sabato 19 gennaio 2019

“Transgender” /1
La Stampa 19.1.19
“Sempre più persone si liberano dalla zavorra
È fondamentale intervenire il prima possibile”
di Nadia Ferrigo


Intrappolato in un corpo impossibile da riconoscere. E che fa soffrire. Ne parliamo con Fabrizio Quattrini, presidente dell’Istituto italiano di Sessuologia, psicoterapeuta e professore di Clinica delle parafilie e della devianza all’Università dell’Aquila.
Cos’è la disforia di genere?
«Significa non riconoscersi nel sesso biologico di appartenenza. Precisazione importante, non ha nulla a che fare con l’orientamento sessuale. Le persone che ne soffrono possono avere, sia in fase di transizione che di raggiungimento del sesso sentito, un orientamento etero, omo o asessuale».
E l’età, che ruolo gioca nella diagnosi?
«Quando si iniziò a parlare di transessualismo si distinse tra primario e secondario. Infanzia e adolescenza oppure l’età adulta. Ma non sempre la consapevolezza del malessere si lega alla percezione della persona. Può darsi anzi che si nasconda, per i timori legati alla società o alla famiglia di appartenenza».
Nella sentenza di Genova a decidere di cambiare sesso è un minorenne, da femmina a maschio, mentre i pochi precedenti erano opposti. Domanda brutale: troppo presto?
«No. L’età numerica non cambia nulla. Sedici o diciotto, è lo stesso. Anzi è importante intervenire il prima possibile».
Perché?
«Per evitare che i cambiamenti della pubertà possano danneggiare in modo grave e irreversibile, a livello emozionale e psicologico, la persona che poi comunque andrà in transizione. Pensiamo per esempio alle prime mestruazioni. Molti studi sulla disforia in età evolutiva riguardano la possibilità di bloccare con gli ormoni la fase di sviluppo. Serve ad avere il tempo di superare il periodo critico e capire se la persona va in una direzione o nell’altra. Quando è chiaro, si somministrano gli ormoni adeguati».
Classico commento da bar: «Una volta mica c’erano queste cose».
«Si registra un crescendo di richieste, sia di diagnosi di disforia che d’interventi chirurgici. Ottimo segno, fa pensare a un crescente numero di persone che si libera della zavorra della paura. Anche per l’omosessualità, dal momento in cui non si considera più una forma patologica, ma un modo di essere a prescindere dagli stereotipi, sono molte di più le persone che fanno coming out».
La transizione di genere è un processo sia medico che psicologico delicato. Qual è il ruolo dei genitori?
«Ancora oggi ascolto le storie di ragazzi e ragazze cacciati da casa dopo aver detto come si sentono. Il percorso psicologico si fa non solo con la persona che desidera cambiare sesso, ma anche con la famiglia. Quando gli amici accettano e integrano un cambiamento, quest’ultimo e l’accettazione sono reali. È una condizione che esiste e così va accettata».
Perché il passaggio da donna a uomo è medicalmente più invasivo?
«Nel cambio di sesso da uomo a donna, oltre agli ormoni, l’unico intervento è l’asportazione della parte anatomica maschile. E lì si chiude».
Al contrario?
«Alla terapia ormonale seguono mastectomia e rimozione di utero e ovaie. Molto invasivo. Quando e se una persona desidera un neo-fallo, allora ce n’è un quarto. Anche se non avrà terminazione nervose, né la circolazione del sangue. Non è dunque funzionale, se non in modo meccanico con una protesi idraulica. E si perde la sensibilità del clitoride, che resta “schiacciato” e così si perde pure la sensibilità che porta all’orgasmo. In una ricerca di qualche anno fa, scoprii che tanti scelgono la falloplastica non per la sessualità, ma per fare la pipì da in piedi. Un elemento simbolico del maschile».
Nessuna possibilità di diventare genitori?
«Complicato, ma non impossibile. Si può pensare alla conservazione di ovociti e sperma, per esempio. Non naturalmente, ma artificialmente, si può anche preservare la capacità genitoriale».