venerdì 1 febbraio 2019

Corriere 1.9.19
Una nuova rincorsa nucleare
Trump punta sulle tecnologie nucleari e manda in pensione il vecchio disarmo
di Franco Venturini


Forse già nelle prossime ore, gli Stati Uniti formalizzeranno la loro uscita dal trattato INF che nel 1987 mandò al macero gli euromissili. Ma non è soltanto questa controversa decisione a riaprire in Europa e altrove una «questione nucleare» mai davvero sopita, perché Donald Trump, prima di cestinare il divieto dei missili atomici di breve e media gittata simili a quelli che l’Italia ospitava in Sicilia, si è spinto fino ad annunciare la militarizzazione dello spazio. Ci aveva provato anche Ronald Reagan alla metà degli Anni Ottanta anticipando la saga cinematografica delle Star Wars, e dopo di lui George W. Bush aveva insistito nella ricerca di una America totalmente protetta dagli attacchi nucleari, mentre Barack Obama aveva messo il piede sul freno, pur lasciando la porta aperta a uno «scudo balistico» basato in mare e sulla terra. Ma nessuno, nessun precedente inquilino della Casa Bianca aveva mai avuto le motivazioni politiche e le capacità tecnologiche che oggi rendono perfettamente credibili i piani di Trump. Promettere l’invulnerabilità atomica all’intera popolazione americana, intanto, è una carta non da poco in vista delle presidenziali del 2020, e non è un caso che il Presidente l’abbia presentata come il definitivo trionfo della sua America First. Ma soprattutto Trump può contare, lui per primo, sull’avvento di una tecnologia che era soltanto futuribile ai tempi di Reagan e di Bush mentre ora è a portata di mano: l’intelligenza artificiale e i suoi derivati.
Gli Stati Uniti, ha spiegato Trump, non possono rimanere sotto la minaccia della Corea del Nord, dell’Iran, della Russia e della Cina. Noi americani dobbiamo essere sempre e comunque più forti di loro, e rendere invulnerabile il nostro territorio. Lo faremo piazzando nello spazio una costellazione di sensori capaci di segnalarci immediatamente la partenza, da ogni angolo del mondo, di un missile balistico intercontinentale (Icbm) diretto contro gli Stati Uniti. La tappa successiva, formalmente ancora da decidere ma prevista e inevitabile, sarà di far partire da una rete di satelliti in orbita i missili intercettori che dovranno distruggere, su indicazione dei sensori, i missili ostili ancora impegnati nella fase di decollo.
C’è di che rilanciare su grande scala i videogiochi e il cinema di fantascienza spaziale, ma questa volta Donald Trump ha tutta l’aria di fare sul serio. Il confronto tecnologico, per lui, è sempre stato l’altra faccia dei rapporti commerciali: è da questa combinazione che nasce il vero potere, e sarà questa combinazione a decretare quella leadership mondiale che la Casa Bianca vuole conservare respingendo la rivalità cinese e ridimensionando le capacità dell’arsenale nucleare russo. Proprio per questo, e non soltanto a causa di possibili violazioni russe, Trump ha voluto l’uscita dell’America dal trattato INF sugli euromissili e, malgrado gli appelli degli alleati europei, non ha dato gran peso agli incontri di Ginevra e di Bruxelles che dovevano cercare un compromesso con i russi sui modi per superare le accuse (peraltro reciproche) di violazione. In realtà gli americani, e probabilmente anche Putin, non accettano più di vedere le loro nuove tecnologie militari condizionate o frenate da vecchie intese Usa-Urss. E l’America, in particolare, vuole avere le mani libere sulla scelta dei missili da schierare in prossimità della Cina e della Corea del Nord. Non è scontato, perciò, che il suolo europeo debba tornare ad ospitare un braccio di ferro nucleare tra America e Russia. Ma il Cremlino ha già annunciato «contromisure» , e saranno queste a decidere se a loro volta gli Usa dovranno «rispondere» oltre che in Asia anche in Europa, esponendola a una nuova rincorsa nucleare. Lo stesso approccio liquidatorio adottato con l’Inf, peraltro, potrebbe presto applicarsi al trattato di disarmo New Start che limita, fino alla scadenza del 2021 se non ci saranno prolungamenti, i vettori e le testate nucleari di Usa e Russia. Se anche questo passo fosse compiuto un intero sistema di accordi per il controllo degli armamenti nucleari passerebbe in archivio, superato non tanto da nuove realtà geopolitiche quanto piuttosto da nuove tecnologie militari che la politica non può più, o non vuole più, tenere a freno. E Trump, esattamente come fece Reagan con l’Urss nel 1984, potrà cogliere l’occasione della militarizzazione dello spazio anche per imporre a Pechino e a Mosca una rincorsa estremamente costosa, che si tradurrebbe, soprattutto per la Russia, in un suicida dissanguamento finanziario.
La Cina e la Russia, appunto, hanno subito accusato Trump di destabilizzare il mondo perché la sicurezza nucleare dipende dall’equilibrio delle forze e non dal primato di una parte. Vero. Ma la Russia è stata in realtà la prima a muovere in questa partita di scacchi spaziale, producendo e collaudando con grande clamore il missile intercontinentale Vanguard a propulsione ipersonica, capace di cambiare direzione in volo e in grado di superare tutte le attuali difese anti-balistiche americane. Per rilanciare il suo declinante consenso interno Putin ha provocato Trump, senza pensare che lo stava invitando a nozze. Si apre così una nuova era di confronto nucleare che non può non apparire inquietante, perché cancella i progressi del passato e moltiplica a dismisura i rischi di guerre dovute al malfunzionamento di componenti tecnologiche avanzatissime ma non per questo infallibili. Se nello spazio verranno collocate anche armi offensive, e soprattutto se sarà (inizialmente?) una sola parte a collocarcele, la nuova frontiera tecnologica avrà accresciuto e non diminuito i pericoli di olocausto nucleare. E noi, e l’Europa? Mentre scavava la fossa al trattato sugli euromissili Trump ha tessuto l’elogio della Nato, ma ha anche chiesto agli alleati, Germania in testa, di partecipare adeguatamente alle nuove spese che l’America mette in conto. Come dire che i fondi sono garantiti soltanto per la protezione balistica degli Usa, mentre per gli alleati tutto dipenderà dalla loro volontà di spendere. L’Europa che aveva da poco riscoperto i problemi della sicurezza militare viene così superata in tromba da un Trump che rilancia la sua equazione favorita: se volete, pagate e allineatevi. Che brutto Occidente. Ma il missile Vanguard è peggio.

Corriere 1.2.19
L’Unione vara strumento anti sanzioni Usa all’Iran


I ministri degli Esteri di Francia, Germania e Regno Unito hanno annunciato la creazione di un veicolo finanziario speciale (Special Purpose Vehicle o Spv) per permettere agli operatori economici dell’Ue e dell’Iran di continuare a commerciare malgrado le sanzioni degli Stati Uniti. La società, che avrà sede a Parigi e si chiamerà Instex Sas (Strumento per il sostegno degli scambi commerciali), è destinata a preservare la parte economica dell’accordo sul nucleare concluso con l’Iran. Il veicolo finanziario speciale è stato presentato a Bucarest.

La Stampa 1.2.19
Clochard ucciso da un 17enne
“Niente carcere farà il volontario”
di Carlo Amato


Non può nascondere la rabbia mista a sconcerto: «È una vergogna. È stato ucciso un uomo, l’hanno bruciato vivo mentre dormiva. I colpevoli sono due ragazzini veronesi: uno non ha subìto nemmeno il processo perché troppo piccolo (aveva 13 anni, sotto ai 14 non sei imputabile, ndr), l’altro, diciassettenne, non passerà un giorno in carcere, starà in comunità e dovrà fare il bravo per tre anni, impegnarsi nel volontariato, in qualche lavoretto e in attività sportive. Tutto qui». Addolorato, triste: «Ma vi sembra giusto? Questo è il valore della vita di mio zio: lo zero assoluto. Forse perché è una vittima di serie B? Chi l’ha ammazzato se la caverà solo con un po’ di rieducazione e di psicoterapia. Se è questa la giustizia, io cercherò in tutto i modi di difendere chi giustizia non ha avuto urlando il mio disgusto e la mia rabbia, denunciando finché avrò fiato i criminali che gli hanno dato fuoco senza avere poi alcun prezzo da pagare».
La disperazione del nipote
È arrabbiato Salah Fdil, il nipote di Ahmed Fdil, il clochard di 64 anni di Santa Maria di Zevio, nel Veronese, morto carbonizzato nell’auto in cui viveva, la notte di Santa Lucia del 2017: i due adolescenti da tempo lo tormentavano, giocavano con la sua vita «per noia» fino a ucciderlo dando fuoco alla macchina dove il marocchino viveva, benvoluto da tutti nella piccola frazione. Aveva un soprannome, il «Baffo Buono». Anche la sera del 13 dicembre di tredici mesi fa, i due amici erano andati nella piazzola di sosta a tormentare Ahmed. Doveva essere «uno scherzo», pare gli abbiano lanciato contro dei petardi. Gli hanno lanciato nell’abitacolo fazzoletti di carta infuocati, sarebbe corso fuori spaventato, li avrebbe mandati via urlando, era già successo. Era un modo per rendere più vivo l’ennesimo pomeriggio monotono. Il «gioco disumano» s’è trasformato in una trappola mortale e il «Baffo Buono» è morto avvolto nelle fiamme, incastrato nell’auto che gli ha fatto prima da casa e poi da bara. Ieri, la sentenza del gup Maria Teresa Rossi del Tribunale dei Minori di Venezia ha ordinato la messa alla prova per tre anni del 17enne a processo per omicidio volontario aggravato dalla minorata capacità di difesa della vittima. Ahmed Fdil quella sera stava dormendo sul sedile della sua Fiat Bravo. A Venezia, ieri mattina, al processo, è arrivato da Barcellona Salah con la famiglia. «Volevo vedere in faccia l’assassinio di mio zio, capire se è davvero un “bambino“ troppo piccolo per capire o se invece è un “bambino” assassino».

Corriere 1.2.19
Venezia, due minorenni
Diedero fuoco a un clochard: niente condanne
di Andrea Priante


Bruciarono per gioco un clochard. Nessuna condanna per i due responsabili minorenni. Il tribunale di Venezia ha deciso la «messa alla prova» per il diciassettenne, mentre il tredicenne non era imputabile.
Venezia «Non passa giorno che non pensi a questo fatto. Voglio recuperare la mia vita, ripartire da zero…». Ha 17 anni e chi lo conosce bene assicura che «non è capace di piangere perché fin da piccolo tutti l’hanno abbandonato, a cominciare dal padre».
E infatti, ieri mattina, ad ascoltare le sue parole c’era solo la mamma, oltre al giudice del tribunale per i minorenni di Venezia che, alla fine dell’udienza, l’ha accontentato: rischiava una condanna a 14 anni per omicidio volontario e invece il processo è stato sospeso. Cancellata ogni misura cautelare, il magistrato ha ordinato per lui la «messa alla prova»: per tre anni dovrà rimanere nella comunità protetta in cui si trova già da alcuni mesi e affrontare un percorso di psicoterapia, oltre a proseguire nel programma rieducativo dei servizi sociali che prevede che continui a studiare, praticare sport e, due volte la settimana, fare del volontariato in un canile e in una struttura che assiste i disabili. Se le relazioni periodiche degli operatori confermeranno che il minorenne si comporta bene, tra tre anni il reato sarà dichiarato estinto.
Vista dai familiari della vittima, il risultato è che nessuno verrà mai condannato per la morte di Ahmed Fdil, 64 anni, di origini marocchine, che dopo aver perso il lavoro da operaio era diventato un senzatetto. Morì arso vivo nel pomeriggio del 13 dicembre del 2017 all’interno di una vecchia Fiat Bravo abbandonata a Zevio (nel Veronese) che era diventata la sua casa.
A innescare il rogo, il 17enne e un suo amico che all’epoca aveva 13 anni e che, vista l’età, non è neppure imputabile. Nei verbali resta il racconto dei ragazzini che da tempo tormentavano il senzatetto: «Lo facevamo per noia», hanno spiegato. Quel giorno andarono in paese «perché non avevamo niente da fare». Presero alcuni fazzoletti di carta da una pizzeria e li incendiarono gettandoli all’interno della vettura dove dormiva Fdil «con l’intenzione di fare uno scherzo». Poi la fuga e il giuramento: «Abbiamo fatto un patto tra noi: non dovevamo rivelare a nessuno quello che era successo».
Ieri in tribunale c’era anche il medico legale Paolo Frisoni, che ha svolto una consulenza per conto dei familiari della vittima: «L’autopsia ha dimostrato che Fdil non ha inalato una quantità di gas sufficiente a fargli perdere i sensi, quindi è stato bruciato vivo. Ha cercato di uscire dall’auto ma non c’è riuscito perché era incastrato con una gamba».
Il difensore del 17enne, Giovanni Bondardo, spiega: «A chi si scandalizza ricordo che la finalità delle decisioni di un tribunale, specie per un minore, dev’essere di recuperare il responsabile di un reato. Con la messa alla prova questo ragazzo potrà reinserirsi nella società». Alla lettura dell’ordinanza, il nipote del clochard, Salah Fdil, ha urlato: «Dunque la vita di un uomo non vale nulla? Questa non è Giustizia, è un circo». Il giudice l’ha cacciato dall’aula. Ma fuori Salah ha insistito: «È come se fosse morto un topo»

Repubblica 1.2.19
Bruciarono clochard per noia il giudice non li condanna
Avevano 13 e 16 anni. Il primo non è imputabile, l’altro va ai servizi sociali Il nipote: la pena non può essere il volontariato
di Enrico Ferro


Si può uccidere per noia senza trascorrere un giorno in carcere. Si può tormentare fino alla morte chi non ha nulla e uscirne comunque puliti. Nessuna condanna per i ragazzini responsabili della morte di Ahmed Fdil, clochard marocchino di 64 anni di Santa Maria di Zevio ( Verona), morto carbonizzato il 13 dicembre del 2017 nell’auto che era anche la sua casa. Si sono presi gioco di lui, l’hanno bruciato vivo ma, al momento del delitto, uno ha 13 anni e quindi non è imputabile, l’altro ne ha 16 e la giudice Maria Teresa Rossi del Tribunale dei Minori di Venezia gli ha concesso la messa in prova per tre anni. Ciò significa comunità, lavori socialmente utili e psicoterapia. « Questo è il valore della vita di mio zio, lo zero assoluto» ha fatto in tempo a gridare il nipote Salah Fdil in tribunale, prima di venire allontanato dall’aula. Il reato contestato era omicidio volontario aggravato dalla minorata capacità di difesa della vittima, perché quella sera Ahmed stava dormendo sul sedile della sua Fiat Bravo avvolto da una coperta. Gli scherzi andavano avanti da tempo. A loro, in fondo, piaceva così. Sapevano che nell’abitacolo di quell’auto si era ridotto a vivere un marocchino senza casa, senza famiglia, senza lavoro, uno che chiedeva l’elemosina al mercato. La loro passione era tormentarlo proprio nelle ore della sera. Il massimo dell’eccitazione lo raggiungevano con i petardi lanciati nella piazzola di sosta dove stazionava regolarmente la vecchia Fiat. Lui si svegliava di soprassalto, usciva imprecando e loro fuggivano ridendo come matti.
Quella sera di poco più di un anno fa il "Baffo" aveva lasciato il finestrino dell’auto un po’ aperto per far passare l’aria. I due ragazzini hanno avuto l’idea di buttarci dentro alcuni fazzoletti di carta incendiati. «Quell’uomo è morto bruciato vivo, non è riuscito a uscire ed è diventato una torcia umana», sintetizza l’avvocata Alessandra Bocchi, del foro di Vicenza, che assiste il nipote della vittima. Un gioco disumano che si trasforma in una trappola mortale. Inizialmente i carabinieri pensarono a un incidente, perché ad Ahmed piaceva bere e anche fumare. Ma dopo qualche giorno, nel paese a poco più di dieci chilometri da Verona, sono iniziate a girare voci sui tormenti patiti dal senzatetto a opera di alcuni ragazzini. La prima segnalazione giunge quasi per caso, nel corso di un banale intervento per un litigio sorto dopo un piccolo incidente stradale. Un ragazzino, anche lui minorenne, sfida i carabinieri: «Voglio vedere se riuscite a trovare chi ha ucciso il "Baffo", tanto io so tutto » . Passano altri giorni e una nuova segnalazione giunge stavolta grazie a un insegnante imbeccato dai suoi studenti. Vengono individuati i due ragazzini, uno di 13 e l’altro di 16 anni che, messi alle strette, iniziano a incolparsi a vicenda. « Gli dicevamo barbone di m… ma l’idea dei fazzoletti non è stata mia » , dice il diciassettenne. Viene ricostruita la scena. I due ammettono di essersi appostati per tormentare, ancora una volta, quell’uomo solo e indifeso. Il racconto che il tredicenne fornisce agli investigatori è una storia speculare all’altra ma a responsabilità invertite. Poi ci sono le chat intercettate, altro spaccato desolante di un’adolescenza maledetta. «Hai realizzato il tuo sogno di ammazzare una persona » , lo incalza il sedicenne. Ma l’altro nega: « Il mio sogno era ammazzare un gatto».
« Decisivo è stato il parere del responsabile dei Servizi sociali, secondo cui l’imputato avrebbe dimostrato pentimento » spiega l’avvocata Bocchi e ancora non si capacita.
Quanto vale una vita
In alto, l’auto carbonizzata del clochard. Sopra, fiori lasciati nel luogo in cui l’uomo è stato ucciso "per gioco"

Corriere 1.2.19
Prince, aveva 25 anni, veniva dalla Nigeria: asilo negato e il salto sui binari
«Non ce la faccio più»
di Andrea Pasqualetto


L’hanno trovato fra i binari di Tortona, dove si è tolto la vita. «Non ce la faccio a vedervi, vi chiedo scusa». Un sms a due amici e nulla più. Di Prince Jerry, della sua fine, del suo gesto estremo, rimangono queste poche parole che nessuno aveva letto come definitive.
È difficile sapere cosa gli sia scattato nella testa lunedì scorso, quando ha deciso di andarsene da Genova per una Tortona a lui sconosciuta. Ma di certo la sua vita non era il sogno che aveva immaginato. L’ultima delusione è arrivata in dicembre. Una lettera, un timbro prefettizio e quelle due righe: la richiesta di protezione internazionale non è stata accolta per mancanza di requisiti.
Prince aveva 25 anni, veniva dalla Nigeria e aveva scelto l’Italia per il suo futuro. Era sbarcato due anni e mezzo fa ad Agrigento, dopo sei mesi trascorsi in Libia dei quali non amava parlare. Genova era diventata la sua città e il centro Migrantes di don Giacomo, la sua casa. Una storia come tante e come tante tragicamente finita. «Girava sempre con un libro di chimica sotto il braccio, lo leggeva ovunque, appena poteva», ricorda Maurizio Aletti, presidente di Migrantes, che ha stampato nella memoria il sorriso gentile e costante del giovane nigeriano. «La chimica era la sua passione. Avrebbe voluto fare quello nella vita. Pensava di iscriversi all’università per sostenere gli esami necessari a farsi riconoscere la laurea».
C’era bisogno di un italiano fluente e lui stava facendo di tutto per impararlo. «Seguiva corsi di lingua due volte alla settimana, dentro e fuori la nostra associazione. Era già a buon punto, lo parlava e lo capiva». Aveva cercato di inserirsi con slancio nella comunità di monsignor Martino che nel capoluogo ligure ospita 230 ragazzi. «Si occupava del recupero di vestiti usati raccolti in città che noi chiamiamo staccapanni. Lavorava nell’orto e nel frutteto e nei momenti ricreativi giocava a calcetto e a pallavolo. Ma aveva il pallino della laurea. Lo feriva il fatto del mancato riconoscimento».
Non parlava molto, Prince. Non era un compagnone. Poche, misurate parole. E poi quel tratto cortese «che mi ha sempre colpito di lui. Aveva uno sguardo solare». Un sorriso e uno sguardo che negli ultimi mesi non erano più gli stessi. Se n’era accorto l’amico Pedro, nigeriano come lui. «Avevo capito che stava male ma non avevo capito tutto», ripete ora come un ritornello.
Per monsignor Martino il motivo del malessere è chiaro: «Dopo aver ricevuto il diniego alla sua domanda di permesso di soggiorno si è tolto la vita buttandosi sotto un treno», ha scritto in una chat ai suoi parrocchiani, «Prince Jerry non scappava dalla guerra, nessuno lo avrebbe ammazzato nel suo Paese. Era un laureato che sperava di trovare un futuro migliore e non aveva alcuna speranza di essere accolto, da quando il permesso per motivi umanitari è stato annullato dal recente Decreto».
Per la verità, la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva deciso di negargli la protezione ben prima dell’introduzione della nuova legge.
«Era il 30 luglio, lui era stato sentito in quella data — precisano alla Prefettura di Genova —. La Commissione ha ritenuto che non avesse i requisiti per rimanere sul territorio nazionale, anche se era una persona integrata e colta. Non era nei parametri».
La decisione, presa a luglio, gliel’hanno comunicata il 17 dicembre. Prince ha fatto anche ricorso, ha cercato di lottare. Ma qualcosa in lui è crollato. «La speranza», aggiunge Aletti.
Lunedì scorso monsignor Martino ha ricevuto una telefonata da Tortona: «Ho dovuto fare il riconoscimento di quanto era rimasto di lui».

il manifesto 1.2.19
A Firenze una giornata per Rosa e Karl


Archivio '68. Una giornata per Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, organizzata dall'Archivio '68 domani, sabato 2 febbraio, a partire dalle 15 nella Sala Ketty La Rocca in piazza delle Murate, a cento anni dal loro assassinio. Una riflessione affidata a Vito Nanni, Riccardo Bellofiore, Vincenzo Miliucci e Giuseppe Gambino. In mostra dieci pannelli su Luxemburg, Liebknecht, Karl, Grosz, Kollwitz, Max Beckmann ed epitaffi di Brecht, in sala anche il Coro d’assalto Garibaldi di Livorno.
di Riccardo Chiari

FIRENZE Una giornata per Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, organizzata dall’Archivio ’68 domani, sabato, a partire dalle 15 nella Sala Ketty La Rocca in piazza delle Murate, a cento anni dal loro assassinio. “Vogliamo ricordarli – ben sintetizza Giuseppe Gambino – perché, come dice Hannah Arendt, ‘nel passato ci sono grumi di futuro’, e la rivoluzione è un grumo incandescente, un qualcosa che può ancora generarsi”. Da parte sua Maurizio Lampronti dell’Archivio ’68 osserva: “Ci è sembrato importante ricordare il loro ruolo non secondario nell’elaborazione di un pensiero e di un’azione autenticamente comunista, nel senso nobile del termine”. La riflessione è affidata a quattro relazioni di Vito Nanni, Riccardo Bellofiore, Vincenzo Miliucci e appunto Giuseppe Gambino, che ancora osserva: Della Luxemburg vogliamo ricordare la rivoluzionaria, la marxista, per Mehring la più geniale fra i discepoli, la donna. E vogliamo preservare la memoria, perché nella sua città natale, Zamosc, in Polonia, hanno tolto la targa sulla sua casa. Infine è importante far conoscere ai giovani questi protagonisti del 900, in particolare Liebknecht, che in Italia conoscono in pochi”. Annessa al convegno una mostra con dieci pannelli su Luxemburg, Liebknecht, Karl, Grosz, Kollwitz, Max Beckmann ed epitaffi di Brecht, e sarà presente in sala il Coro d’assalto Garibaldi di Livorno. “Cercheremo di focalizzare principi centrali politici quali l’antimilitarismo, la lotta contro la guerra, la necessità di un’azione coerentemente internazionalista, e la lotta per una società socialista – chiude Lampronti – segnalando la necessità, anche oggi, di una preparazione teorica e di un rapporto con le fasce sociali sfruttate, emarginate e represse”.

La Stampa 1.2.19
Chi l’ha detto che l’altruismo in natura non funziona?
di Federico Vercellone


Altruismo è una parola che fa paura, assomiglia a una sfida inutile. Le forze che trainano la vita sembrano inclinare, quantomeno nella vulgata, in tutt’altra direzione. In natura dovrebbe vincere il più adatto secondo una versione un po’attempata del darwinismo, mentre lo spazio sociale sembra esser dominato da logiche selvagge che replicano quello che si immagina avvenga nel creato. Probabilmente, tuttavia, le cose non vanno così né sull’uno né sull’altro versante. Lo testimonia, tra l’altro, anche un volume collettivo molto ricco e variegato, comparso ora presso la Forum di Udine, L’altruismo. Competizione e cooperazione dalla biologia all’economia, dalla filosofia alle neuroscienze curato da due biologi dell’Università di Udine, Francesco Nazzi e Angelo Vianello.
Come viene annunciato dal titolo, lo spettro del discorso è molto ampio e si va dalla biologia evoluzionistica, alle relazioni interattive in natura come quelle tra fiori e api, alla filosofia, e in particolare all’insegnamento socratico che intende la maieutica come un farsi vuoti di ogni sapere, come un’apertura fondamentale grazie alla quale Socrate si fa oblativamente generatore del sapere e dell’individualità altrui. Di qui si va ancora oltre, all’economia e al tema dei beni comuni, e poi alle neuroscienze e ai neurotrasmettitori per venire, in un panorama molto variegato e vasto, alle vette religiose e spirituali della relazione anima-corpo. Sullo sfondo aleggia il grande libro di Martin Nowak, Supercooperatori che ci mostra come l’evoluzione non funzioni semplicemente su basi competitive ma si aiuti potentemente con le armi della cooperazione e dell’altruismo. La cooperazione riguarda la natura vegetale, quella animale e quella umana. L’esempio delle api è centrale in un quadro più ampio che mostra come di fatto sovente gli individui più propensi alla cooperazione siano anche quelli che in natura sono più adatti a sopravvivere nella lotta per la vita.
Dall’insieme di questi discorsi emerge una domanda fondamentale: funziona meglio, e cioè è più performativa una razionalità puramente strumentale, esclusivamente rivolta allo scopo, per dirla con Max Weber, o una razionalità che miri a integrare il suo funzionamento con l’andamento della natura, e sia pertanto ispirata a finalità etiche, all’idea di una vita felice? Paradossalmente, dimezzando lo sforzo, addomesticando cioè la fatica dei conflitti, la cooperazione è l’indice di una razionalità migliore e più performante della quale sa Dio quanto abbiamo bisogno in un mondo che ha perso l’orizzonte ultimo del proprio sviluppo, il significato del futuro.

il manifesto 1.2.19
Le sfide sindacali e la manifestazione di Roma
Recessione. Nell’era della globalizzazione è lo Stato che ha perso terreno rispetto al capitale – Paolo Leon utilizzava le coppie capitale-lavoro, capitale-stato e lavoro-stato -, così come il lavoro ha perso terreno rispetto al capitale in misura ben peggiore delle ultime denunce sulla distribuzione del reddito (Oxfam)
di Roberto Romano


Il 9 febbraio Cgil, Cisl e Uil manifestano a Roma contro la manovra del governo, un appuntamento importante, anche per il segretario generale Maurizio Landini. Il sindacato scende in piazza, è solo l’inizio di una nuova sfida, che riguarda questioni strutturali. Naturalmente nella manovra economica alle responsabilità del governo si aggiungono quelle della Commissione europea, testimoniate dalle clausole di salvaguardia pari a quasi 55 mld , da attribuire alle pressioni europee.
L’Europa si trova davanti a un appuntamento importante: caduto il Fiscal Compact come diritto comunitario, il governo dell’economia europea potrebbe trovare degli inediti equilibri. Predisporre un bilancio pubblico europeo, finanziato con risorse proprie e non da trasferimenti degli Stati. Se i redditi da lavoro sono gli unici soggetti a tassazione progressiva, l’Europa potrebbe tassare gli altri redditi in misura coerente per garantire uno Stato sociale europeo, ripartito tra i membri dell’area euro. Per realizzare un bilancio pubblico degno di questo nome, l’Europa dovrebbe contrastare gli oltre 7 paradisi fiscali che ospita al proprio interno.
Nell’era della globalizzazione è lo Stato che ha perso terreno rispetto al capitale – Paolo Leon utilizzava le coppie capitale-lavoro, capitale-stato e lavoro-stato -, così come il lavoro ha perso terreno rispetto al capitale in misura ben peggiore delle ultime denunce sulla distribuzione del reddito (Oxfam).
Il ripiegamento del lavoro, vero finanziatore dello Stato, ha determinato la sconfitta dello Stato e quindi dell’economia pubblica rispetto al capitale. Paradossalmente ci sarebbe una occasione di una alleanza Stato-lavoro per ridimensionare il capitale a un livello adeguato (Europa).
Un altro terreno di riflessione che attende il nuovo segretario della Cgil è legato alla politica industriale e alla creazione di lavoro. Come suggeriva Riccardo Lombardi, occorre cambiare il motore della macchina senza fermarla e, per questa via, creare tanto lavoro quanto se ne perde, magari di buona qualità. Se l’Europa non attraversa un buon momento, l’Italia industriale vive una crisi nella crisi. Il lavoro non nasce dalla benevolenza di qualcuno, piuttosto da un capitale che dovrebbe misurarsi con la dinamica di struttura dello stesso (Marx). Il problema italiano è legato a un capitale che ha rinunciato alla crescita in ragione di una de-specializzazione che ha condotto i salari agli attuali livelli.
Se il Pil nazionale cresce meno della media europea, anche i salari sono costretti da questa dinamica, con una aggravante: con il ritiro dello Stato come agente di intermediazione tra capitale e lavoro, il profitto ha potuto conservare la propria posizione.
Più esplicitamente: più investimenti non significa più lavoro, semmai una sostituzione di lavoro con macchine importate da altri Paesi. Infatti, il moltiplicatore degli investimenti nazionali sono una frazione di quelli tedeschi. Il Piano del Lavoro della Cgil e la discussione del forum degli economisti, guidato da Gianna Fracassi e Riccardo Sanna, sono un progetto da prendere sul serio.
La carta dei diritti e il piano del lavoro della Cgil sono due facce della stessa medaglia, a cui serve una sponda – lo Stato (europeo) -.

Repubblica 1.2.19
L’inchiesta
Il naufragio del 18 gennaio e la Guardia costiera
Tre ore di indifferenza le omissioni degli italiani nella strage dei 117
I migranti avvistati alle 13.40, i libici coordinano i soccorsi solo alle 16.40 Il procuratore di Agrigento: "In 180 minuti la differenza tra vita e morte"
di Alessandra Ziniti


Di che cosa stiamo parlando
Il 18 gennaio un gommone con 120 persone a bordo (tante donne e bambini, uno dei quali di due mesi) è affondato a 50 miglia da Tripoli. Solo tre i superstiti, salvi grazie a due zattere lanciate da un aereo militare italiano e poi recuperati da un elicottero. I pm di Agrigento ipotizzano che i soccorsi non siano stati coordinati in modo adeguato dalla Guardia costiera italiana, prima a ricevere l’alert, e hanno trasmesso il fascicolo a Roma chiedendo di valutare se sussista il reato di omissione di atti d’ufficio

AGRIGENTO Tre ore di telefonate senza risposta, tre ore di rifiuto delle Ong con il solito ritornello: «Il coordinamento è dei libici, chiamate loro», tre ore di ordini mancati e di navi non richiamate a prestare aiuto. Quella che vi raccontiamo è la cronaca di una strage figlia di un ipocrita sistema di soccorsi, sostenuto dall’Italia e dall’Europa tutta, che affida alla Libia la responsabilità della salvezza di chi parte dalle sue coste pur consapevoli della sua inadeguatezza. È la cronaca di una giornata come tante altre, venerdì 18 gennaio, in cui però nella zona Sar libica qualcosa è andato più storto del solito. Di chi sono le responsabilità di questa strage?
Dei trafficanti, certamente, che hanno stipato all’inverosimile un gommone vecchio e mezzo sfondato, della Guardia costiera libica che troppo tardi ha mandato i soccorsi ma forse anche della Guardia costiera italiana, prigioniera dell’ormai consueta prassi, ordinata dall’alto, di non intervenire negli eventi che si verificano nella Sar libica.
Dimenticando che la convenzione di Amburgo prevede che, fino a quando l’autorità competente nella zona in cui si verifica l’evento non assume il coordinamento, la responsabilità del soccorso è di chi ne viene per primo a conoscenza. In questo caso l’Italia. Che forse non ha fatto tutto quello che avrebbe dovuto e potuto. Questo, almeno, è quello che ipotizza la Procura di Agrigento che, dopo aver sentito i tre superstiti e raccolto i documenti sulle comunicazioni tra gli attori della tragedia, ha inviato il fascicolo alla Procura di Roma chiedendo di valutare se, nelle scelte di chi quel giorno sedeva nella sala operativa dell’IMRCC di Roma, è ravvisabile il reato di omissione di atti d’ufficio. «Tre ore — dice il procuratore aggiunto Salvatore Vella — fanno la differenza tra la vita e la morte». Ecco la ricostruzione di quella giornata.
Ore 13.40: l’avvistamento
L’aereo P-72° del 41° stormo dell’Aeronautica militare di Sigonella, in volo di perlustrazione sul Mediterraneo, individua in un’area a 50 miglia a nord est di Tripoli un gommone "in fase di affondamento". I militari vedono una cinquantina di persone a bordo, diverse altre in acqua. Avvertono immediatamente il loro comando e l’IMRCC di Roma, lanciano due zattere di salvataggio che si aprono regolarmente e fanno ritorno alla base. È questa l’ora in cui la sala operativa della Guardia costiera a Roma viene a conoscenza del naufragio in atto.
In quel momento, secondo le testimonianze dei superstiti, la metà degli occupanti del gommone è già scivolata in mare.
Ore 13.42: passa il mercantile
I piloti dell’aereo Moonbird della Ong dell’aria che collabora con la Sea Watch, in pattugliamento nel Mediterraneo, captano la conversazione tra il velivolo militare e Roma e avvertono il comandante della Sea Watch che è da poche ore entrata in zona Sar libica. Vedono transitare in zona un mercantile Cordula Jacob, che batte bandiera liberiana e si sta allontanando dalla Libia in direzione dell’Egitto. Ma nessuno lo informa del naufragio.
Ore 14.00: il no ai soccorsi
Dalla Sea Watch 3 parte una telefonata alla sala operativa di Roma. La nave umanitaria dà la propria disponibilità ad andare in soccorso dei naufraghi e chiede notizie sulle coordinate. La risposta è quella ormai consueta: «Nessuna informazione, il coordinamento dei soccorsi è di Tripoli, chiamate loro».
Cos’altro fanno a Roma dopo aver saputo del naufragio in corso? I pm di Agrigento ricostruiscono una serie di telefonate dall’IMRCC a diversi numeri della Guardia costiera libica, ma non risponde nessuno per diverse ore. E nessuno risponde neanche al comandante della Sea Watch che prova inutilmente a mettersi in contatto con i libici. Nell’attesa che i libici rispondano da Roma nessuno ritiene di chiamare le navi più vicine che, in quel momento, sono il cargo liberiano e la Sea Watch 3 alla quale vengono negate le informazioni.
Ore 15.02: il primo allarme
Solo un’ora e ventidue minuti dal primo alert, Roma si decide a diramare il cosiddetto Navitex a tutte le navi in transito nella zona Sar libica. Comunica che c’è un gommone semiaffondato con 50 persone a bordo e due in acqua, dà le coordinate nautiche e indica i numeri di telefono della Guardia costiera libica a cui rivolgersi.
Conosciute finalmente le coordinate, la Sea Watch 3 si dirige verso il gommone ma è a dieci ore di navigazione
Ore 16.40: la risposta libica
È l’ora in cui la Guardia costiera libica prende finalmente in carico il coordinamento dei soccorsi. Dal primo alert sono passate tre ore.
Più o meno alla stessa ora sulla verticale del gommone ormai del tutto affondato arriva l’elicottero della Marina militare italiana decollato dal Cacciatorpediniere Duilio che è a 115 miglia.
Ore 16.45: il ritorno del cargo
La guardia costiera libica chiede all’Imrcc di Roma di chiamare il cargo liberiano (che nel frattempo ha fatto tre ore di strada allontanandosi dal luogo del naufragio) per farlo convergere alla ricerca di eventuali superstiti. Da Tripoli non parte nessuna motovedetta, i libici dicono di non averne disponibili. Anche il cacciatorpediniere Duilio punta sul luogo del naufragio
Ore 21: il soccorso
Il mercantile Cordula Jacob arriva in zona, è buio, scandaglia la zona ma non trova nessuno, né superstiti né cadaveri. Sono ormai passate sette ore e mezza dal naufragio
Ore 01.00: le zattere vuote
Arriva anche la Sea Watch 3 ma nel punto indicato ci sono solo le due zattere gialle ormai vuote.

Repubblica 1.2.19
Il superstite Nasir: " Chiudevo gli occhi per non vedere i morti intorno a me"
di A. Z.


Agrigento Nasir si è aggrappato all’ultimo pezzo del gommone che affiorava ancora cercando di resistere agli strattoni disperati degli altri compagni di viaggio che annegavano attorno a lui. « Nessuno di noi aveva il giubbotto di salvataggio, gli scafisti non ce lo hanno dato. Io non so nuotare, quando l’aereo ha tirato le zattere non sono riuscito a raggiungerle e sono rimasto attaccato a non so che cosa. Non so quanto tempo è passato, tre ore, o quattro o cinque, vedevo morire le persone accanto a me, le donne con i bambini. Ho pensato che sarei morto pure io. Di freddo. Poi credo di essere svenuto».
È un racconto drammatico ma dettagliato quello che Nasir, 25 anni, sudanese, così come gli altri due superstiti, un altro ragazzo del Sudan e un gambiano, ha fatto al procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella che è andato ad interrogarli a Lampedusa dove sono stati portati in grave stato di ipotermia. Adesso sono stati trasferiti in un’altra struttura e hanno avanzato richiesta di permesso come testimoni di giustizia. I loro sono gli unici occhi di questa strage, quelli che il giorno dopo hanno restituito i reali numeri della tragedia, 117 vittime e non qualche decina come sembrava nell’immediatezza.
« Sono sicuro del numero perché i trafficanti ci hanno fatto salire sul gommone a gruppi di dieci contando. Ci spingevano con i kalashnikov. Eravamo 120. Sulla spiaggia di Garabulli, da dove siamo partiti, sono rimaste otto donne che non erano riuscite a pagare tutta la cifra del viaggio. Eravamo rinchiusi tutti insieme in una connection house lì vicino. Non ci hanno dato salvagente, solo un telefono Thuraya. Erano le due di notte e c’era vento, il mare era mosso. Eravamo così stretti sul gommone che dovevamo stare con una gamba dentro e una fuori».
Dieci, undici ore dopo l’inizio della fine. «Le onde si erano alzate e il gommone sbatteva. A un certo punto si è aperta una falla sul fondo e ha cominciato ad entrare acqua. L’uomo che aveva il telefono ha cominciato a chiamare i soccorsi ma non rispondeva nessuno. La parte di dietro ha cominciato a cedere e le persone scivolavano giù gridando. Ho visto morire tutte le donne e i bambini, ce n’erano tanti, uno aveva solo due mesi. Quando abbiamo visto l’aereo abbiamo pensato di essere salvi. Hanno tirato la zattere, ma la gente non sapeva nuotare. Solo pochi sono riusciti ad aggrapparsi. Ma poi l’aereo è andato via e non si è visto più nessuno per tre, quattro ore. Non so quanto tempo è passato. Io ho chiuso gli occhi per non vedere la gente che moriva accanto a me».
— a.z.

il manifesto 1.2.19
Immunità, il voto di lotta e di governo strazia il M5S
Caso Diciotti. I vertici pentastellati e il premier Giuseppe Conte alle prese con i mal di pancia della base militante grillina. Molti senatori a cinque stelle si sono convinti della linea a favore del vice premier
di Andrea Colombo


I vertici pentastellati, soprattutto la delegazione al governo, e dunque anche il premier in primissima persona, hanno una missione da portare a termine entro il 22 febbraio, quando la Giunta del Senato voterà sull’autorizzazione a procedere contro il ministro Salvini: convincere la base del Movimento e gli elettori che negare l’autorizzazione per Salvini non significa affatto derogare dei princìpi dei 5S, essendo questo caso molto diverso da tutti quelli precedenti. Conte non si risparmia: «Parlare di immunità è uno strafalcione giuridico. Definire questo voto un salva-Salvini un falso». Il quesito, chiarisce il capo del governo sulla falsariga di quanto aveva dichiarato nella relazione introduttiva il presidente della Giunta Gasparri, è se il ministro «abbia agito per il perseguimento di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o di un interesse pubblico o per i suoi interessi personali».
Le cose non stanno proprio come le mette il premier, ma neppure se ne discostano troppo. Come puntualizza lo stesso Gasparri: «La ragion di Stato deve essere dimostrata e noi su questo ci dobbiamo pronunciare». Non basta che il ministro provi di essere stato animato da ottime intenzioni condivise da tutto il governo. Deve anche riuscire a dimostrare che la sua percezione sull’interesse dello Stato era fondata e giustificata. Per questo risulta così centrale l’assenza di carte a sostegno del sospetto di presenze terroriste a bordo. Se ci fossero, ma pare che così non sia, il problema sarebbe già risolto.
Ma anche se la versione del capo del governo è edulcorata ed approssimata a vantaggio del suo vice, la questione si pone effettivamente in termini sideralmente distanti da quelli di una comune richiesta di autorizzazione a procedere, nella quale tutto verterebbe intorno all’esistenza o meno del fumus persecutionis. Per un partito di governo che quella decisione non solo dice di aver condiviso ma fragorosamente rivendica, non dovrebbe infatti essere difficile farsi convincere dell’esistenza di quella ragion di Stato. Invece l’opera di convinzione nella quale Conte è impegnato non è affatto semplice, soprattutto perché né Salvini né i 5S si sono resi conto sino a un paio di giorni fa dei veri termini in cui si pone la faccenda, e neppure di quanto siano pericolosi per il vicepremier che, se sconfessato dal Senato, andrebbe incontro a una probabilissima condanna.
Il problema non sono tanto i senatori a 5 Stelle, molti dei quali sono già convinti anche se quelli che invece vogliono a tutti i costi andare fino in fondo rappresentano comunque un guaio serio dal momento che, se abbandonassero il Movimento in caso di voto contro l’autorizzazione, ridurrebbero a un paio di voti la già esigua maggioranza al Senato. Il punto dolente non sono neppure gli elettori. Secondo un sondaggio Emg presentato ieri da Agorà il 57% del campione è contrario all’autorizzazione, percentuale che si impenna sino al 66% proprio tra gli elettori dell’M5S. Il problema è quella parte sostanziosa della base militante pentastellata per la quale non possono esserci dubbi a priori: se la magistratura vuole processare un politico non ci si oppone per principio. Così il partito di Di Maio rischia comunque l’emorragia, quella degli elettori salviniani se spedisce il ministro alla sbarra, quello dei duri e puri di antica data se non lo fa.
Per motivi diversi anche Salvini deve convincere i 5S, altrimenti rischia davvero grosso. Incappa subito in una gaffe, raccontando di aver messo al corrente della sua lettera al Corriere Di Maio e Conte la sera precedente, affermazione subito fatta smentire informalmente dal collega vicepremier. E deve riparare al danno che si è arrecato da solo con le incaute dichiarazioni dei primi giorni. I toni ora sono ben diversi: «Il processo sarebbe un’invasione di campo senza precedenti. Il Senato dovrà dire se l’ho fatto per interesse pubblico o per capriccio personale. Chi ha letto le carte sa cosa è successo. Lascio a loro la scelta ma penso che voteranno di conseguenza». È un messaggio chiaro che il ministro ripeterà quando, mercoledì prossimo, si presenterà forse con una relazione, più probabilmente di persona, al cospetto della giunta.

il manifesto 1.2.19
Cuperlo: «Pd, cambiare forte. Se no consegneremo il paese alle destre per anni»
Intervista/Primarie dem. L'ex deputato: gli M5S? Si è esaurita la loro funzione di argine alla Lega Zingaretti cambi tutto, il consenso non viene dalle promesse fallite. Sul dialogo a sinistra ho letto le parole di D’Alema, sono di puro buon senso. Ma fa bene Nicola a fare la sua campagna guardando fuori. Serve aprire un enorme cantiere
intervista di Daniela Preziosi


«La fotografia di Domenico De Masi è drammaticamente vera. Sbaglieremmo a sottovalutare i troppi segni di una deriva autoritaria». Gianni Cuperlo, ex deputato Pd, si riferisce a quello che il sociologo ha detto al manifesto due giorni fa: «La sinistra va lentissima, e invece la Lega corre, l’Italia è a rischio Brasile».
Per citare un vecchio slogan del manifesto, allarme son fascisti? È un termine che alcuni diffidano dall’usare.
Preferisco parlare di germi autoritari. Cos’è il richiamo a “farsi votare” se non usare la rappresentanza come manganello contro chi dissente dal governo, Banca d’Italia, magistrati o informazione? Sui migranti si è detto tutto. Aggiungo che in quel “prima gli italiani” c’è anche l’ideologia di sangue e suolo, tema risolto da Karl Kraus: dall’impasto di sangue e terra viene il tetano. E poi il culto dell’incompetenza, il rifiuto di un pensiero critico, il disprezzo per ogni diversità fino al censimento culturale degli scienziati e manie di machismo corredate dall’amore fanciullesco per le divise.
I 5 stelle sono gli utili idioti, o ormai sono risucchiati dall’accelerazione leghista?
I 5 Stelle non hanno retto la prova del governo. Per una fase hanno arginato la spinta a destra, ma quella funzione si è esaurita quando hanno smesso di essere all’opposizione. Al governo sono esplose contraddizioni che Di Maio non è in grado di gestire. Al posto dell’urlo «onestà» devono studiare gli arzigogoli per garantire a Salvini l’impunità. Persino il reddito di cittadinanza, su cui è giusto discutere, si è risolto in un pasticcio. Sui migranti hanno subìto il cinismo leghista. Ma la capriola che in 24 ore li portò dall’impeachment per Mattarella a giurare al Quirinale diceva già tutto.
Nel Pd il dialogo con loro è una bestemmia, oggi più di prima?
Bestemmia è tenere dei disperati in ostaggio per giorni e purtroppo il vertice 5 Stelle ha scelto di bestemmiare.
E la sinistra che fa, si arrende?
Ma no. Dalla Cgil è venuto un segnale di unità. Il ruolo prezioso del sindacato si vedrà nella manifestazione del 9 febbraio. E se metto in fila cose diverse, la piazza spontanea di Milano contro Orbán, quelle di Riace, Roma e Torino, il moto solidale innescato dallo sgombero del Cara di Castelnuovo di Porto, vedo un paese meno muto di come lo si descrive.
Siamo arrivati al Pd. Il congresso fin qui non ha riacceso grandi speranze. Sbaglio?
La vera assenza in questo quadro è quella della sinistra politica. In parlamento facciamo il nostro dovere, ma il tema è fuori dai palazzi. Il congresso del Pd serve se rilancia una funzione di questa forza nella società. E il congresso non si vince solo nei circoli ma fuori da noi, se recuperiamo quell’iniziativa che dopo la sconfitta peggiore di sempre è mancata.
Ma il Pd fa opposizione al reddito con le parole di Confindustria. Come farà a recuperare il consenso popolare?
Quando perdi molto devi cambiare molto. Il punto non è gettare a mare tutto, ma peggio ancora quel tutto è rivendicarlo per intero senza una lettura critica di limiti ed errori.
Dietro Zingaretti si intravede la figura di un possibile nuovo candidato premier: quello vecchio, Gentiloni. Per non parlare dell’attivismo di Calenda. Con rispetto per le persone, non sembra la riproposizione di una linea di governo che gli elettori hanno già bocciato?
Zingaretti oggi è la proposta che più si fa carico di una svolta nella guida, nella squadra, nella strategia. Solo chi vive in un mondo a parte può pensare che dalle promesse fallite del governo derivi un recupero di consenso per noi. C’è da ripensare la proposta che rivolgiamo al paese.
Al congresso dei circoli ha partecipato la metà degli iscritti, dando per buoni i dati che circolano. Che succede se anche le primarie diventano un flop?
Portare decine di migliaia di iscritti a discutere è ossigeno per la democrazia. Poi, certo, vedo fenomeni di degenerazione. Ecco, amo tanto il pluralismo da detestare congressi che finiscono novantotto a zero. Non li vince il capobastone locale, li perde il partito. Anche per questo Nicola fa bene a condurre la sua campagna guardando fuori. Serve l’apertura di un enorme cantiere. Non a caso nel documento di SinistraDem a suo sostegno abbiamo parlato di un patto per l’alternativa e di una costituente popolare. Implicano di allargare il perimetro, costruire alleanze nella società, recuperare voti emigrati altrove. Ci si può riuscire ma servono umiltà e un’altra concezione del confronto.
E invece nel suo partito la sola idea di ‘riaprire il dialogo a sinistra’, espressa da D’Alema, ha scatenato l’ira di Dio.
Ho letto l’intervista, mi è sembrata di puro buon senso. L’ho trovata anche rispettosa verso un partito di cui riconosce il ruolo ma che oggi non è più il suo.
Giachetti dice che se Zingaretti riapre alla sinistra se ne va. A occhio invece Zingaretti sembra rischiare più dal versante del continuismo con il Pd precedente. Non è che alla fine cambiate segretario per non cambiare niente?
È la cosa che non possiamo fare. Dopo le sconfitte la sinistra si è sempre rialzata mettendo in campo una discontinuità. Fu così con l’Ulivo di Prodi dopo la prima vittoria di Berlusconi. È stato così col Pd. Dopo le due sconfitte, al referendum del 4 dicembre e il 4 marzo di un anno fa, scegliere la continuità è il modo per consegnare l’Italia alla destra peggiore per i prossimi anni.

Repubblica 1.2.19
Pd, la marcia immobile
di Roberto Esposito

Chi sperava che il Pd intendesse voltare pagina è costretto a ricredersi. Se l’intenzione era quella di riunire un partito intorno a un segretario forte di un ampio consenso, il risultato della conta degli iscritti alle primarie va in tutt’altra direzione. Nonostante i differenti dati forniti dai candidati, la somma dei voti di Martina e di Giachetti è assai vicina ai voti di Zingaretti. Forse non al punto di impedirne la vittoria. Ma certo di renderla più incerta e precaria. Dal momento che sia Martina che Giachetti, in misura diversa, sono vicini a Renzi, i risultati precongressuali non fanno che certificare la stessa spaccatura che si voleva superare. Qualsiasi sia l’esito finale delle votazioni, la frattura interna che fino adesso ha immobilizzato il Pd in una interminabile schermaglia interna rischia di proseguire anche dopo il congresso, creando le peggiori condizioni per il confronto elettorale di maggio. Chi può assicurare che la metà uscita sconfitta non frapponga ostacoli di varia natura a quella che ha vinto? O che addirittura, alla viglia del voto, non esca dal partito senza nessuna strategia comune?
Ma ciò che rende ancora più desolante la situazione è la distribuzione troppo disuguale del voto per non creare sospetti. Sono soprattutto due le regioni che, sullo sprint finale, hanno ridimensionato il risultato di Zingaretti, rilanciando la candidatura di Martina. La Sicilia e soprattutto la Campania. Questa, dopo gli infiniti scandali delle primarie precedenti, dopo accuse di spartizioni e brogli, continua a essere il buco nero in cui affondano le speranze di rinnovamento del partito. Già ridotto ai minimi termini alle ultime elezioni, esso appare nelle mani del governatore De Luca e della sua parte politica. Pur senza avere mai dichiarato il proprio appoggio a uno dei candidati, il suo " partito personale" ha portato Martina a sopravanzare Zingaretti in tutta la Campania e a stravincere con percentuali bulgare nelle province di Salerno e Benevento. Il tutto in uno scenario locale in cui si torna a parlare di smarrimenti di verbali, di schede votate prima di essere aperte, misteriosamente moltiplicate rispetto al numero dei votanti previsti.
Anche a prescindere da una valutazione politica dei tre candidati, la conduzione di questa vicenda non lascia dubbi sul suo esito. Ancora una volta, come si dice, il morto afferra il vivo e il passato preclude il futuro. I padroni delle tessere, e dei voti, che controllano manu militari le proprie zone d’influenza finiranno per bloccare qualsiasi rilancio del partito. Con l’ovvia ricaduta sul piano elettorale. E ciò proprio quando le prime crepe nel fronte gialloverde autorizzerebbero a ipotizzare una possibile inversione del trend. A questo punto non restano che due soluzioni, apparentemente opposte. Ma entrambe volte a contenere la deriva del Pd. O quella di sfumare i suoi contorni in un contenitore che porti un nome diverso — l’ipotesi promossa da Calenda. O, forse meglio, quella di correre alle elezioni europee con due liste diverse ma non avverse, tali da potersi successivamente alleare. Una, centrista, di tipo liberal- repubblicano e una spostata a sinistra, capace di aggregare consensi più radicali. Non è facile che queste due aree possano comporsi in una stessa proposta politica. Del resto in una votazione di tipo proporzionale non è detto che differenziare le forze, piuttosto che comprimerle in una impossibile unità, non possa risultare vantaggioso. D’altra parte anche il fronte populista si presenterà articolato in due blocchi diversi, senza che ciò debba necessariamente danneggiarli.

Corriere 1.2.19
A Firenze
L’imprenditore molto vicino a Matteo Renzi
Carrai diventa console d’Israele
di Claudio Bozza


Israele istituisce un consolato a Firenze e ne affida la guida a Marco Carrai. Il manager, assai vicino a Matteo Renzi negli anni del potere, riceverà l’incarico di console onorario. Il via libera del ministero degli Esteri israeliano sarebbe già arrivato. Manca ancora l’ufficialità e la bocca di Carrai è cucita. La notizia gira da giorni negli ambienti politici fiorentini destando curiosità: oggi, in riva all’Arno, non esiste infatti un ufficio consolare dello Stato ebraico. «Sono molto legato a Israele e mi riconosco nella sua storia e identità. È un luogo sempre sull’orlo di una guerra, dove però si riesce a creare innovazione come solo in California. Le mie società trovano lì larga parte del loro sapere», disse Carrai al Fatto Quotidiano sui suoi affari nella cybersicurezza. Carrai vanta rapporti diretti con il premier Benjamin Netanyahu, accolto all’aeroporto di Firenze nella visita ufficiale del 2015. E da presidente di Toscana Aeroporti (impegnato in un duro braccio di ferro con il governo per il potenziamento dello scalo), ha istituito anche un nuovo volo diretto da Firenze a Tel Aviv.

Corriere 1.2.19
Brexit, occorre umiltà da entrambe le parti per evitare la trappola
di Danilo Taino


C’è una posizione politica, in Europa, che ritiene positiva una rottura netta con il Regno Unito, un no-deal sulla Brexit. Ed è legittimo, anche se discutibile, pensare che la Ue sarebbe più forte senza alcun vincolo con Londra. La gran parte dei governi europei, però, sostiene di non pensarla così, di non volere una rottura totale. Ciò nonostante, si ha l’impressione di essere ogni giorno più vicini proprio a quel risultato senza che quasi nessuno muova un dito per evitarlo. Da sonnambuli. Cosa succederà nelle prossime settimane? Se non si riaprirà un dialogo tra il governo britannico e gli altri 27, il Regno Unito probabilmente abbandonerà l’Unione senza alcun accordo. A quel punto sarebbe l’unica, vera soluzione possibile per uscire dal caos politico di Westminster, di Downing Street e del Paese: ricostruire dalle basi la collocazione internazionale britannica. L’Europa, invece, attribuirebbe le responsabilità del fallito accordo a Londra — non senza qualche ragione — ma allo stesso tempo confermerebbe l’immagine di una Ue punitiva, più interessata a mostrarsi inflessibile con chi sceglie di abbandonarla che pragmatica nel cercare la soluzione più favorevole a tutti. La chiusura di Bruxelles di queste ore nei confronti non solo della debole Theresa May ma anche del Parlamento britannico sarebbe registrata come un ulteriore ripiegamento su se stessa di un’Unione introversa, che rifiuta di fare i conti con il mutare del mondo. Con conseguenze di lungo periodo, economiche ma soprattutto politiche: cattivo sangue tra le due sponde della Manica e rancori certi nella Ue stessa. Proposte di soluzione creative ci sono: occorrerebbe l’umiltà di Londra e delle cancellerie europee di considerarle.

Corriere 1.2.19
«Olof Palme fu ucciso su ordine di Pretoria»
I giallisti svedesi fanno riaprire l’inchiesta
Dagli appunti di Stieg Larsson il collega Stocklassa ha ricostruito il mistero dell’assassinio del premier
di Stefano Montefiori


PARIGI «È la prima volta nella storia, io credo, che un capo di governo viene assassinato senza che si abbia la minima idea dell’identità del suo assassino», scriveva nel marzo 1986 Stieg Larsson, tre settimane dopo l’assassinio per strada a Stoccolma del primo ministro Olof Palme, che dopo il cinema stava tornando a casa con la moglie, come sempre senza scorta.
All’epoca Larsson lavorava ancora come infografico all’agenzia di stampa Tidningarnas telegrambyrå ma la sua ossessione era già la lotta contro l’estrema destra. Conduceva ricerche minuziose e aveva contatti con la rivista antifascista britannica Searchlight, modello del mensile Expo che Larsson avrebbe fondato nove anni dopo e che gli avrebbe ispirato la saga di Millennium.
Sull’assassinio di Olof Palme, Larsson scrisse sette pagine, una specie di memorandum spedito al caporedattore di Searchlight che è diventato, oltre trent’anni dopo, un nuovo punto di partenza.
Il diplomatico e giornalista svedese Jan Stocklassa, ritornato in patria dopo lunghe missioni all’estero, ha deciso di riprendere dove Larsson aveva lasciato e ha pubblicato il libro «La folle inchiesta di Stieg Larsson», che esce in questi giorni in Francia. Stocklassa è riuscito a convincere Daniel Poohl, nuovo caporedattore di Expo, a fargli consultare l’archivio personale di Larsson, per indagare ancora sulla «pista sudafricana».
Il creatore di Mikael Blomkvist e Lisbeth Salander morì di infarto a cinquant’anni, il 9 novembre 2004, salendo le scale della sua rivista, poco prima che la trilogia di Millennium Uomini che odiano le donne, La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta venisse pubblicata (in Italia da Marsilio) e venduta in 88 milioni di copie in tutto il mondo.
Larsson ha lasciato un’opera tradotta in cinquanta Paesi (poi prolungata con altri due volumi dallo scrittore svedese David Lagercrantz), e un archivio di venti scatoloni dimenticati in un deposito alla periferia di Stoccolma. È lì che Stocklassa ha trovato una grande massa di appunti su Olof Palme e un omicidio rimasto senza autore. Ci sono i fogli con la ricostruzione della possibile via di fuga dell’assassino, gli schemi con i gruppi che potrebbero avere organizzato l’attentato.
Larsson non crede alla pista del Pkk, i curdi secondo lui non c’entrano niente. Torna a indagare sugli ambienti dell’estrema destra neonazista svedese e sui loro contatti con il regime sudafricano, guidato allora dal premier Pieter Botha, che cercava disperatamente di difendere l’apartheid. Olof Palme era nemico dichiarato del Sudafrica razzista, e aveva lanciato una campagna per denunciare i fabbricanti di armi che facevano affari con Pretoria. Questo sarebbe stato il movente dell’assassinio.
Il libro di Stocklassa si basa su una trentina di pagine che sono la trascrizione degli appunti originali di Larsson, sul racconto della sua inchiesta, e sulle novità scoperte dallo stesso diplomatico.
Il fantasma di Olof Palme attraversa tutto Millennium, dal primo volume nel quale una donna dichiara in conferenza stampa «Io so chi ha ucciso Olof Palme ma non posso dirne il nome, troppo pericoloso» alla tesi, esposta nel terzo volume, del coinvolgimento di una frangia deviata dei servizi segreti svedesi, convinti che Palme fosse un agente al servizio del Kgb.
Appassionato di letteratura poliziesca, Stieg Larsson era affascinato dal mistero su Olof Palme. «È una storia che avanza al ritmo sfrenato di un romanzo di Robert Ludlum. Altre volte assomiglia più a un crimine di Agatha Christie, per trasformarsi poi in giallo di Ed McBain condito di commedia alla Donald Westlake», si legge nell’anticipazione su Le Monde.
La fissazione di Larsson ha contagiato Stocklassa, che ha proseguito le ricerche arrivando a identificare il possibile autore materiale dell’omicidio in un simpatizzante dell’estrema destra, Jacob Thedelin, che avrebbe agito dietro mandanti sudafricani. Ma pochi giorni prima della pubblicazione del libro in Svezia, la giustizia è intervenuta per esigere la soppressione delle informazioni e della fotografia di Thedelin, secondo quanto ha raccontato lo stesso Stocklassa a Le Point, mostrando l’immagine in bianco e nero censurata. Grazie a Larsson e a Stocklassa, l’inchiesta è stata riaperta.

La Stampa 1.2.19
“Il progresso passa attraverso la capacità di ribellarsi”
di L. L.


Cita l’«Economist», fa riferimento alla Silicon Valley e a un sogno americano che inizia a vacillare; parla dei robot come amici dell’uomo. Ma il tema che più fa infervorare Paolo Dario, direttore dell’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, è il lato individuale dell’innovatore. E’ qui che il ricercatore, ieri al convegno «Le sfide dell’innovazione», rivela la sua identità di «pasionario» della tecnologia: lui è noto, infatti, come uno dei massimi esperti mondiali di creature artificiali e del loro impatto sulla vita quotidiana di milioni di esseri umani .
Professore, quali sono le caratteristiche personali che riescono a far emergere comportamenti davvero innovativi?
«L’innovatore è un ribelle, non soddisfatto dello status quo. Pensa che una determinata azione si possa fare meglio. Nella scienza e nella tecnologia c’è chi si muove a passi lenti e chi non conosce mezze misure. Pensiamo ai telefoni cellulari: dopo i primi, è arrivato Steve Jobs con la linea rivoluzionaria degli iPhone, che poi è cresciuta con i vari modelli intermedi di smartphone».
In quale modo la società può aiutare uno scienziato a innovare?
«Un Paese deve dare l’opportunità a una persona di inseguire sia l’innovazione radicale sia quella incrementale. Certo, se vivi in un secolo buio, o diventi un eroe come Gesù Cristo o emigri nella Silicon Valley oppure in Cina, dove nascono i nuovi grandi attori dell’Intelligenza Artificiale e del web».
L’Italia, secondo lei, è in grado di dare una chance concreta agli innovatori?
«A differenza di Germania, Stati Uniti, Svizzera e Giappone, dove ti dicono che cosa devi fare per sviluppare una certa tecnologia e ti danno le risorse, l’Italia ti dà la libertà, ma non i mezzi. Ci sono eccezioni: moda, cucina, robotica. Nel manifatturiero e nelle automazioni siamo leader mondiali. Nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, invece, l’Europa non può competere con Usa e Cina».
Perché questo ritardo così grave?
«Se viene un giovane in Italia che ha l’idea di creare Facebook, i soldi non glieli danno. Per cambiare le cose bisognerebbe mantenere il nostro Welfare State e, nel contempo, produrre ricchezza senza diventare una giungla. Adesso la gente sta scappando dalla Silicon Valley per i costi alti delle case e per la qualità della vita non più al top».
Le macchine come possono e come potranno aiutarci?
«Alla Scuola Sant’Anna facciamo robot per aiutare le persone, con applicazioni in chirurgia, riabilitazione, assistenza per anziani, nuove protesi e stiamo anche lavorando sull’industria circolare per riciclare rifiuti».
Che cosa dobbiamo aspettarci dal futuro?
«Prevedere il futuro è difficile, ma è importante costruirlo attraverso “cattedrali”, cioè luoghi per tutti. Ci vogliono tempo, sforzi e soldi. Non è un sogno: una società dovrebbe investire nel futuro. Senza mai abdicare all’educazione».

La Stampa 1.2.19
“Nessuna ingerenza in Venezuela”
L’Italia non riconosce Juan Guaidó
Botta e risposta fra i sottosegretari agli Esteri. Il grillino Di Stefano: sono questioni interne Il collega leghista Picchi: Maduro è finito. M5S e Lega, con il Pd, si astengono a Bruxelles
di Maria Rosa Tomasello


«L’Italia non riconosce Juan Guaidó». Nel giorno in cui l’Europarlamento chiede a larghissima maggioranza alla Ue di sostenere il presidente del parlamento venezuelano che si è autoproclamato capo dell’esecutivo contro Nicolas Maduro, il sottosegretario pentastellato agli Esteri Manlio Di Stefano conferma la posizione equidistante di Roma: «É un atto politico che rischia di far precipitare la crisi. Siamo totalmente contrari al fatto che un Paese o un insieme di Paesi possa determinare le politiche interne di un altro Paese: si chiama principio di non ingerenza». Le tensioni nel governo confermano tuttavia che la posizione è frutto di un equilibrio instabile. «Assurde e fuori dalla realtà le dichiarazioni di certi esponenti Cinque stelle, anche di governo - attacca il sottosegretario leghista agli Esteri Guglielmo Picchi, dichiarando “finita” la presidenza Maduro -. La Lega è di tutt’altra opinione e soffre le posizioni ideologiche. La linea del governo è quella espressa da Moavero in Parlamento». L’Italia - aveva affermato in aula il ministero degli Esteri - si riconosce «pienamente» nella posizione Ue e punta a «elezioni libere».
Ma nonostante i distinguo e l’insofferenza di Matteo Salvini per il «regime di fame» di Nicolas Maduro, quattro giorni dopo il duro botta e risposta tra il ministro dell’Interno e il battitore libero del M5S Alessandro Di Battista sulla crisi, a Strasburgo a maggioranza si ricompatta. Lega e Cinque Stelle si astengono sulla risoluzione che chiede alla Ue di riconoscere Guaidó «come unico e legittimo presidente ad interim» fino a nuove elezioni. «Il riconoscimento è una prerogativa degli Stati membri» e non della Ue, precisa l’Alto rappresentante Federica Mogherini.
«Moavero sconfessato di nuovo» osserva Annamaria Bernini, capogruppo di Forza italia al Senato parlando di «inaccettabile comportamento pilatesco». Gli eurodeputati leghisti difendono la propria scelta: «Un voto positivo vorrebbe dire anche aumentare le difficoltà socio-economiche alle quali andrebbero incontro i nostri connazionali, e i molti europei, presenti in Venezuela fino alle prossime elezioni».
L’indicazione dei parlamentari europei è però netta: il testo passa con 439 voti a favore, 104 contrari e 88 astenuti. Tra questi ultimi ci sono cinque deputati del Pd, Goffredo Bettini, Brando Benifei, Cécile Kyenge, Andrea Cozzolino ed Elena Gentile, che con la loro scelta mettono in subbuglio il partito, alle prese con un difficile congresso. Simona Malpezzi, portavoce della mozione di Maurizio Martina, interroga Nicola Zingaretti: «Che ne pensa, visto che tra gli europarlamentari astenuti c’erano alcuni suoi sostenitori?». Replica Bettini: «Tutti siamo contro Maduro. Con l’astensione abbiamo voluto marcare una distanza rispetto a un riconoscimento unilaterale di Guaidó che potrebbe accelerare una guerra civile devastante».

il manifesto 1.2.19
Un’autobiografia comunista. Senza perdere il sorriso
Scaffale. «Rosso è il cammino» di Pino Santarelli per Bordeaux edizioni. «Ci sentivamo cittadini del mondo». La memoria di una stagione ribelle, quando dalle borgate di Roma si guardava al Vietnam, che per il protagonista non si è mai conclusa
di Luciana Castellina


Ci sono autobiografie e autobiografie, quelle che raccontano solo di sé stessi e quelle che raccontano di sé stessi in rapporto agli umani che hanno incontrato, con cui hanno operato, hanno fatto amicizia, si sono combattuti e hanno combattuto: che, insomma, ci danno conto di uno spaccato sociale dentro un tempo storico che così prende vita e ci fa capire quanto i libri di storia spesso non riescono a fare. Quelle autobiografie, insomma, che – come scrive Sandro Portelli nell’introduzione – «non sono atti di narcisismo».
Il libro di Pino Santarelli – Rosso è il cammino (Bordeaux edizioni, pp. 284, euro 18) – appartiene alla seconda specie. Attraverso le vicende della sua vita ci restituisce, con la naturalezza di una chiacchiera, la storia straordinaria e, aimè, perduta, della Roma comunista: del Pci ma anche del ’68, del Manifesto e del Pdup, fra gli anni ’50 e gli ‘80.
DICO STRAORDINARIA perché chi l’ha vissuta è stata una generazione che ha dato senso alla propria vita attraverso la battaglia per un mondo diverso e migliore, riuscendo a collegare la borgata romana con tutti gli altri continenti. «Ci sentivamo cittadini del mondo , di un mondo di cui – scrive Pino Santarelli – facevano parte insieme il Vietnam e la via Casilina». E proprio per questo, nonostante la durezza della povertà che ancora dominava nelle periferie proletarie di quell’epoca, i giovani erano felici.
Mi scuso in anticipo con i lettori perché questa che scrivo non è una recensione come si deve, è, piuttosto un mio personale amarcord, perché le vicende di cui parla Pino sono – se si eccettua il tempo della sua infanzia a Sgurgola Marsicana e nonostante io abbia dieci anni più di lui e abitassi in un quartiere borghese e non alla borgata Alessandrina – le stesse che ho vissuto io. Direte che le differenze che ho elencato non sono di poco conto, ed è vero. Ma non quanto potreste credere perché Pino parla a lungo della Fgci, e io nell’organizzazione della gioventù comunista sono stata, dal ’47, prima in quella romana e poi in quella nazionale, quasi 15 anni.
E, allora, il nostro mondo erano quasi esclusivamente le borgate, gli studenti rappresentando fra gli iscritti, e a lungo, neppure il 2%. Le borgate dove, lo ricordo bene, proprio come racconta Pino, nei circoli così come nelle sezioni adulte, prima di occuparsi della fontanella all’angolo che non funzionava e bisognava lottare perché il Comune la riparasse, si cominciava prendendo in esame quanto accadeva nel mondo, poi in Europa, poi in Italia, quindi a Roma e, infine, all’angolo della propria strada. Perché era per questo che ci si sentiva forti e non dei poveracci: quella vertenza sulla fontanella diventata un pezzo di un grande movimento di lotta internazionale di cui noi eravamo protagonisti.
LEGGENDO IL LIBRO mi sono emozionata perché, passo passo, Pino ricorda eventi che abbiamo vissuto assieme: la federazione romana del Pci, i suoi dirigenti di allora, da Natoli fino al leggendario Gigetto, gobbo e spiritosissimo, a lungo telefonista, prima a Sant’Andrea della Valle e poi a via dei Frentani; il Mandrione, un pezzo di borgata malfamato e la vicina Torpignattara, presidiata dal circolo Fgci modello, solo lì erano iscritte 500 ragazze; la grande manifestazione degli edili, la prima protesta sindacale di una crescente massa di lavoratori che il «sacco urbanistico della capitale» reclutava, in quei primi anni ’60, nelle campagne della Ciociaria e che ogni giorno arrivavano all’alba in città per andare a lavorare nei cantieri che stavano sorgendo come funghi, senza protezione alcuna.
Fu una manifestazione storica, quella che ricorda Pino, perché gli edili ammassati a Piazza S.S.Apostoli, furono improvvisamente attaccati dalla polizia a cavallo. Sia io che Pino (con noi, incinta, anche Paola Scarnati, oggi direttrice dell’Archivio audiovisivo del movimento operaio), finimmo fianco a fianco, fermati con altri 500 nella caserma di Castro Pretorio (e io, insieme ad altri 30 edili, mi feci due mesi di prigione ). Trent’anni dopo, quando i documenti degli archivi della Cia furono declassificati, si scoprì che si era trattato di una provocazione ordita dalla Gladio, organismo creato dai servizi segreti nostri e americani.
Ma poi c’è anche la rivolta giovanile, quella contro il governo Tambroni, che fu chiamata delle «magliette a righe», così chiamate per indicare un abbigliamento che i vecchi comunisti, diffidenti, giudicavano «americano»; e dovettero ricredersi perché è dai più giovani che quel famigerato capo d’abbigliamento indossavano che partì la storica e sanguinosa insorgenza.
Poi vengono i primi dissensi col nostro grande partito, le emozioni vissute, di nuovo assieme, quando gli applausi all’intervento polemico di Ingrao sommersero i delegati dell’XI congresso, nel 1966. E, come sapete, finì con la nostra radiazione e il Manifesto e quindi il Pdup, le deludenti ma anche bellissime esperienze in cui ci ritrovammo a Roma in tanti, dove intere sezioni avevano scelto la nostra strada.
LA VITA DI PINO SANTARELLI è la storia di un giovane comunista del dopoguerra rimasto sempre coerentemente comunista. Ma nel libro Pino ci racconta anche di tante altre cose, fra queste le sue innumerevoli professioni, fra cui l’apprendista elettricista, il fruttivendolo, il meccanico, lo specialista di macchinari sanitari delicatissimi al Policnico (e qui compare lo storico collettivo di medicina de Il Manifesto, il più forte nucleo di facoltà del ’68). E però anche, e non per poco tempo, barista in un paio dei più noti night club di Roma. È un’aggiunta importante: dimostra, per un verso, la «normalità» dei comunisti, ragazzi come tanti altri, non una noiosa ristretta avanguardia; e però, insieme, anche la loro eccezionalità: impegnarsi a fondo nella politica (questa attività oggi così insultata) e però non perdere il gusto per i vantaggi offerti dalla dolce vita romana degli anni ’60.
P.S. Oggi, sia io che Pino, ci troviamo (o ritroviamo) nella sezione del II municipio di Roma di Sinistra Italiana. I comunisti, come sapete, sono cocciuti.

Corriere 1.2.19
Memoria
La lezione dei maestri antifascisti
Le storie di dodici insegnanti che si opposero alla dittatura nel libro di Massimo Castoldi
Lo studioso porta alla luce per Donzelli esempi eroici di educatori perseguitati e uccisi dal regime di Mussolini
Quanto pesano la dignità, il coraggio di un maestro per far sì che i bambini a lui affidati crescano nel rispetto delle regole dei rapporti umani cancellati dal fascismo
di Corrado Stajano


Com’è importante la figura del maestro in una società civile. Sotto una dittatura, poi, quanto pesano la sua dignità, il suo coraggio per far sì che i bambini a lui affidati crescano nel rispetto delle regole dei rapporti umani cancellate dal regime, qualsiasi regime. È uscito da Donzelli un libro di Massimo Castoldi, professore di Filologia italiana all’Università di Pavia, studioso della memorialistica della Resistenza: Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti . Un libro amaro, doloroso, commovente, utile a far capire perché quel passato deve davvero passare per sempre, soprattutto oggi che il fascismo sembra venga guardato con indulgenza. (Sere fa, durante il programma di Lilli Gruber, Luciano Canfora spiegò con limpidezza a un giornalista di idee nerastre, ignorante anche nel linguaggio, che cosa significa la parola fascistoide, purtroppo tornata nel clima di una certa politica del nostro tempo).
Nei primi vent’anni del Novecento, scrive Massimo Castoldi, il maestro elementare aveva acquistato una centralità nella vita socioculturale del Paese: era impegnato nella lotta contro l’analfabetismo, per un’istruzione sempre più diffusa, per cercar di sanare i mali dell’epoca, le malattie, la fame, la precarietà delle condizioni igienico-sanitarie. Compito del maestro non era soltanto quello di insegnare a leggere e a scrivere, ma anche a vivere meglio, a creare una comunità in cui gli uomini e le donne fossero rispettosi di se stessi e degli altri.
Sono gli anni delle leghe contadine, delle Società di mutuo soccorso, delle università popolari, dei circoli operai, delle cooperative, delle Camere del lavoro, delle casse rurali, del socialismo umanitario nascente.
Poi il fascismo che frantumò ogni idea di libertà: «I bimbi d’Italia si chiaman balilla». Piccoli soldati in uniforme, con moschettini modello ’38, forse fieri del loro dissennato giuramento d’obbligo: «Giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista». Poveri bambini ignari. Coi maestri in orbace e il pugnaletto alla cintura.
Ma c’erano anche gli altri, i disubbidienti della libertà che spesso rischiavano il posto e anche la vita, come Carlo Cammeo, trucidato nel 1921 a Pisa sulla soglia della sua classe, come Salvatore Principato, fucilato dai fascisti della «Muti» in piazzale Loreto a Milano, per ordine dei tedeschi, nel 1944. Il libro non vuole fare un elenco di chi si oppose, vittima della dittatura fascista. È la storia di dodici maestri e maestre che seppero far fronte, ma è anche l’analisi di una società minuta e spesso sconosciuta.
Sono vicende tristi, quelle raccontate da Massimo Castoldi. Come la vita di Alda Costa, la maestra di cui scrisse Giorgio Bassani nelle Cinque storie ferraresi: la Costa è la Clelia Trotti del racconto, socialista riformista, appassionata alla condizione sociale dei bambini, contro la guerra, vittima delle persecuzioni dei fascisti che la insultavano sui loro giornali e a Bologna, nel 1922, l’aggredirono in trecento, le strapparono le vesti, le sputarono addosso, la costrinsero a bere l’olio di ricino perché si era rifiutata di inneggiare al fascismo. Fu denunziata, non rispettava l’obbligo del saluto romano e seguitava a rivendicare la sua fede socialista. Sospesa, licenziata, inviata al confino alle isole Tremiti per cinque anni, arrestata di nuovo quando il federale fascista Ghisellini fu giustiziato a Ferrara: la vicenda è narrata nel film La lunga notte del ’43.
Popolano il libro nomi di uomini e di donne che non sono passati alla storia, ma che spiegano nel profondo che cosa fu il fascismo. Anselmo Cessi, un maestro cattolico che infastidiva i fascisti per la sua appassionata azione sociale nel Mantovano, fu ucciso nel 1926 mentre passeggiava con la moglie a Castel Goffredo; Mariangela Maccioni, una maestra antifascista sarda — 90 alunni — angariata perché si era rifiutata di fare una lezione sul Duce, sospesa più volte dall’insegnamento. Alla sua morte scrisse sul «Ponte» Salvatore Cambosu: «C’era in lei la forza e la gentilezza antica dell’ulivo».
E poi Abigaille Zanetta, socialista, antimilitarista, comunista, espulsa dalla scuola dal podestà di Milano Ernesto Belloni, «per non sufficiente adattamento alle direttive politiche del governo», arrestata, incarcerata, cercò di sopravvivere con qualche lezione privata. Non ebbe neppure la gioia della Liberazione. Morì un mese prima.
Con il medesimo destino di perseguitati coraggiosi, tra gli altri, Fabio Maffi, Carlo Fontana, Aurelio Castoldi, Giuseppe Latronico, Anna Botto, la maestra di Vigevano che portò l’intera scolaresca alla messa funebre per il partigiano Carlo Alberto Crespi e finì poi a Ravensbrück nel forno crematorio, Salvatore Principato, già ricordato, uno dei quindici martiri di piazzale Loreto, intellettuale attivo nel lavoro culturale, partigiano socialista, dentro e fuori di prigione. Il suo nome resta, per sempre, nelle poesie di Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Franco Loi.
Quanto contano le parole nel far rivivere la memoria smarrita della libertà e della giustizia. Le pagine di questo libro lo documentano.

La Stampa 1.2.19
Il popolo della seta
La Cina attore globale al tempo dei romani
La storica Emilia Michelazzi racconta in un libro il boom della potenza commerciale cinese dopo l’incontro con Roma
di Giorgio Ieranò


La Cina è vicina. Anzi, era vicina già duemila anni fa. Quando, al tempo dei greci e dei romani, uomini e cose viaggiavano dal Mar Giallo al Mar Mediterraneo lungo la Via della Seta. Il nome Via della Seta è recente: fu inventato nel 1877 da Ferdinand von Richthofen, geografo avventuroso e profondo conoscitore della Cina, nonché zio di Manfred (il celebre Barone Rosso, asso dell’aviazione della prima guerra mondiale). Le antiche vie commerciali, in realtà, erano più di una: una serie di percorsi carovanieri che attraversavano l’Asia centrale, ai quali si aggiungeva una rotta marina che doppiava l’isola di Ceylon, la favolosa Taprobane degli antichi.
Secondo i testi cinesi, ad aprire la strada dell’Ovest sarebbe stato. nel 138 a. C., Zhang Qian, un funzionario di corte della dinastia Han. Ma già da tempo, sull’onda delle conquiste di Alessandro, i greci si erano spinti nel cuore profondo dell’Asia. L’Alessandria più remota (chiamata appunto Eschate, «L’estrema»), fondata nel 329 a. C. sul sito dell’odierna Xuçand in Tagikistan, è molto più vicina a Pechino che a Roma. E quando Zhang Qian, il pioniere della Via della Seta, varca i confini dell’impero cinese, nella Battriana, oggi Afghanistan del Nord, regnava il greco Menandro, trasformato poi dalla tradizione in un saggio buddista. Zhang Qian era un Marco Polo alla rovescia: il suo viaggio, di cui abbiamo un dettagliato resoconto, durò tredici anni, tra assalti di predoni e attraversamenti del deserto. Dalla Cina erano partiti in novantanove, ma Zhang Qian e il suo servo furono gli unici a tornare. C’è comunque motivo di sospettare che i rapporti dei greci con la Cina fossero ancora più antichi della spedizione di Zhang Qian. Qualche studioso sostiene che persino i guerrieri del celebre esercito di terracotta (210 a. C.) si ispirino alla scultura greca.
E’ però con l’impero romano che i rapporti tra la Cina e le civiltà del Mediterraneo diventano più intensi. A Roma fioriscono le narrazioni sul favoloso «popolo della seta», i Seres, che abitano ai confini del mondo. Come racconta ora un interessante libro di Emilia Michelazzi, intitolato appunto Roma e il misterioso popolo della seta (Edizioni Patron, pp.123, € 13). La prima volta che i romani avevano visto la seta cinese era stata forse nel I secolo a. C.: sventolava negli stendardi da battaglia dei guerrieri partici, i loro più formidabili nemici sulla frontiera orientale. Ma preso la seta orientale si diffonde anche nell’Urbe, diventando il simbolo per eccellenza dello sfarzo e della lussuria: non a caso, come ricorda Michelazzi, si sottolineava che il dissoluto Eliogabalo era sempre vestito di seta pura, mentre l’austero Aureliano la rifiutava. La bachicoltura era ignota nel Mediterraneo. Per cui i romani avevano idee vaghe, e in genere sbagliate, su come si produceva la seta. Ma erano pieni di ammirazione per quegli strani uomini capaci di creare una fibra così preziosa. Nelle fonti romane, i Seres sono dipinti come un popolo mite, onesto e giusto. In Cina, si narra, non esistono ladri, assassini o prostitute. Questo mito dei cinesi pacifici e saggi resisterà fino a Marco Polo, che li descriverà non solo come abili «mercatanti» ma anche come «naturali e savi fisolafi [filosofi]».
Molto prima di Marco Polo, all’inizio dell’era cristiana, in Cina era arrivato già Maes Titianos, un viaggiatore di cui ci parla il geografo Tolomeo. L’emissario di Roma aveva raggiunto la «Sera Metropolis», la Città della Seta, che doveva essere Chang’an, capitale dell’impero Han. I contatti diretti si fanno sempre più fitti. Nell’autunno del 166 d. C., gli annali di corte cinesi registrano la visita degli ambasciatori di un impero remoto, chiamato Da Qin, dove regna un potente sovrano di nome An Tun (forse Marco Aurelio, che portava anche il titolo di Antonino). Ma i primi ambasciatori di Roma in Cina furono forse, loro malgrado, i superstiti delle legioni di Crasso, sconfitte nel 53 a. C. dai Parti nella battaglia di Carre, sul fiume Eufrate.
Secondo Plinio il Vecchio, i legionari prigionieri furono deportati in Margiana, odierno Turkmenistan orientale. Alcuni anni più tardi, nel 36 a. C., assediando la città di Zhizhi (oggi in Kazakistan), il generale cinese Chen Tang si trova di fronte a formidabili nemici che combattono in una schiera compatta: «Un centinaio di fanti si schierarono in una formazione a scaglia di pesce e iniziarono a manovrare», si legge nei resoconti cinesi. Erano i legionari di Crasso, organizzati a testuggine, secondo la tattica romana? Così sostengono alcuni studiosi ma è difficile dirlo con certezza. Comunque, a chi oggi viaggia nella contea dello Yongchang, può capitare di imbattersi in cinesi vestiti da legionari: sono gli abitanti del luogo che, ogni tanto, sfilano in parata per rendere omaggio ai loro antenati romani.

La Stampa 1.2.19
I cinesi pronti al Capodanno
“Parte l’anno del maiale”


La comunità cinese di tutto il mondo si prepara al Capodanno, che sarà il 5 febbraio, ma i festeggiamenti durano una settimana. La Festa di Primavera o capodanno lunare, è paragonabile al Natale nei Paesi occidentali. È il momento dell’anno in cui tutti gli «ex pat» tornano a cassa, le famiglie si riuniscono per il tradizionale cenone, fanno offerte per le divinità e per gli antenati. La festa non ha una data fissa perché segue il calendario lunare: il 2019 è l’anno del Maiale. Qui, i preparativi nello Yu Yuan Garden di Shanghai.

Repubblica 1.2.19
Milioni in viaggio, comincia l’anno del Maiale
Stress e bugie, lussi e finti fidanzati l’odiato Capodanno dei giovani cinesi
La grande festa riun
isce le famiglie ma per i ragazzi migrati in città pesano aspettative e pregiudizi
di Filippo Santelli,

PECHINO Neanche è cominciata, ma Yao non vede l’ora che la festa finisca.
«Quest’anno avevo deciso di non tornare», dice affondata nel piumino bianco bianco davanti alla stazione di Pechino, tra il gelo e la bolgia. «Poi mia mamma mi ha chiamato, ha detto che sta preparando da mangiare, che i nonni sono vecchi». E così eccola qui con il biglietto per lo Hebei in mano, un puntino in mezzo alla più grande migrazione di massa del pianeta. Il capodanno lunare è martedì, ma il flusso di passeggeri che con valigie di ogni materiale e dimensione corrono ai treni che li riporteranno a casa è già una piena. Zhao, 29 anni, business developer, single, la affronta con l’umore di chi parte per il fronte.
Sa cosa rischia, la chiama "riunione di punizione": «Un pranzo con tutta la famiglia, nonni, genitori e zii, in cui l’unico scopo sarà convincermi a trovare un fidanzato, perché se non mi sposo non sarò felice». Dopo i 27 in Cina ti classificano con poco garbo sheng nu, donna avanzo. E per dei 50enni dello Hebei rurale come i suoi genitori non c’è disgrazia peggiore.
Vaglielo a spiegare che le cose sono cambiate, la carriera, ci si sposa più tardi e solo con quello giusto (o quella giusta). I treni che in questi giorni portano milioni di giovani dalle metropoli in cui studiano o lavorano verso le periferie dell’Impero, dove sono nati, assomigliano a macchine del tempo. Tempo che in Cina è corso veloce, scavando un oceano tra le generazioni.
Otto ragazze single su dieci, tra i 26 e i 30 anni, dicono di aver subito pressioni dalle famiglie, la grande festa nazionale è il momento peggiore. E a quelle domestiche si sommano le aspettative sociali, in una nazione che non fa più figli: alcune aziende hanno iniziato a offrire alle dipendenti giorni liberi extra per uscite galanti. Se torneranno dalle ferie fidanzate, l’anno del maiale inizierà con un bonus. Da noi il peggio che a Natale possa capitare è trovarsi a tavola a fianco allo zio dell’altra parte politica, in Cina a cavallo del capodanno c’è un picco di ragazzi che si rivolgono agli ospedali in preda all’ansia.
Insieme a mettere su famiglia, l’altra idea da non deludere, questa sia per i maschi che per le femmine, è che in città si facciano soldi. «Vengo da un villaggio molto tradizionale dello Shanxi, di quelli dove dopo pranzo si fa la pennichella – racconta Xu, 24 anni, dipendente di un’azienda di e-commerce di Pechino –. I miei parenti non fanno che chiedermi quanto guadagno». Dura far capire che anche per un laureato un mega stipendio non è più assicurato, specie considerato quanto costano gli affitti. Così i siti che noleggiano oggetti di lusso, dalle borse alle automobili, registrano da qualche settimana un boom. Presentarsi a casa con il macchinone, per lui, o una borsa di Louis Vuitton, per lei, affoga ogni domanda in un "oh" di meraviglia, al ritorno dal paese si possono restituire. Altri invece, che più qualche vezzo se lo concedono davvero, preferiscono nasconderli per evitare che la vacanza si trasformi in una ramanzina contro chi scialacqua.
Il risultato è che le feste diventano una collezione di silenzi e bugie, più o meno bianche, più o meno riuscite. Nei giorni scorsi è diventato virale lo sfogo social di Shen, 25 anni, che con abile lavoro di Photoshop sulle foto di un attore aveva fatto credere ai genitori di essersi trovata un bel fidanzato. Di fronte alle lacrime di gioia del padre non ha retto, rivelando la bugia. Grande è stato lo stupore nel vedersi subito perdonata, a patto però, testuali parole, di insistere con gli appuntamenti al buio.
Intendiamoci, non per tutti il capodanno è un incubo. Anzi, tra i ragazzi che oggi prendono o cambiano treni la maggior parte non vede l’ora di tuffarsi nell’orgia di cene, regali e fuochi d’artificio che inizierà la prossima settimana. Dai grattacieli di Suzhou, Liu sta viaggiando verso l’estremo Nord, il paesino dei suoi non lontano dal confine russo: «Due mondi diversi, ma so adattarmi bene». È nella situazione ideale: a 25 anni ha un buon lavoro nel marketing e un ragazzo da qualche mese, troppo pochi per doverlo presentare a casa, abbastanza per lasciar intravvedere qualcosa di serio. Il suo sorrisone si intuisce anche sotto la maschera contro l’inquinamento. Per ora va bene anche a Mei, 22 anni, iscritta a informatica, occhiali neri e coda di cavallo: «Se mai i miei genitori dovessero mettermi pressione?
Proverei a convincerli che le scelte sono personali». Siamo tutte compagne in questa battaglia, ha scritto nei giorni scorsi una blogger di nome Piccolo cerbiatto, raccogliendo e condividendo in Rete storie di pressione e matrimoni affrettati, di infelicità, perfino di suicidi. Zhou è più scettica sulla possibilità di convincere i genitori: «Starò zitta e se mia mamma organizzerà un’altra riunione con i familiari andrà come l’anno scorso: ho fatto le valigie e sono tornata a Pechino». E fine della festa.

Repubblica 1.2.19
Arabia Saudita
Loujain, l’attivista per il diritto di guidare "frustata e torturata"
di Silvia Ellena


«La mia sorellina dice di essere stata frustata, picchiata e sottoposta a scariche elettriche».
La denuncia di Walid Alhathloul è un grido d’aiuto per la sorella Loujain, la 29enne attivista per i diritti delle donne, compreso il diritto alla guida, imprigionata da 8 mesi a Gedda in quello che lei stessa chiama il «palazzo del terrore». Da quando è stata arrestata Loujain vive segregata in un hotel della città saudita, dov’è sottoposta a «orripilanti interrogatori». In un articolo su Cnn, Walid dà nome e cognome di uno dei responsabili delle torture inflitte alla sorella: Saud al Qahtani, ex consigliere del principe Mohammed bin Salman, già coinvolto nell’assassinio del giornalista Khashoggi. Il fratello di Loujain denuncia la facciata riformista del Paese e ora chiede alla comunità internazionale di romperla del tutto: «Non possiamo stare zitti mentre mia sorella continua a soffrire» .

Corriere 1.2.19
La Rai smorza le polemiche sulla serie
«Montalbano e i migranti? Niente politica, storia scritta anni fa»
di Emilia Costantini


Roma Il commissario Montalbano deve vedersela con gli sbarchi di migranti e affronta l’emergenza con i pochi uomini di cui dispone: raccoglie un corpo senza vita in mare, una tragedia palpabile, una preghiera laica, la sua.
L’altro capo del filo e Un diario del ’43 sono i due nuovi episodi della fortunata serie tv, che compie 20 anni, tratta da romanzi e racconti di Andrea Camilleri, in prima serata su Rai1 l’11 e il 18 febbraio. Come sempre protagonista Luca Zingaretti, per la regia di Alberto Sironi. Ma stavolta spunta la polemica, per la presunta preoccupazione della Rai nel trasmettere le immagini degli sbarchi. «Giù le mani da Montalbano!», tuona Davide Faraone del Pd in Vigilanza Rai. Puntuale la smentita: «Non c’è imbarazzo per le scene sui migranti — afferma la direttrice di Rai1 Teresa De Santis —. Se così fosse non andrebbero in onda. Le polemiche politiche non ci riguardano». Aggiunge Eleonora Andreatta, direttrice di Rai Fiction che produce la serie con Palomar: «Montalbano è dentro la contemporaneità e si basa su due elementi: la pietas e la giustizia. La scena del soccorso in mare affonda le radici nella tragedia greca».
Zingaretti, chiamato in causa, sottolinea seccato: «Trovo assurdo parlare di una voce per cui la Rai sarebbe in fibrillazione. Io sono un attore, recito battute scritte su un copione. Se, invece, volete conoscere il mio punto di vista sui migranti, andate a rivedervi il monologo che feci quattro anni fa su questo tema». Gli fa eco il produttore Degli Esposti: «Noi siamo teatranti, trasponiamo i romanzi di uno dei più grandi scrittori viventi. E comunque — aggiunge — Camilleri ha scritto questa storia tre anni fa».
Polemiche a parte, Zingaretti preferisce soffermarsi sull’evoluzione del suo personaggio: «Come in tutte le serie gialle, non cambia il personaggio, ma l’ambiente in cui si muove e il genere thriller si presta molto bene a raccontare il presente in cui è collocato. Camilleri, come tutti i grandi scrittori, sa descrivere il passare del tempo e Montalbano in alcuni momenti è un po’ più cupo perché è invecchiato, ma soprattutto perché l’Italia è cambiata. Il Commissario resta quello che è sempre stato, gli vogliamo bene così e proprio perché è così. Ciò che gli ruota intorno invece si modifica».
Insomma, l’attore non è stanco di interpretare il poliziotto di Vigata? «La grandezza di un personaggio così può essere un limite per un attore, ma non l’ho mai avvertito. Certo, è bello cambiare ruoli, ma è altrettanto bello avere un rapporto tanto intenso e duraturo con una creatura scritta da una penna felice».

La Stampa 1.2.19
Vent’anni di Montalbano
Zingaretti: “Il Commissario è sempre contemporaneo Oggi aiuta donne e migranti”
di Michela Tamburrino


Zingaretti è sempre più Montalbano. Vent’anni fa si davano del lei, Zingaretti e l’eroe in vernacolo, rude e dai buoni sentimenti che Camilleri aveva reso grande tra le pagine dei preziosi libri Sellerio.
Una lenta trasmutazione operata su due fronti, l’attore e lo scrittore, l’uno si faceva personaggio e l’altro glielo cuciva addosso. Vent’anni fa era Il ladro di merendine con la creazione del personaggio François, il bambino che avrebbe potuto essere figlio di Montalbano per reciproca elezione affettiva. Invece ha vissuto agitato ed è morto malamente. Ora torna nei ricordi e nelle citazioni. Perché i vent’anni di Montalbano portano lieta nostalgia, torta e due nuovi episodi in onda lunedì prossimo, L’altro capo del filo e il lunedì seguente, Un diario del ’43, regia di Alberto Sironi, sempre su Rai 1, con nuove tematiche e spettri evocati, il dramma della migrazione accennato in Ladro di merendine e che oggi ha il duro sfondo dello stupro ai danni di una bambina, del lavoro di un medico dai mille pregi e di un musicista talentuoso fuoriuscito da un barcone.
Vent’anni e un’Italia cambiata con un commissario che le corre dietro. Un bello slancio visto che i numeri sono dalla sua: 1 miliardo e 179 milioni telespettatori solo italiani ma è trasmesso in 65 paesi tra Europa, Sudamerica, Stati Uniti e Asia. Era cominciata con un assaggio su Rai 2 nel terrore, ricordava il produttore Carlo Degli Esposti, Palomar, che una storia colta potesse non piacere. Non fu così. Ma perché tanto successo? Perché Vigata, il paese siciliano di fantasia con il più alto tasso di omicidi al mondo dove Montalbano opera, su Google vanta oltre 250.000 risultati. Ma perché Montalbano non invecchia? «Perché guarda alla sua contemporaneità. Con lui sono partito per un viaggio senza uguali che ha contribuito a fare di me l’uomo che sono oggi. Senza Montalbano sarei diverso. Il suo successo lo dobbiamo anche alle radici profonde delle storie che affondano nella cultura, che entrano dentro le pieghe di un'Italia sempre diversa. E poi il Sud, quella Sicilia tanto poetica e struggente ma non lontana dalla realtà, così come Camilleri ce la restituisce; avvolgente, seduttiva, fino al mal d’Africa che mi prende da lontano».
Però Zingaretti subì la malia dell’abbandono, nel 2005. Poi il ripensamento: «Io sono ancora qui con tutti gli altri, una squadra mai cambiata che ci ha uniti, ci ha fatti crescere assieme ai personaggi. Non cambia Montalbano come non cambiano Augello o Fazio. Un attore che interpreta un personaggio esistente o di fantasia letteraria si immerge in un universo che è fatto di tante componenti diverse. Queste a lungo andare per forza ti segnano e determinano la persona. In vent’anni abbiamo girato con cura cinematografica solo 34 episodi. Sembrano molti di più».
La vecchiaia è quel segno nel volto e qualcuno che se ne è andato: «Marcello Verracchio era il dottor Pasquano, il medico legale. Lo abbiamo salutato in ospedale, per sempre. Sono contento che la produzione abbia avuto il coraggio di accogliere la nostra idea, far sì che il personaggio letterario seguisse la stessa sorte del suo interprete. Impossibile sostituirlo. Sono stati anni importanti quelli che abbiamo passato, abbiamo sondato grovigli di passioni, siamo nell’oggi e in un tempo lontano».
Dice Tinni Andreatta a capo di Raifiction: «Montalbano subisce un’evoluzione esteriore e interiore. Montalbano continua a vivere e muta. Aumentano i suoi silenzi, i momenti in cui sente il bisogno di stare con se stesso, sulla terrazza. Appare più maturo, più capace di ascoltare e rimanere in silenzio davanti al dolore e all’umana pietà, capace di forte indignazione e di comprensione. La consapevolezza del male nel mondo, però, per un verso non lo fa arretrare nella ricerca della verità, dall’altro, manifesta la sua umanità dolente, con i vivi e con i morti. Nella storia e oltre la Storia. Montalbano rimette ordine nelle cose senza fare compromessi, senza accettare le comode verità, senza nascondersi. È questa la grande scrittura di Camilleri, una scrittura profonda che tocca senza giudicare gli abissi più profondi e reconditi del nostro tempo». Ecco che Camilleri nel primo episodio parla delle donne, la giovane araba migrante stuprata durante la traversata da due scafisti e di contro la donna decisa, autonoma, determinata, uccisa anche lei. E nel secondo episodio cerca nel passato remoto della guerra i significati del presente.
«Il film dai diversi piani - dichiara Teresa De Santis direttrice di Rai1 - ci offre spunti di riflessione e una splendida narrazione di temi controversi e complessi affrontati dal punto di vista dell’autore».
Si apre appunto con i migranti in una Vigata allo stremo delle forze, Montalbano che raccoglie un corpo in mare, Antigone maschile, dolente e attuale. É il risultato di tanti anni da Montalbano.

Repubblica 1.2.19
Rai, Vespa al posto di Fazio per neutralizzare Montalbano
Viale Mazzini cambia palinsesto: Porta a Porta dopo la fiction in cui si parla di migranti
di Silvia Fumarola


Di che cosa stiamo parlando
A chi fa paura il commissario Montalbano che aiuta i migranti? L’altro capo del filo (su Rai1 l’11 febbraio) ha creato imbarazzo a Viale Mazzini, visto il tema sensibile che divide il governo. Così nella serata in cui la fiction più amata andrà in onda, per bilanciare, al posto di Fabio Fazio sarà trasmessa una puntata di Porta a Porta sulle elezioni regionali in Abruzzo e una parte dedicata all’attualità.

Roma «Cosa farà il ministro dell’Interno Salvini? Io penso che vedrà Montalbano. A di là dell’atteggiamento da sceriffo credo che capisca i problemi. Non c’è niente contro di lui in quello che raccontiamo, i migranti sono un tema che riguarda il nostro Paese » . Alberto Sironi, da vent’anni regista della serie tratta dai libri di Andrea Camilleri spiega come L’altro capo del filo, primo dei due nuovi episodi in onda l’ 11 febbraio su Rai1, non deve creare imbarazzo. Eppure in Viale Mazzini c’è stata più di qualche preoccupazione, al punto che è stata anticipata la puntata di Porta a porta a lunedì, facendo spostare Fabio Fazio. La direttrice di Rai1 Teresa De Santis conferma l’anticipazione di Repubblica spiegando che « tenendosi le elezioni regionali in Abruzzo il 10 febbraio, il programma di Bruno Vespa verrà anticipato dal martedì al lunedì. Come di consueto la Rai, che è servizio pubblico, farà la trasmissione » . Il segretario della Commissione di Vigilanza sulla Rai Michele Anzaldi (Pd) accusa: «Perché non lo fa il Tg1?» preoccupandosi per « un costo aggiuntivo ». Secca la replica di Vespa («nessuna retribuzione aggiuntiva » per l’appuntamento extra), che si occuperà di politica e « temi di attualità ». «Non ho la palla di vetro» dice Vespa « non so che succederà l’ 11 febbraio». Ma tra "i temi di attualità" ci sono gli sbarchi. Il cambio di palinsesto di Rai1 però, a quanto pare, avverrà a metà: sembra escluso che Fazio si sposti il martedì.
Che fuori tempo che fa — fanno capire da Milano — è costruito con una scaletta precisa, con gli ospiti invitati settimane prima.
La Rai festeggia i venti anni di Montalbano con tanto di torta e foto ricordo, e la direttrice di Rai1 minimizza l’allarme: «Nessuna preoccupazione per le puntate sull’immigrazione » spiega De Santis, che dichiara di essere una grande lettrice dei libri di Camilleri. « Non c’è nessun imbarazzo. Se ci fosse stato, Montalbano non sarebbe andato in onda. Il servizio pubblico copre ogni argomento, anche complesso. Il tema dei migranti offre molti spunti di riflessione » argomenta. « Noi narriamo e mettiamo in scena. In questo caso trasmetto una splendida rappresentazione che ha momenti controversi che riguarda la realtà. E la realtà è complessa. Le diatribe politiche in questo momento non ci riguardano. La migrazione coinvolge molti ambiti, qui se ne affronta uno: è un punto di vista che viene raccontato ». Sironi rivela l’emozione di girare le scene al largo dopo aver visto i filmati veri «con la Guardia costiera che tira fuori dall’acqua gente che sta morendo. Dal punto di vista personale sono cose che lasciano il segno. Siamo un paese cattolico che ha sempre accolto».

Repubblica 1.2.19
La nuova tv pubblica
Dal Pci a Trump così Maglie è diventata il volto dei sovranisti
La giornalista condurrà la striscia informativa dopo il Tg1 che fu di Biagi
di Goffredo De Marchis


ROMA All’inizio sarà lei il messaggio. Più di quello che dirà al pubblico vastissimo della prima serata di Rai1, subito dopo il Tg. Maria Giovanna Maglie rappresenta l’occupazione del potere sovranista sulla rete principale della tv pubblica. Un nuovo mainstream. Leghista. Darà voce alla pancia del Paese. Come Salvini. Per questo i grillini soffrono. Avrebbero voluto bilanciare la sua presenza con una conduzione a staffetta. Il Tg1 si sente usurpato. Ma niente da fare. Il programma, nei foglietti della direttrice di Rai1 Teresa De Santis, si chiama "la striscia".
Nome provvisorio. Partirà probabilmente lunedì 25 febbraio. Sette minuti al giorno per cinque giorni a settimana.
Entrerà nelle case di milioni di italiani, è lo spazio più ambito.
Quello che garantisce una penetrazione quotidiana nell’opinione dei cittadini. Lì dove c’era Enzo Biagi ci sarà la giornalista 67enne veneziana trasferita molti anni fa a Roma, dal curriculum eccessivo, pieno di svolte, innamoramenti e disamoramenti.
Da giovane comunista fu nel cuore di Giancarlo Pajetta, allora responsabile Esteri del Pci e cooptata nel corpo scelto di quel movimento, l’Unità. Lavora al quotidiano dal 1979 al 1987, si specializza in politica internazionale. Poi approda al craxismo e come molti ex esprime soprattutto un sentimento rivalsa personale contro il passato. Questa cifra potrebbe ispirare anche il ritorno in Rai. A Viale Mazzini Maglie è già stata, dal 1989 (raccomandata da Craxi al Tg2 per sua stessa ammissione) al 1993 quando si dimise dall’azienda. Dimissioni obbligate visto che pendeva la minaccia di licenziamento per una questione di note spese truccate. Lo disse chiaro e tondo il direttore generale di allora Gianni Locatelli. Lei, corrispondente da New York, rispose: sono dimissioni non un licenziamento mascherato. Finì male, comunque. Il procedimento giudiziario per truffa fu archiviato: non c’erano prove di falsificazioni. Ma il magistrato scrisse: le spese sono molto ingenti, per la gestione della sede di New York 1 miliardo e 700 milioni di lire nel 1992 e mezzo miliardo nei primi mesi del ‘93, senza contare gli stipendi. Due milioni e mezzo di lire al mese di giornali, 6,3 milioni di taxi mensili nonostante una macchina in leasing. L’inchiesta interna della Rai fu più feroce: un informatore pagato con i soldi dell’azienda risultò ubicato all’indirizzo di un noto parrucchiere. La leggenda del super tenore di vita in trasferta non era una novità per la Maglie.
Era nata durante la prima guerra del Golfo. Ma nell’epilogo della storia non fu certo estraneo ciò che succedeva intorno alla tv pubblica, e di più importante: Craxi declinava colpito da Tangentopoli, i craxiani erano bersagli facili. Anche in Rai.
Maglie ebbe il coraggio di dirlo al mondo.
Detto questo, ora torna sul luogo del delitto. La svolta sovranista non è dell’ultima ora. Se ne trovano mille tracce nel percorso seguito dalla Maglie dopo il ‘93.
Diventa berlusconiana e viene ospitata sulle pagine del Giornale.
Tiene viva la memoria di Oriana Fallaci e ne cura le commemorazioni. Ospite frequente di talk show anticipatori come la "Gabbia".
Nel 2007 fa l’opinionista all’Isola dei Famosi con Signorini (la pancia del Paese). Però diventa anche condirettore della Discussione, organo del Ccd. Si occupa del caso di Denise Pipitone, la bambina scomparsa in Sicilia, e difende Alessandra Mussolini quando il marito finisce nei guai per le baby squillo dei Parioli. La sua passione resta la politica estera, ma gli sconfinamenti non sono casuali.
Rispondono al bisogno di connettersi con gli istinti della gente comune, con le notizie pop. Sempre dalla parte più provocatoria. Non poteva che incontrare sulla stessa strada Matteo Salvini e soprattutto Donald Trump. Sul sito Dagospia, dove collabora regolarmente, è stata la prima a prendere le parti del tycoon. Tra le poche a immaginarne il successo. Ha vinto davvero. Ha vinto anche lei.
Che continua a spiegarne le mosse come quelle di un impareggiabile stratega, tanto più in confronto ai derelitti del Partito democratico americano.
Perché la cifra di Maria Giovanna Maglie resta sempre quella: andare contro il politically correct, contro le élite, contro "quelli là". Lo sbarco a Rai1 è in sè il simbolo di questa vittoria.

Repubblica 1.2.19
Nell’età della rabbia rivive la dittatura del proletariato
di Maurizio Ferraris


Il populismo ha realizzato, a sua insaputa, una delle profezie dell’autore del "Capitale". Viviamo infatti in un mondo in cui i governanti sono schiavi degli umori e dell’applausometro dei follower: un insieme di monadi cariche di odio
Le persone possono finalmente esprimere le loro opinioni, hanno gli strumenti e il tempo per farlo, e queste opinioni sono per lo più manifestazioni di paura, odio, invidia. Immagino l’obiezione: non è granché, come comunismo realizzato. No, in effetti non è granché, lo sapeva e lo prevedeva anche Marx, che aveva concepito la dittatura del proletariato come fase intermedia nella transizione fra capitalismo e comunismo, e ne riconosceva con esattezza la carica d’odio (aveva in mente la Comune di Parigi). Ora, che cosa sono i populismi contemporanei, se non la realizzazione della dittatura del proletariato? Da questo punto di vista, non c’è nulla di più ingannevole del paragone tra i populismi mediatici e il fascismo.
Quest’ultimo era un governo autoritario, come del resto lo stalinismo. Portava avanti un progetto politico incurante delle idee dei governati, e questa, nel breve termine, era la sua debolezza rispetto alle democrazie liberali, che dovevano fare i conti con l’opinione pubblica. Ma per quanto influente fosse questa opinione resta che Churchill, nel luglio del 1940, con la Francia arresa, l’Urss alleata alla Germania, gli Usa neutrali, poté rifiutare le offerte di pace di Hitler. Oggi non avrebbe potuto, e, sarebbe stata una eventualità molto peggiore della Brexit.
Ecco il paradosso del populismo.
Nel momento in cui le merci più pregiate sono i documenti, diventa facile proporre un programma elettorale vincente.
Questo però non garantisce a chi va al governo un qualche potere dispotico, magari rafforzato dal controllo a mo’ di panopticon che sbircia nella vita dei governati.
Succede esattamente il contrario.
Il panopticon è un panopticon privato, non statale, ed è un panopticon capovolto, per cui il governante è lo schiavo dei sondaggi e del web che l’hanno portato al potere, e dunque deve eseguire gli ordini di una moltitudine che non è classe, e meno che mai è popolo, bensì una somma di monadi tenute insieme dall’odio e dall’invidia sociale. I governati governano i governanti, e questo non perché questi ultimi abitino una qualche casa di vetro, ma semplicemente perché il Palazzo conosce davvero troppo bene cosa vogliono gli elettori. Si è detto che i politici attuali ricordano gli influencer sul web. Il paragone va preso alla lettera: come questi, sono l’applausometro degli umori dei follower, dunque a ben vedere sono degli influenced. Questa non è la realizzazione della democrazia e della politica, ma è oclocrazia (concretamente: vi fareste governare da quelli che posteggiano in terza fila? Bene, l’oclocrazia è questo). Quest’odio e questa invidia hanno bersagli inadeguati e passatissimi, per esempio le banche, il grande complotto, i poteri forti. Non considerano, ad esempio, che prestano i loro soldi alle banche, mentre regalano i loro dati alle compagnie, e lo fanno probabilmente perché non si rendono conto che si tratta di una ricchezza molto superiore in sé di quanto non lo siano i soldi che mettono in banca. Nulla di più sbagliato, ripeto, del vedere nel populismo un ritorno del fascismo, e uno stato totalitario.
Il fascismo è un governo autoritario e totalitario con una progettualità immensa e catastrofica; il populismo è un governo irresponsabile e parcellizzato, in balia dei molteplici e contraddittori desideri dei suoi elettori. Ossia è la completa mancanza di progetto. Il vero compito, dunque, è formare noi stessi un progetto, essere capaci di decisioni. Per farlo, è necessario preliminarmente rispondere a un interrogativo.
Come mai, se è scomparsa la differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, se l’alienazione è finita, se vige la dittatura del proletariato, le persone sono così arrabbiate?
Banale: perché lavorano gratis, però non lo sanno, tanto è vero che il loro malumore si indirizza verso obiettivi immaginari.
Difficile non cogliere l’asimmetria tra dare e avere. I documenti che gli archivi forniscono ai mobilitati sono generali e accessibili a tutti, per definizione: dunque non offrono vantaggi competitivi. Le informazioni che i mobilitati offrono agli archivi sono individuali e accessibili solo a chi li sa maneggiare dunque offrono enormi vantaggi competitivi. Si aggiunga che i mobilitati pagano di tasca loro i mezzi di produzione: apparati e abbonamento con il provider.
Il rapporto tra i mobilitati e le piattaforme riproduce dunque il classico rapporto tra capitale e lavoro, con una variante importantissima, e cioè che qui il lavoro non viene retribuito, e, prima ancora, non è neppure riconosciuto come tale. Malgrado questo, è sentito sulla pelle delle persone e nella rabbia sociale che è la reazione a un problema che ignora, e di cui avverte soltanto il disagio. I populisti non vedono un punto cruciale: il problema non sta nel capitale finanziario e nella globalizzazione, bensì nella grande asimmetria fra mobilitanti, chi gestisce le piattaforme del web, chi interpreta i dati, e mobilitati, chi naviga sul web.
Mentre si maledicono le banche, non si pensa che i veri "poteri forti" sono altri: Google, Apple, Amazon (e sin qui lo sappiamo tutti); Tencent, Alibaba, Baxt, WeChat in Cina (e questi nomi sono meno noti). E che i più forti tra questi poteri forti sono ignoti ai più, e sono i nomi dei "miner" che scavano i dati e li interpretano: Acsion, Criteo, Equifax, Experian, Quantcast, Tapad – chi li ha sentiti nominare?
E chi ha sentito nominare Privacy International, l’organizzazione che ne indaga e ne denuncia le attività? Si tratta di conoscere e di riconoscere che lo scambio che ha luogo tra le compagnie di gestione e ognuno di noi non è uno scambio equo ma, proprio come nel caso del capitale industriale, comporta una ingiustizia fondamentale, per cui i dati (che costituiscono il capitale del XXI secolo proprio come le merci erano il capitale del XIX secolo e le finanze quello del XX secolo) sono distribuiti in maniera iniqua. Da parte degli utenti ha luogo una mobilitazione incessante e che non è neppure riconosciuta come lavoro, né da chi lo offre né da chi lo riceve, eppure è lavoro a tutti gli effetti, dal momento che produce valore.
Dalla parte dei gestori, ha invece luogo una capitalizzazione dei dati che produce dei guadagni molto superiori a quelli del capitale finanziario. Riconoscere la natura del plusvalore documediale costituisce un compito filosofico non meno necessario di quello svolto da Marx al suo tempo, ed è preliminare a un’opera ancora più importante, evitare che il Panopticon capovolto paralizzi la democrazia.
– 4. Fine. Le puntate precedenti sono uscite il 28 dicembre, l’8 e il 29 gennaio

Repubblica 1.2.19
Il nuovo saggio di Sabino Cassese
Non c’è vero Illuminismo senza meritocrazia
di Emanuele Felice

La democrazia, fondata  sul costituzionalismo liberale, è quel sistema politico che dopo la Seconda guerra mondiale è riuscito a garantire ai cittadini condizioni di benessere materiale, libertà, diritti civili e politici e spesso anche sociali (si pensi al welfare state) impensabili in qualunque altra epoca storica e, nel complesso, sotto qualsiasi altro regime. Ma la democrazia come l’abbiamo conosciuta durante l’ "età dell’oro" è in crisi: ovunque nel mondo (si pensi alla Russia, alla Cina, all’India, al Brasile) e anche in Occidente, proprio dove è nata.
Di questa crisi l’Italia è uno dei tre grandi poli, assieme all’America di Trump e al Regno Unito lacerato dalla Brexit. Non solo perché qui da noi le forze populiste, peraltro al governo, toccano vette di consenso maggiori che in ogni altro paese avanzato. Ma perché quel sogno liberal-democratico (o social-democratico), che mirava a tenere insieme crescita e diritti, sviluppo economico e sviluppo umano, in fondo ha registrato i maggiori successi, in termini di benessere e di libertà reali, proprio in Europa, più anche degli Stati Uniti. E l’Italia dell’Europa è una parte essenziale, o almeno dovrebbe.
Il nuovo libro di Sabino Cassese ( La svolta. Dialoghi sulla politica che cambia, il Mulino) parla di questo.
È una riflessione in presa diretta sul dato politico più importante del nostro tempo, che potrebbe segnare un cambiamento d’epoca e che ha smentito le previsioni ottimistiche sulla "fine della storia": cosa è successo negli ultimi due anni, allo sguardo di un intellettuale d’eccezione qual è Cassese. Molto originale, perché strutturata in forma di dialoghi con se stesso, un genere letterario che l’autore aveva riproposto ispirandosi a grandi del passato (Galileo, Diderot, Leopardi), inizialmente proprio su Repubblica. Più recenti, le autointerviste qui raccolte, apparse sul Foglio nel 2017 e 2018, commentano l’attualità con una grande profondità storica. Sono ironiche, argute e spesso coltissime, come richiede lo stile, stupiranno il lettore. Quasi un diario, ma organizzato per temi, preceduto da un saggio inedito sull’Italia e gli scenari globali.
Che insegnamenti trarne?
Diversi, fra cui una lezione di impegno civile. Ma due più di altri conviene sottolineare, perché controcorrente. Il primo sulla costruzione europea, che dobbiamo tenerci cara, e a cui guardare con criticità ma anche ottimismo: è un esperimento inedito e appena cominciato (anche per questo imperfetto), che pure è riuscito a compiere straordinari passi avanti sulla strada dell’integrazione pacifica e democratica, che non si erano mai visti in tutta la storia umana. E l’Europa continua a progredire, contrariamente a quel che molti pensano. Deve continuare, perché è come una bicicletta: se si fermasse cadrebbe.
Il secondo sulla democrazia, anch’essa da tenerci cara. La democrazia, sottolinea Cassese, non è solo l’esercizio del diritto di voto, non si riduce al principio di maggioranza. È un sistema di pesi e contrappesi (la divisione dei poteri), che serve a limitare gli abusi da parte di chi vince e, in questo modo, tutela i diritti fondamentali di ogni persona. Ed è un sistema che tempera il principio di maggioranza con quello meritocratico: si pensi al ruolo delle autorità indipendenti, o all’importanza della pubblica amministrazione, del sistema giudiziario, dove si accede tramite concorso. Il merito si affianca al consenso, completandolo.
Di più, e meglio. Anche l’esercizio del diritto di voto non vuol dire solo depositare la scheda nell’urna. La democrazia deve anche garantire ai cittadini la possibilità di formarsi un’opinione, per poi votare in modo consapevole: la libertà di stampa e di associazione, regole elettorali che consentano un’equa competizione, la stessa indipendenza fra i poteri. Nel Novecento, la democrazia si è incontrata con il liberalismo, dottrina politica (non economica) nata con l’Illuminismo, e da allora i due sono diventati inseparabili, perché si completano a vicenda. A ben vedere, la "democrazia illiberale" teorizzata da Orbán, cui si ispira una parte dell’attuale maggioranza, non può esistere: la democrazia o è liberale, o non è.
Sabino Cassese La svolta di Sabino Cassese (Il Mulino pagg. 340 euro 18)

La Stampa 1.2.19
Lucio Fontana in mostra a New York


All’Istituto Italiano di Cultura di New York fino al 6 marzo è in corso la mostra «Spatial Explorations - Lucio Fontana and the Avant-garde in Milan in the 50’s and 60’s», con capolavori dello Spazialismo italiano dalla collezione Intesa Sanpaolo. Curata da Francesco Tedeschi, accoglie quattro importanti opere di Lucio Fontana interrogandosi sul rapporto tra spazio e pittura nell’arte italiana, a Milano, negli anni Cinquanta e Sessanta. Accanto a questi capolavori, la mostra offre ai visitatori anche la possibilità di vedere alcune tra le principali opere della collezione della Banca, che conta più di 3.000 testimonianze dell’arte del Novecento. L’esposizione si svolge in concomitanza con la retrospettiva del MET Breuer «Lucio Fontana: On the Threshold», a cui la Banca ha prestato due delle principali opere dell’artista: «Concetto spaziale: la Luna a Venezia», 1961, e «Concetto spaziale: attese», 1967.

https://spogli.blogspot.com/2019/02/corriere-1.html