ha sottolineato la necessità di un suo «allontanamento urgente dall’abitazione familiare». Dalla relazione dell’Usl: «Vive in condizioni abitative precarie (…) È svogliato, chiuso, difeso: i genitori riferiscono che il figlio non studia, non fa i compiti, passa il pomeriggio a gironzolare a piedi». Parlando di sé al magistrato che lo interrogava, raccontò: «A me piace giocare con il fuoco, tanto che quando sono annoiato mi piace passare la fiamma dell’accendino tra le mani». Anche in questo caso, mamma e papà «appaiono non consapevoli del rischio a cui il figlio potrebbe nuovamente esporsi — scrivono gli assistenti sociali — minimizzando l’accaduto». La responsabilità sarebbe dell’amico più grande: «Ha fatto tutto quell’altro — dice la madre — e ha “ribaltato” la colpa su mio figlio».