domenica 27 gennaio 2019

Secondo MASSIMO FRANCO l'autorevolo editorialista del Corriere della Sera sarà questo il futuro che ci attende Trattative ora in corso tra il Vaticano e la Lega
Corriere 27.1.19
Incontro riservato con Salvini e Giorgetti a inizio anno
I leghisti dal cardinale Becciu
Il porporato. Il ruolo tra il formale e l’informale del nuovo «cardinale italiano» che tratta con i partiti
I 5 Stelle. La preoccupazione dei 5 Stelle che cercano a loro volta una sponda Oltre Tevere
di Massimo Franco


Sono entrati dalla scala di servizio, scavalcando un paio di sacchi dell’immondizia. Ma ne valeva la pena. Per il ministro dell’Interno Matteo Salvini, castigatore dei migranti, e per il sottosegretario a Palazzo Chigi, Giancarlo Giorgetti, leghista più moderato di governo, quella era la porta di ingresso, se non nel Paradiso, nel Purgatorio. Incontrare il cardinale Giovanni Angelo Becciu, ex sostituto alla Segreteria di Stato, di fatto omologo vaticano di Salvini fino a pochi mesi prima, significava uscire dall’inferno di un muro contro muro ufficiale tra il Carroccio e la chiesa di Papa Francesco. E farlo un paio di giorni dopo l’Epifania, voleva dire cominciare bene il 2019: nel segno del dialogo.
In Vaticano ne parlano con un filo di imbarazzo. Ed è inutile cercare conferme dal padrone di casa. Becciu è diventato il «cardinale italiano» per antonomasia, negli ultimi anni: lo stesso ruolo tra il formale e l’informale che aveva Achille Silvestrini nel secolo scorso. Il punto di collegamento discreto tra la politica italiana e quella vaticana; l’interlocutore di tutti; l’alto prelato smaliziato al punto giusto per trattare riservatamente senza compromettere la Santa Sede. Lui aveva incontrato lo «sceriffo» dei governi di centrosinistra, Marco Minniti. E poi, prima delle elezioni del 4 marzo, il futuro vicepremier dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio. Tutti ricevuti in uno di quei mitici appartamenti cardinalizi alla destra della basilica di San Pietro, nel Palazzo apostolico, che come sempre alimentano anche mille pettegolezzi sui costi di manutenzione e di ristrutturazione.
Quel giorno di gennaio 2019, l’incontro di cui ha parlato ieri il Fatto Quotidiano doveva rimanere riservato perfino per la Gendarmeria vaticana. E invece, dal Viminale avevano informato i colleghi d’Oltre Tevere. Non era prevista la presenza di Salvini: si era aggiunto all’ultimo momento. In quei giorni infuriava lo scontro sui migranti delle navi Sea watch e Sea eye, col ministro schierato, al solito, contro lo sbarco nei porti italiani: perfino in attrito col premier Giuseppe Conte. Con Becciu si doveva discutere la strategia del governo populista sull’immigrazione. Ma il tema ne racchiudeva altri.
La Lega cerca da tempo una sponda e una legittimazione per calamitare ciò che resta del voto cattolico. Deve confrontarsi su cosa sia oggi l’interesse nazionale per la Santa Sede e il governo italiano. E, sotto sotto, voleva sondare Becciu su un’udienza di Papa Francesco a Salvini. Sarebbe stato questo, il vero contenuto del «pranzo segreto». Col cardinale che avrebbe chiesto al ministro dell’Interno un gesto di generosità sui disgraziati in attesa sulle navi: farli sbarcare poteva permettergli magari anche di prendersene il merito. E con Salvini disposto a pensarci su, ma perplesso perché i servizi di informazione, avrebbe sostenuto, temevano che un cedimento avrebbe moltiplicato gli arrivi.
Alla fine sarebbe riemersa la richiesta di un’udienza con Jorge Mario Bergoglio. Ma per ora, sarebbe stato spiegato, è impensabile. E non solo perché il pontefice aveva appena ricevuto il premier Conte e stava per incontrare il presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Il macigno era e rimane la posizione della Lega di Salvini su immigrazione e sicurezza. Divide e avvelena anche i rapporti col e nel mondo cattolico. Si insinua nelle parrocchie. Contrappone vescovi a vescovi, come nel resto d’Europa, d’altronde: anche se non è vero che la Conferenza episcopale italiana chiude al dialogo.
A metà marzo, forse il 13, l’istituto di formazione Elea, con la regìa del giornalista Piero Schiavazzi, organizza un dibattito pubblico per i quaderni della rivista di geopolitica Limes. Tema: «L’interesse nazionale» di Palazzo Chigi e Santa Sede, per la prima volta, forse, non coincidenti. Protagonisti: il nuovo segretario della Cei, monsignor Stefano Russo, e il leghista Giorgetti. Non deve sorprendere. Il sottosegretario è amico e frequentatore da tempo di monsignor Libero Andreatta, fino all’agosto 2017 capo chiacchierato dell’Opera romana pellegrinaggi. Il sottosegretario, che il Corriere ha pure cercato senza ricevere risposta, vive da tempo in un appartamento del Vicariato vecchio in via della Pigna. E proprio in una delle sue sale si svolgerà la conferenza di Limes a marzo.
Luogo simbolico. Nel luglio del 2016 si confrontarono in quelle stanze, a due passi da Camera e Senato, Di Maio e il direttore di Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, Antonio Spadaro. Dibattito replicato a luglio dell’anno scorso col presidente della Camera, il grillino Roberto Fico, sempre con Spadaro, potente consigliere di papa Francesco. Fu allora che si cominciò a parlare di «Cernobbio cattolica», e di «pontieri» tra Movimento Cinque Stelle e Vaticano. Ebbene, neppure un anno dopo sembra quasi che si assista al tentativo della Lega di scippare all’alleato di governo anche i rapporti con il Vaticano e i vescovi italiani; o comunque di fargli un’aperta concorrenza.
A Palazzo Chigi sono terrorizzati all’idea che Francesco riceva Salvini prima delle Europee: sottrarrebbe altri voti. Ma non c’è il rischio, vista la sua linea, agli antipodi rispetto al Papa. Oltre tutto, il tentativo di «conversione» fatto da Becciu sarebbe fallito. Poche ore dopo l’incontro col ministro e il sottosegretario Giorgetti, Salvini ha ricominciato a sparare contro i migranti: tanto che in Vaticano adesso c’è chi ha considerato imprudente l’apertura di credito del «cardinale italiano». Ma la Santa Sede tratta con tutti: perfino con dittatori come il venezuelano Nicolàs Maduro e con quello della Corea del Nord, Kim Jong-un. E chissà che dopo le Europee di maggio i colloqui con la Lega possano passare attraverso la porta principale.

Corriere La Lettura 27.1.19
L’eroe sfida il demone Non un classico: di più
Una monumentale edizione permette di apprezzare finalmente il Ramayana, poema che come Gilgamesh o il cclo omerico è un pilastro del narrare di ogni tempo
La trama (semplice, lineare) parla di tutti noi mortali in 24 mila strofe
di Emanuele Trevi


Ci sono i cosiddetti «classici», che sono opere capaci di durare nel tempo in virtù della loro bellezza o del loro interesse storico. E poi, a sorreggere l’edificio della memoria, ci sono libri che non sono solo classici. Nella storia umana svolgono la funzione di pilastri e di fonti inesauribili di energie spirituali. Esprimono al massimo grado di verità e di seduzione estetica ciò che è possibile pensare di noi e del nostro destino di mortali. Definirli «attuali» sarebbe un modo ingenuo di offendere e sminuire questi libri, che semmai sono perenni, tanto che si ha l’impressione di intravedere simultaneamente, nelle loro pagine, l’origine e la fine del mondo. I poemi omerici appartengono a questa categoria suprema, come le storie di Gilgamesh, e come il Ramayana, il grande poema epico indiano di cui possiamo finalmente festeggiare un’adeguata edizione italiana.
Fino a oggi, per avere un’idea più o meno fedele delle avventure di Rama e della sua sposa Sita, conveniva rivolgersi piuttosto a uno dei tanti riassunti d’autore del poema, come quello di Rasipuram Narayan, il grande scrittore indiano di lingua inglese, o quello composto a quattro mani da un eminente filosofo, Ananda K.Coomaraswamy, e da un’illuminata monaca buddhista, suor Nivedita. Ma tuffarsi nel mare del testo integrale, con le sue 24 mila strofe, è un’avventura della mente che segna una data indelebile nella vita di ogni lettore.
Chi recita e ascolta le avventure di Rama, ci viene detto in una delle prime strofe, «si libera da ogni pena, lui con i suoi figli e i figli dei suoi figli». La conoscenza di questo meraviglioso poema equivale a un bagno lustrale, a una seconda nascita: come se la storia dell’eroe fosse uno dei grandi fiumi sacri in cui si immergono i fedeli induisti.
Paradossalmente, all’immensità del Ramayana fa da contrappeso, quando ne sfrondiamo le digressioni, una trama relativamente semplice. Così come possiamo comprimere in poche righe la materia dell’Odissea, anche quella del Ramayana, ridotta all’osso, non richiede tante parole: è la storia di Rama, l’eroe perfetto, e della guerra che combatte contro Ravana, potentissimo demonio che gli ha rapito l’amatissima sposa, la splendida e irreprensibile Sita. Ma la vicenda avventurosa, con il suo fascino, non è che il riflesso di una dimensione trascendente. Ravana infatti, pur dotato di una sua regale nobiltà, è un’incarnazione assoluta del Male, una insopportabile malattia del Cosmo. Dov’è lui, «il sole non riscalda più; il vento, per la paura, non soffia più; il fuoco non brucia più», e anche l’Oceano inghirlandato delle sue altissime onde trema per la paura al solo vederlo.
Il fatto è che Ravana si ritiene invincibile perché ha ottenuto da Brahma, il padre di tutte le cose, una condizione che lo mette al sicuro: non potrà essere ucciso né da un dio né da un demone né da un’altra creatura dotata di poteri sovrannaturali. Nell’universo mentale dell’epica induista la parola data è un vincolo che non si può sciogliere, nemmeno un dio potente e benevolo come Brahma può ritirarla. Ma al momento di strappare a Brahma la sua promessa, il superbo Ravana non aveva menzionato gli uomini tra coloro che non avrebbero potuto ucciderlo. È da questa dimenticanza generata dalla superbia che gli dei muovono alla riscossa, chiedendo aiuto a Visnu «splendente di luce infinita», colui che «distrugge le angosce delle creature angosciate».
Sarà Visnu a prendere la natura umana suddividendosi in quattro prìncipi di stirpe reale: Rama e i suoi fratelli. Così che, al termine delle sue gesta e di una lunghissima vita (più di 10 mila anni!) Rama non morirà come un mortale ma verrà riassorbito nella sua natura divina, insomma tornerà a essere Visnu nel mondo degli dèi, dopo aver sconfitto Ravana, recuperato la sua sposa e governato il suo regno come un modello esemplare di giustizia e prosperità.
Si può facilmente intuire da questi rapidi e inadeguati accenni come il Ramayana, dal suo primo nucleo narrativo forse risalente al V secolo prima di Cristo fino alla sua forma definitiva, raggiunta quasi un millennio dopo, sia stato recitato, ascoltato, e infine letto come un testo sacro a tutti gli effetti, vale a dire come una storia che, sotto il sontuoso splendore della sua lingua e l’avvincente ricchezza delle sue avventure, non smette di raccontare la storia di una salvezza che riguarda tanto il singolo individuo quanto il Cosmo nella sua interezza, compresi gli dèi più potenti e venerati. Così come i sacrifici e le loro complesse e minuziose liturgie vediche garantiscono all’uomo una porta d’accesso ai mondi superiori, l’incarnazione di Visnu in Rama certifica il significato trascendente delle avventure epiche, con il loro alternarsi di vittorie e sconfitte, smarrimenti e decisioni propizie.
Non è un caso che il Ramayana si sia diffuso in Asia non solo attraverso le traduzioni in tutte le principali lingue nazionali, ma anche con il concorso delle arti figurative e drammaturgiche che hanno esaltato sia l’attraente varietà delle situazioni narrative del poema, sia i loro onnipresenti significati metafisici. Dai meravigliosi bassorilievi khmer di Angkor, in Cambogia, alle ingenue e coloratissime pitture popolari che adornano, lunghe centinaia di metri, innumerevoli luoghi di culto, passando per il teatro d’ombre indonesiano, le maschere, la decorazione di umili manufatti, l’amore di Rama e Sita ha pervaso di sé un’immensa, ramificata civiltà.
Si può dire che non esista mezzo di espressione umana che non si sia prestato a una nuova versione del grande poema, sempre preservando qualcosa della sua forza originaria. Tra il 1987 e il 1988, i 78 episodi dello sceneggiato diretto da Ramanand Sagar tenne incollati milioni di indiani agli schermi della tv, che molti, prima di ogni nuova puntata, decoravano di ghirlande di fiori e offerte votive, come fosse un nuovo tipo di tempio catodico. E non possiamo non ricordare che, nel millenario processo di diffusione del Ramayana, l’Italia occupa un posto tutt’altro che secondario. Si deve infatti al piemontese Gaspare Gorresio (1808-1891) una monumentale edizione critica del poema, accompagnata dalla prima traduzione in una lingua occidentale, pubblicata tra mille difficoltà, tipografiche ed economiche, tra il 1843 e il 1870 (il primo volume, che contiene anche una finissima introduzione, era dedicato a Carlo Alberto). Quando mancavano i soldi necessari all’impresa, provvedeva direttamente Cavour, che era poco o nulla interessato alla letteratura e in quegli anni, come si sa, aveva ben altre cose a cui pensare. Questa tappa sabauda e risorgimentale delle avventure di Rama e Sita meriterebbe di essere degnamente raccontata. Quel grande filologo ed erudito che era Gorresio riuscì a intuire, nel mare delle tradizioni manoscritte, quale fosse la versione del Ramayana più ricca e più bella, e questa nuova edizione italiana è ancora basata sulle sue ricerche.
A chi si imbarca nella lettura di quest’opera prodigiosa, servono qualche decina di pagine per entrare in confidenza con un mondo narrativo tanto distante nello spazio e nel tempo, e un paio di mesi per venirne a capo. Mi sento di assicurare che non proverà mai, strada facendo, noia o stanchezza, e ne ricaverà l’impressione indelebile di aver trovato un tesoro intatto e inesauribile.

il manifesto 27.1.19
Martin Heidegger
Così la metafisica lavora al proprio annientamento
Filosofia. Nessuna concessione all’antisemitismo nazista nel IV dei «Quaderni neri»: a metà anni ’40, l’avversario è piuttosto il «monoteismo ebraico-cristiano», responsabile, tra l’altro, dei «sistemi della dittatura totale»: da Bompiani
di Lucio Cortella


Chi pensava di trovare la teorizzazione del supposto antisemitismo di Martin Heidegger nel quarto volume dei suoi Quaderni – Note I-V. Quaderni neri 1942-1948 (traduzione di Alessandra Iadicicco, Bompiani, pp. XVIII-700, euro 30,00) rimarrà deluso. Alla «questione ebraica» il filosofo tedesco dedica in tutto una quindicina di righe. Per le restanti 700 pagine, a parte un rapido accenno al «profetismo», nient’altro.
Anche questa quarta puntata dei Quaderni neri si conferma come un «diario filosofico», una meditazione pensante di Heidegger su se stesso, sui grandi temi della propria filosofia, in particolare sulla questione che, a partire dalla «svolta» avvenuta alla fine degli anni Venti, era diventata per lui centrale e cruciale, la questione dell’essere e della sua «storia».
er Heidegger l’essere non va confuso con gli «enti»: non è né una cosa del mondo né una sostanza trascendente e sovrasensibile al di fuori del mondo, come l’ente «supremo» della tradizione metafisica cristiana. L’essere non è identificabile con una «sostanza», è invece un essenziale sottrarsi (e nascondersi) a ogni tipo di «entificazione», a ogni oggettivazione. Ciò che noi comprendiamo dell’essere emerge solo dalla storia, dalla «sua» storia che è poi anche la «nostra». Ma al tempo stesso questa è la storia del suo tradimento, della sua perdita, del suo abbandono.
L’efficienza del fare
Già la filosofia degli inizi, in Grecia, aveva trattato l’essere come un ente, come una «presenza», anche quando lo ha pensato come un’entità trascendente (le idee di Platone, il motore immobile aristotelico, il Dio cristiano), ma così ha annullato e rimosso quella che Heidegger chiama differenza ontologica, la differenza essenziale tra «essere» ed «ente».
Riducendo l’essere all’ente lo ha reso disponibile all’oggettivazione, alla manipolazione, alla strumentalizzazione, aprendo le porte all’età della tecnica. La modernità diventa così la realizzazione estrema di quella metafisica che ha dimenticato l’essere a favore dell’ente. Quella dimenticanza, tuttavia, non è un errore umano. Al contrario, è proprio il modo in cui l’essere stesso si è reso «presente» nella storia. L’oblio sta inscritto in quella ambivalenza per cui l’essere è al tempo stesso un nascondersi e un presentarsi. La sua riduzione a ente e la stessa civiltà della tecnica sono perciò il destino che l’essere stesso ci ha riservato.
La nozione fondamentale che Heidegger usa in questi anni, e che ricorre spesso nei quaderni, è quella della «macchinazione», un termine che veniva spesso impiegato dalla propaganda antisemita contro il presunto disegno di «dominio ebraico» sul mondo. Ma la «Machenschaft» assume in Heidegger un significato che va ben al di là, perché indica la caratteristica fondamentale dell’età della tecnica, in cui centrale è l’efficienza del fare (machen) e del produrre. La «macchinazione» si rivela, perciò, come il destino che l’essere ci ha riservato facendoci dimenticare la sua differenza dall’ente e presentandosi come ciò che può venire infinitamente prodotto, trasformato e manipolato. La conseguenza è la «desertificazione» (Verwüstung), la cancellazione del mondo e lo sradicamento dell’essere umano.
È in questo contesto che Heidegger colloca la sua comprensione della «ebraicità» (Judenschaft). Nelle poche righe contenute nel primo dei cinque quaderni che compongono il volume, riconduce l’essenza dell’ebraismo all’essenza della tecnica. Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, durante l’estate del 1942, e la distruzione dell’Europa avanza, con i suoi massacri, i bombardamenti, le devastazioni. Heidegger definisce tutto ciò «l’anti-Cristo», ma questo spirito di distruzione – aggiunge – non può che derivare dal suo stesso fondamento, cioè dal «Cristo».
Un destino delle origini
È il Cristianesimo, dunque, il responsabile, insieme alla metafisica, della distruzione cui sta andando incontro l’Occidente. Ma ecco che – con una mossa inaspettata – Heidegger riconduce anche il «Cristo» a una radice più profonda: quella della «ebraicità». Cristianesimo, metafisica ed ebraismo vengono coinvolti in una comune responsabilità di fronte alla distruzione di quei tempi. Nel momento del suo massimo dispiegamento, la metafisica produce il proprio stesso annientamento: questo il destino che attende anche «ciò che è essenzialmente ebreo». Teorizzare l’autoannientamento (Selbstvernichtung) del popolo ebraico proprio negli anni in cui la Germania nazista portava a compimento la barbarie dell’olocausto desta indubbiamente sconcerto e una legittima indignazione, tanto più se si pensa che dieci anni prima Heidegger aveva aderito entusiasticamente al nazismo, salvo poi ricredersi e ritirarsi dalla vita pubblica.
Tuttavia, la tesi dell’autoannientamento esprime una concezione ben più generale e riguarda il destino della metafisica e della tecnica, destino in cui l’ebraismo viene coinvolto solo tangenzialmente. Secondo Heidegger infatti, quella parabola di autodistruzione era già inscritta nel pensiero aurorale greco, pensiero che fin dagli inizi aveva obliato l’essere a favore dell’ente. E se negli anni della sua adesione al nazismo Heidegger aveva creduto alla possibilità di un «nuovo inizio» nella storia dell’essere, ora guarda a quell’adesione come a un errore di prospettiva: «L’errore fu la fretta precipitosa, fu solo un errore di tempo. Fu il non vedere ancora chiaramente che quel tempo era “lungo”».
Non ci sarà un nuovo inizio ma l’inesorabile autoannientamento della Germania, dell’Europa e dello stesso esserci. Da queste pagine non sembra dunque emergere alcuna concessione all’antisemitismo nazista, che, anzi – in un veloce passaggio del diario di qualche anno dopo – viene giudicato da Heidegger «folle e riprovevole». In quel periodo, l’avversario non è tanto l’ebreo quanto il «monoteismo ebraico-cristiano», al quale vengono ricondotti anche «i moderni sistemi della dittatura totale». La polemica più dura è rivolta al cristianesimo e alla sua «teologia clericale»: «io non sono un cristiano», scrive Heidegger, «e unicamente per la ragione che non posso esserlo». Tra pensiero e fede c’è «fessura», inconciliabilità assoluta: se esiste una «filosofia cristiana», bisogna chiedersi «fino a che punto una tale filosofia pensi», dato che «per il pensiero non vi è nessun Dio».
Un interrogativo, tuttavia, rimane: come mai – dopo che alla fine della guerra era diventata evidente a ogni tedesco la mostruosità dell’olocausto – Heidegger insiste, sebbene tramite pochi accenni, con la sua critica filosofica nei confronti di «ciò che è ebreo» invece di fare i conti seriamente con lo sterminio perpetrato dai nazisti? La risposta non può che essere intrinseca alla sua ontologia, incapace di interrogarsi sull’enormità di quell’evento. Agli occhi di Heidegger, il destino dell’essere sembra decidersi più sul terreno, per lui nefasto, della democratizzazione verso cui si sta avviando la Germania del dopoguerra, sotto il segno della perdita per lui incolmabile dell’identità, e come un «macchinario omicida» che conduce al «completo annientamento», piuttosto che sull’atroce sterminio di un intero popolo.
La sofferenza delle vittime, la meditazione sull’orrore e la negazione estrema dell’umano che l’olocausto rappresenta finiscono, dunque, per non avere alcuna rilevanza davanti al punto di vista anonimo e imperscrutabile della storia dell’essere.

Corriere La Lettura 27.1.19
Lou von Salomé
Esplorò la forza dell’eros
L’incontro imponderabile che unisce due estraneità
Bellissima e spregiudicata visse l’amore con trasporto fisico e con slancio intellettuale seducendo Rilke e Nietzsche
Cruciale il suo apporto alla picoanalisi con lo studio del narcisismo
di Donatella Di Cesare


L’amore è stato il filo della sua esistenza turbolenta e frammentata, scandita da innumerevoli legami appassionati e drammatici, dai quali lei sembrava ogni volta uscire quasi illesa. Non si contano invece le vittime, più o meno consenzienti, di quei rapporti. Intellettuali, pittori, filosofi, poeti: da Friedrich Nietzsche a Rainer Maria Rilke. Bellissima e piena di fascino, tenera e volitiva, eccentrica e indomabile, Lou (diminuitivo di Louise) von Salomé rappresenta una figura emblematica che si staglia nell’orizzonte del Novecento europeo agitato da rivolgimenti politici ed esistenziali. Qualsiasi giudizio si voglia emettere su questa donna spregiudicata e anticonformista, certo è che a lei toccò in sorte di esplorare, nei suoi meandri più oscuri, non tanto l’anima della donna, quanto la passione erotica femminile.
Nata a San Pietroburgo nel 1861, trascorse gran parte della sua vita in Germania, nella piccola città universitaria di Gottinga, dove morì nel 1937, in tempo per osservare da vicino la catastrofe. Poco tempo dopo la sua scomparsa, gli agenti della Gestapo ne confiscarono la biblioteca. Ai loro occhi quella specie di strega aveva più di una colpa: soprattutto si era occupata di psicoanalisi, la «scienza ebraica» per eccellenza. Non l’aveva forse escogitata Sigmund Freud?
Pur considerando la scrittura un’attività quasi secondaria, che accompagnava la sua sete di vivere, la sua curiosità intellettuale, il fervore con cui si abbandonava ai rapporti umani, Lou Salomè ha lasciato venti libri e oltre cento saggi, articoli, recensioni. Potrebbe essere definita una scrittrice, se non fosse che ciò che ne contraddistingue il lascito sono proprio gli scritti di stampo psicoanalitico, in cui le esperienze biografiche si coniugano con una introspezione originale. Con il titolo La materia erotica . Scritti di psicoanalisi, la casa editrice Mimesis ha pubblicato di recente una raccolta, curata da Jutta Prasse. L’arco di tempo va dal 1900, data d’uscita del primo saggio Riflessioni sul problema dell’amore, al 1921, anno a cui risale Il narcisismo come doppio orientamento, dove non è difficile scorgere le tracce del dialogo serrato con Freud.
Perché quell’interesse proprio per la scuola di Freud e non, ad esempio, per l’indirizzo rappresentato da Gustav Jung? La risposta sta nel valore che la psicoanalisi attribuiva alla pulsione sessuale. Lou vedeva così confermata un’idea di cui si era andata convincendo già prima di conoscere personalmente Freud a Weimar, nel 1911, nel Congresso della Società psicoanalitica Internazionale. Quell’incontro fu per lei decisivo perché le fornì i mezzi per sbrogliare l’intrigo della materia erotica che la teneva avvinghiata sin dalla giovinezza.
La forza misteriosa dell’amore era sconvolgente, inebriante, ma anche demoniaca e distruttiva. Affine alla creazione artistica del genio, poteva innalzare a vette supreme o spingere negli abissi più meschini. Di questo aveva già narrato la grande letteratura ottocentesca immortalando i ritratti di Emma Bovary e Anna Karenina, eroine tragiche le cui storie avrebbero dovuto provare l’impossibilità di conciliare amore sessuale e serenità coniugale. Per Lou era tempo di cercare una terza via, senza rinunciare al rifugio di un compagno, ma senza neppure abdicare alla rigenerazione dell’amore. Il che non voleva dire abbandonarsi ad una facile promiscuità, consegnarsi all’avventura fortuita e banale.
Proprio perché scorgeva nell’amore la forza vitale per eccellenza, scelse di viverlo fino in fondo, con trasporto fisico, ma anche con slancio intellettuale, consapevole della transitorietà di quell’energia che cessava inspiegabilmente, così come nascostamente era sgorgata. Occorreva solo essere pronti e prendere a piene mani la felicità nell’attimo, senza arrovellarsi troppo sul dopo. Pretendere di dare durata a quella passione avrebbe significato essere del tutto irrealistici. Non si può promettere di essere fedeli quando è in gioco l’amore. Di questo aveva discusso a lungo con Nietzsche, che per anni aveva eletto a maestro. Si intuisce perché quella sua irrequieta disinvoltura disorientava i partner, conducendoli talvolta a gesti estremi, in taluni casi teatrali.
Nonostante i conflitti interiori, quello in particolare tra un cuore impulsivo e una volontà imperiosa, Lou superò una dopo l’altra anche le rotture più drammatiche, persuasa della necessità di addentrarsi nel mistero della vita, di esplorarne le vie tortuose, fino ad elevare quella sfera sepolta dell’inconscio alla dignità della coscienza. Quasi in un estenuante esperimento, amava come viveva, viveva come amava. Con spontaneità, ma anche con serietà.
In questa indagine dell’eros, nel suo significato più ampio e profondo, Lou non poteva non votarsi alla vita altrui, perché l’amore è anzitutto il bisogno impellente dell’altro. Si interrogò perciò anche sulla modalità e il valore della fusione, che nell’uomo, in cerca di un’identità rafforzata, rischia di diventare esigenza di possesso, smania di appropriazione, volontà di sottomissione. Questo non avviene nella donna, che — osserva nel saggio Il tipo femmina — sperimenta già sempre l’altro in sé, che è sempre già duale e divisa in sé stessa, laddove «il maschio permane univocamente aggressivo». Forse si può dire che il suo contributo più rilevante alla psicoanalisi sia lo studio sul narcisismo, che è senza dubbio amore di sé, egocentrismo spinto all’estremo, capace di cancellare del tutto l’altro, ma che a ben guardare ha mille sfaccettature spesso trascurate. Il narcisismo può comprendere persino la sottomissione.
Se qualche decennio fa i testi di Lou von Salomé, con le sue osservazioni provocatorie e talvolta parossistiche, hanno avuto un effetto dirompente, scardinando vecchi luoghi comuni e stimolando il pensiero femminista, oggi non possono non essere lette con occhi diversi. Resta, però, l’originalità della sua riflessione e di quel suo modo di considerare il rapporto erotico non come l’eterna inimicizia tra i sessi, bensì come l’incontro imponderabile tra due estraneità. Ed è proprio ciò che spinge all’unione. L’amore, forma intermedia tra l’ipseità del singolo e la fraternizzazione comunitaria dei molti, tra egoismo e altruismo, dischiude dunque una sfera che ciascuno è chiamato a esplorare, ma che in nessun modo può essere sottovalutata, ritenuta inferiore, cancellata nell’esistenza umana.

il manifesto 27.1.19
La sottocultura dell’odio è ancora fertile
Giorno della memoria. Il ventre della sottocultura dell’odio è ancora fertilissimo in ogni parte del mondo, lo si capisce guardando la semina di morte degli emigranti e, persino uno Stato che si definisce ebraico, ha potuto varare una legge razziale come la legge dello stato nazione che discrimina i palestinesi non solo dei territori occupati ma anche quelli di passaporto israeliano
di Moni Ovadia


Il giorno della memoria è diventato con il procedere degli anni sempre di più un topos della cultura celebrativa del mondo occidentale e, a misura che i testimoni diretti dello sterminio ci lasciano per ragioni anagrafiche, la responsabilità delle nuove generazioni si configura come una sfida a tenere fermo e adamantino il senso autentico di quella memoria. Il rischio che incombe sul futuro si presenta con molteplici aspetti fra i quali: la retorica, la falsa coscienza, il negazionismo, la banalizzazione, la ridondanza, l’uso strumentale, la sacralizzazione. Primo Levi, pose al più celebre e diffuso volume della sua opera di testimonianza e di riflessione sul genocidio e sul sistema concentrazionario della morte, il titolo «Se questo è un uomo».
Ecco, il più atroce crimine della storia è stato commesso da uomini contro uomini. È giusto indagare, conoscere, comprendere e trasmettere il sapere delle diverse modalità e specificità delle ragioni con cui lo sterminio fu preparato e perpetrato. Ma è imprescindibile sapere che si trattò della distruzione di esseri umani, dell’annichilimento della loro dignità e della loro integrità.
La memoria di quell’orrore deve entrare a fare parte del delle più intime fibre della primissima formazione di ogni essere umano, nell’unica forma che possa garantire il non ripetersi della sottocultura dell’odio che fu il ventre gravido che generò la peste dello sterminio di massa e del genocidio, la consapevolezza culturale, interiore e psichica dell’universalità dell’essere umano, il cui statuto di titolarità è contenuto nella Carta Universale dei Diritti dell’Uomo, a partire dal primo articolo: «tutti gli uomini nascono liberi ed eguali pari in dignità e diritti».
Ma noi siamo lontani anni luce da un simile livello di coscienza, anzi siamo pesantemente regrediti riguardo ai principi fondativi delle grandi Carte dei Diritti, in particolare della nostra straordinaria Costituzione. Questa legge delle leggi, che definisce il carattere nazionale della nostra repubblica e su cui tutti i governi giurano, è costitutivamente antifascista senza se e senza ma.
Ma in questi anni abbiamo visto crescere il revanscismo nostalgico o neofascista, le nostre televisioni si sono riempite di pseudo revisionisti miranti a riabilitare i peggiori criminali fascisti, a partire dal peggiore e più vile di essi, Mussolini. I conservatori di questo Paese hanno espunto lo studio della Costituzione dalle scuole superiori, invece di estenderla anche alle medie, alle elementari e persino alle materne. Le cosiddette sinistre riformiste hanno lasciato fare. Molti gazzettieri si sono baloccati con il mito fradicio e nocivo degli italiani brava gente, che oggi si ritrova sotto il nuovo e patetico maquillage «Gli italiani non sono razzisti» o sotto quello ridicolo «io non sono razzista, ma…».
Sia chiaro, in Italia ci furono ai tempi del fascismo tante brave persone e anche oggi milioni di italiani sono magnifiche persone generose, ma allora come adesso lo erano perché brave persone, non perché italiani. I fascisti italiani perpetrarono un genocidio in Cirenaica, uno sterminio di massa in Etiopia, 135.000 civili sterminati in due giorni con l’iprite e devastarono con massacri, pulizie etniche, campi di concetramento in cui si facevano morire civili di fame e malattie, le terre della Iugoslavia.
Un popolo di brava gente non avrebbe permesso di cacciare bambini dalle scuole per poi destinarli allo sterminio solo per la colpa di essere nati e si sarebbe comportato come i bulgari e i danesi che salvarono tutti i loro ebrei opponendosi ai criminali nazisti. Ecco il grande nemico di una memoria che può edificare un futuro di giustizia sociale e uguaglianza, la retorica propagandistica e auto assolutoria che porta alla vile indifferenza di massa.
Il ventre della sottocultura dell’odio è ancora fertilissimo in ogni parte del mondo, lo si capisce guardando la semina di morte degli emigranti e, persino uno Stato che si definisce ebraico, ha potuto varare una legge razziale come la legge dello stato nazione che discrimina i palestinesi non solo dei territori occupati ma anche quelli di passaporto israeliano. Non basta mettersi uno zucchetto in testa una volta all’anno per ottenere il certificato di buona condotta.

il manifesto 27.1.19
La crisi aperta della memoria
Antisemitismo. Questo è il paese della rimozione materiale, come dimostrano gli innumerevoli episodi di cronaca e un «sentito» trasversale che comprende le curve degli stadi, le affermazioni sui Savi di Sion e l'asporto delle pietre d'inciampo. È indispensabile la pratica e l’esercizio reale dei diritti
di Davide Conti


La Giornata della Memoria al tempo della crisi si rivela uno specchio che proietta un’immagine impietosa sulla dimensione del nostro presente e la distonia intercorrente tra la retorica celebrativa-istituzionale e «l’impatto del reale» rappresenta in modo quasi implacabile una verifica storica della condotta delle generazioni contemporanee rispetto all’eredità del passato.
LA RIEMERSIONE manifesta e rivendicata dell’antisemitismo, segnalata dagli innumerevoli episodi di cronaca e da un «sentito» trasversale che comprende le curve degli stadi e le affermazioni di senatori sui Savi di Sion, ha trovato una pubblica e diretta riconnessione con la Shoah nella vicenda simbolica delle pietre d’inciampo divelte dalle strade della capitale d’Italia.
Una rimozione valoriale espressa attraverso una rimozione materiale.
Nel Paese, poi, pare normale che gruppi neofascisti aggrediscano e minaccino giornalisti «rei» di documentare non solo le loro «imprese» ma anche quella intrinseca contraddizione già espressa in modo chiaro da Giorgio Almirante in un congresso del Msi del 1956: «l’equivoco, cari camerati – ebbe a dire l’ex segretario di redazione de La Difesa della Razza – è uno e si chiama essere fascisti in democrazia». A lui il consiglio comunale di Roma, città appena insignita della medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza dal presidente della Repubblica Sergio Matteralla, ha rischiato di dedicare una strada appena pochi mesi addietro.
NEL ROVESCIAMENTO del senso della storia e del suo significato si colloca una mozione della Commissione cultura della Camera, presentata dall’estrema destra parlamentare e approvata all’unanimità il 22 gennaio scorso, con cui si vorrebbe vietare all’Associazione Partigiani d’Italia di tenere incontri nelle scuole, nell’ambito di un progetto formativo del Comune di Roma, sul tema delle foibe e dei rapporti tra Italia e Jugoslavia nella seconda guerra mondiale.
Il Parlamento che i partigiani hanno riaperto nel nostro paese con la lotta di Liberazione dopo vent’anni di dittatura sostiene che questi non possono parlare.
Il giorno dopo, forti dell’input istituzionale, gruppi neofascisti hanno affisso, davanti ad alcune scuole, manifesti e striscioni di attacchi e insulti all’Anpi minacciando di impedire ai partigiani di intervenire nelle scuole pubbliche.
LA DIVARICAZIONE tra retorica della memoria e indirizzi governativi si ripropone con ancora più evidenza sulla questione dei popoli migranti, attorno alla quale non solo ci si trova di fronte a misure di sgombero e «trasferimento» di esseri umani (come a Castelnuovo di Porto) ma alla costruzione di leggi e normative ad hoc, che normano pratiche in evidente conflitto non solo con i diritti umani ma con il portato vincolante della Costituzione repubblicana e della legalità antifascista. Una legalità non formale ma sostanziale, come il tratto stesso della nostra Carta prevede in tema di accoglienza, di diritto di asilo e di esercizio del potere da parte dei rappresentanti del popolo.
La Giornata della Memoria in Italia, i cui eventi in programma erano stati presentati ufficialmente dal sottosegretario leghista Giorgetti, cade in un contesto storico in cui da un lato il Tribunale dei ministri di Catania chiede l’autorizzazione a procedere contro il ministro dell’Interno per sequestro di persona e abuso di potere in relazione al caso della nave «Diciotti» e dall’altro, lo stesso responsabile del Viminale afferma di non aver minima intenzione di «cambiare di un centimetro» la sua posizione.
IN QUESTO QUADRO, a poco o nulla servono le retoriche enunciative del «mai più». È invece indispensabile la pratica e l’esercizio reale dei diritti dentro quelle piaghe aperte, dalla crisi del modello liberista, nella società e nelle sue classi sociali più deboli ed esposte.
È responsabilità di tutti fare della Giornata della Memoria un elemento fondamentale di promozione dell’idea antifascista dello Stato, della società e dei rapporti sociali. Dell’idea antifascista come tratto storico dell’identità europea in un momento in cui la discriminazione ed il razzismo riemergono come tratti d’insieme delle destre estreme continentali.

Il Fatto 27.1.19
Come il governo ricorda la Shoah
di Furio Colombo


La Shoah, persecuzione e tentativo di sterminio di tutti i cittadini ebrei di Italia, Germania e di tutta Europa, si può celebrare con un bellissimo discorso alla Scala di Liliana Segre, con un ritrovarsi intorno al presidente della Repubblica, con un convegno nella “Sala dei Gruppi” a Montecitorio con la Comunità ebrea romana. Oppure con il riunirsi dei giornalisti sotto minaccia fascista alla Casa della Cultura ebraica, nel Ghetto di Roma. Ma non tutti sono all’altezza. Per esempio il Governo.
Qui l’attenzione è tutta puntata sulla nave Sea Watch ferma per ordine di Salvini in un mare gelato e tempestoso a un miglio dalla costa italiana, nonostante abbia a bordo quarantasette naufraghi salvati, tra cui alcune donne e otto bambini. Spiega con ragionevolezza il ministro del Mare Salvini, che la nave non può entrare in un porto italiano perché i porti italiani sono chiusi.
Ma il vero motivo, ha detto il ministro delle Infrastrutture Toninelli (anche lui fuori delle sue competenze), è che questi naufraghi spettano ai libici, e dunque la Ong che ha salvato avrebbe dovuto consegnare il carico umano ai carcerieri per ritornare in prigione. Il vicepresidente del Consiglio Di Maio ha subito capito, e ha convocato a Palazzo Chigi l’ambasciatore olandese. C’entra, perché la Sea Watch, oltre a essere una nave Ong, dunque manovrata da personaggi loschi e un po’ ebrei, che con il traffico dei salvati fanno un sacco di soldi, batte bandiera olandese.
La vicenda che ho appena narrato si svolge alla vigilia del Giorno della Memoria, ma questo fatto (e le incredibili somiglianze fra quello che i tre del governo stanno facendo e quello che accadeva ai cittadini italiani ebrei, a partire dall’approvazione delle leggi razziali italiane) preoccupa poco i nostri, data la scarsa propensione alla storia e la evidente assenza di memoria.
Dunque dobbiamo lasciare questo terreno per seguirne un altro.
Le tre persone indicate come “il governo” appaiono divise su molto, a volte su tutto, come Conte (detto “il presidente del Consiglio”) ha spiegato l’altra sera alla Merkel, (si vede in un filmino ben interpretato). E spesso hanno problemi con se stessi, se si pensa che lo stesso cautissimo “presidente” Conte se ne è andato (di sua iniziativa?) a Bruxelles per esibirsi in una furente scenata contro l’Europa. Ma c’è uno straordinario attacca-tutto che di colpo incolla e tiene insieme ogni pezzo, umano o ideale, che si dovesse rompere nel contratto.
Bastano pochi africani in arrivo per far perdere la testa a chi ci governa sotto l’egida della Lega. Ora che di africani ne arrivano sempre meno, è stata inventata la deportazione. E di nuovo non li preoccupa la estrema somiglianza con il modo in cui la Shoah è cominciata. I profughi, i salvati dal mare, anche chi ha meriti e permessi e documenti di accettazione, anche cittadini modello onorati dai sindaci, vengono spinti su autobus che ci fanno vedere sempre alla partenza, mai in arrivo.
Gli uomini del ministro del Mare agiscono subito, dovunque si sospetta che le famiglie stiano bene.
I Toninelli, i Di Maio, i Salvini sono al riparo della Shoah perché non sanno niente di questa cosa detta la Storia, e costruiscono sul non sapere la loro forza. Conta anche il tipo di reputazione conquistata in pochi mesi. Ora che si sa che Di Maio non ha precedenti scolastici, che Toninelli fa ridere (il ponte di Genova ha rovinato la sua carriera di uomo irresistibilmente sbagliato), ora che Salvini è (da solo) i quattro moschettieri in un unico omone extralarge, con il motto aggiornato “tutti per me”, possono iniziare la gara al grande peggio.
C’è chi vuole che il detenuto marcisca in prigione, chi convoca l’ambasciatore olandese, chi dice che non gli frega niente se sulla nave in tempesta ci sono bambini, lui sostiene che hanno tutti 17 anni.
Toninelli, da bravo, ripete tutto. Lo può fare perché quando i torpedoni stipati di deportati cacciati da Castelnuovo di Porto, con tutte le valigie ancora per terra, si mettono in moto, solo una giovane donna italiana si mette davanti al bus, impedendo per ore la partenza. Momento difficile per la polizia. Rossella Moroni è deputata (Leu) alla Camera. Sapeva che i deportati hanno un indirizzo di provenienza, ma nessun luogo di arrivo tranne la strada. I parlamentari italiani sono mille. Moroni era sola. Nasce di qui la grande forza dei nostri eroi.

La Stampa 27.1.19
Studiare per non dimenticare
di Harry D. Wall


L’ignoranza sull’Olocausto sta crescendo, in particolare tra i giovani. Un recente sondaggio della Cnn in Europa ha rivelato che circa un terzo degli intervistati europei in 12 Paesi ha dichiarato di sapere «solo qualcosa» a proposito dell’Olocausto. In Francia, quasi il 20% dei giovani tra i 18 e i 34 anni, ha affermato di non averne mai sentito parlare. E negli Stati Uniti un sondaggio fatto all’inizio di quest’anno ha mostrato che il 66% dei millennial non aveva alcuna conoscenza di Auschwitz.
Nel loro complesso questi studi mostrano un’immagine inquietante, con il passare degli anni lacune sempre più ampie si aprono nella conoscenza e nella comprensione dell’Olocausto.
Non è preoccupante solo il fatto che l’Olocausto stia svanendo dalla memoria. Il problema è anche che le lezioni da trarre dal genocidio nazista di sei milioni di ebrei non saranno adoperate per affrontare le sfide contemporanee poste alla civiltà. Non si può ignorare la correlazione tra l’aumento dell’antisemitismo e la diminuita consapevolezza nei confronti dell’Olocausto. Nel 2017 l’Fbi ha segnalato un picco del 37% nei crimini di odio contro gli ebrei. L’attacco alla sinagoga di Pittsburgh, con l’assassinio di 11 fedeli, è stato il peggior episodio di violenza contro gli ebrei nella storia degli Stati Uniti. Ma il pericolo dell’estremismo di destra e delle teorie cospirative antisemite dei neo-nazisti sono in circolazione ormai da decenni. In Europa, negli ultimi anni c’è stato un drammatico aumento dell’antisemitismo. Un sondaggio commissionato dall’Ue nel 2017 ha rilevato che quasi il 30% degli ebrei europei ha subito molestie. Nella stessa indagine più della metà degli intervistati in Germania ha riferito di essere stata vittima di episodi di antisemitismo. Non c’è quasi una sinagoga attiva in Europa che non sia presidiata dalla polizia. Di fronte all’aumento dell’antisemitismo, c’è un’impellente necessità di insegnare l’Olocausto nelle scuole negli Stati Uniti e in Europa. Ma quest’opera di divulgazione ha uno scopo più ampio. Può fornire un contesto storico per comprendere il pericolo sociale e mettere in guardia contro l’insorgere di atrocità di massa. Il preludio dell’Olocausto - disumanizzazione, estremismo razziale e creazione di un capro espiatorio - ha accompagnato la violenza di massa o le deportazioni di altri popoli in tutto il mondo.
L’Olocausto è iniziato con le parole, con gli stereotipi razziali e la demonizzazione. Riducendo le pressioni sociali ed economiche a risposte semplicistiche, usando come capro espiatorio un segmento della popolazione, gli ebrei, per qualsiasi problema nazionale o sociale. Non è stata la prima volta nella storia che gli ebrei sono stati individuati per essere colpiti e attaccati. La denigrazione del giudaismo va avanti da due millenni.
I fascisti, i razzisti e gli estremisti contemporanei usano tattiche simili contro altre minoranze. Intere istituzioni - giudiziarie, legislative, della comunicazione - sono state sovvertite da autocrati e dittatori, alcuni dei quali, come Hitler, hanno preso il potere grazie a elezioni democratiche. Studiare l’Olocausto può fornire una prospettiva su come intere popolazioni possano essere manipolate e bullizzate dai demagoghi, e capire la loro volontà di soccombere al ricatto dell’odio e della paura. Insegna a riconoscere il pregiudizio e ad affrontare il fanatismo via via che fa presa sui giovani. Fornisce inoltre informazioni su coloro che si oppongono al potere della folla, come fecero persone coraggiose nell’Europa conquistata dai nazisti, molte rischiando la vita per salvare gli ebrei. In breve, l’informazione sull’Olocausto esamina le motivazioni e il comportamento di perpetuatori, collaboratori, guardiani, dimostranti e soccorritori. Insegnata correttamente, la storia dell’Olocausto ha la capacità non solo di informare insegnanti e studenti sulle iniquità del passato, ma anche di rispondere a una serie di comportamenti intollerabili - dal bullismo al fanatismo alla pulizia etnica e al genocidio.
L’ascesa dei demagoghi e dei movimenti estremisti richiede un approccio più vigoroso a livello globale da parte della società civile. Un’opera mirata di informazione sull’Olocausto può servire come monito, come segnale per agire contro i pericoli della demonizzazione e dell’incitamento, per proteggere i diritti umani e rafforzare i valori democratici fondamentali.
Diversi Stati degli Usa, tra cui la California, New York e l’Illinois, hanno istituito corsi obbligatori sull’Olocausto. In Europa: Germania, Regno Unito, Austria, Francia e Paesi Bassi sono tra i pochi Paesi a richiedere che lo studio dell’Olocausto rientri tra le materie scolastiche. Troppo spesso, tuttavia, questo è visto come un obbligo curriculare, inserito in un piano di studi sulla Seconda guerra mondiale o la storia europea moderna. Le Nazioni Unite hanno proclamato il 27 gennaio, data della liberazione di Auschwitz, giorno della commemorazione annuale dell’Olocausto. Trentuno nazioni fanno parte della International Holocaust Remembrance Alliance, fondata nel 1998, che incoraggia l’istruzione e la ricerca. Per quanto questo sia molto, ancora di più deve essere fatto, come hanno dimostrato i sondaggi. L’educazione, compresi gli studi sull’Olocausto, è solo uno dei metodi più importanti per le società per affrontare il diffondersi dell’estremismo, del pregiudizio e dell’odio. È essenziale anche una leadership decisa, a tutti i livelli - pubblico, società civile, media e altri settori.
La democrazia è fragile, i diritti umani possono essere facilmente indeboliti o demoliti. Quello che è successo agli ebrei nella Germania nazista è una delle peggiori atrocità della storia. Non è stata l’ultima, come testimoniano la Serbia, il Ruanda e ora il Myanmar. Se non impariamo le lezioni del passato, nessuna società o Paese sarà al sicuro dai demoni che si nascondono dentro e fuori i suoi confini.
Traduzione di Carla Reschia

Corriere 27.1.19
«Da ventidue anni poso pietre d’inciampo per ricordare la Shoah»
dal nostro corrispondente Paolo Valentino
L’artista tedesco Demnig: ne ho realizzate 71mila


BERLINO Gunter Demnig dedicherà all’Italia l’intera Giornata della Memoria e quelle immediatamente successive. Oggi sarà a Brescia e Lecco per posare sul selciato stradale nuove pietre d’inciampo, ognuna con inciso il nome di una vittima del nazismo. Lunedì a Chioggia, Ronchi, Superga del Lago e Gorizia. Martedì a Trieste. L’artista tedesco continua il grandioso progetto iniziato nel 1996 e diventato ormai parte integrante della sua vita, quasi un lavoro a tempo pieno in nome del ricordo e del risarcimento morale.
A 71 anni, Demnig ha un calendario affollatissimo, almeno 200 giorni l’anno è in giro per l’Europa, dove incontra studenti, amministratori locali, parenti delle vittime per concordare nuove cerimonie di posa. Le sue pietre, coperte da una lamina d’ottone, sono richieste in tutti i Paesi del Continente e nonostante lui continui a incastonarle personalmente, da qualche anno un team lo affianca nell’impresa.
Cos’ha imparato in questi 22 anni, da quando ha iniziato a disseminare pietre d’inciampo per le città d’Europa?
«Ho imparato che un nome è tutto quello che ci resta per ricordare. È quasi incredibile che dopo tutto questo tempo e quasi 71 mila pietre, ogni volta che ne mettiamo una è come la prima volta, la stessa commozione, lo stesso smarrimento per come tutto questo sia potuto accadere».
Ha incastonato le «formelle della memoria» in 24 Paesi. È stato il benvenuto sempre e dappertutto?
«Naturalmente no. Ma ho avuto in tutto tre minacce di morte, in fondo poche in vent’anni. Posso capire che non a tutti piaccia l’iniziativa. A molti per la semplice ragione che le pietre di fronte a casa loro ricordano a chi è appartenuta prima. Ma questa è la Storia, tedesca ed europea. L’idea originaria era che ovunque in Germania e in Europa la Wehrmacht tedesca e le SS abbiano ucciso o deportato persone, ebrei, sinti, rom, disabili, attivisti politici, omosessuali, lì volevo posare un certo numero di simboliche pietre del ricordo, ognuna con un nome. Il lavoro più lungo è stato quello che viene prima, la ricerca delle storie personali. Oggi è più facile, perché i familiari delle vittime vengono a raccontarcele da ogni parte d’Europa e del mondo: una famiglia ebraica è venuta dalla Tasmania fino a Colonia. Ci sono famiglie i cui membri si incontrano al momento della posa provenienti da 5 Paesi e tre continenti e non si sono mai visti prima. All’inizio pensavo che sarebbe stato già straordinario se fossi arrivato a mille nomi, mille storie da tramandare. È diventata l’impresa di una vita».
Ne è soddisfatto?
«Per la natura di questo progetto è difficile dire che sono soddisfatto, non c’è nulla di cui gioire: 71 mila pietre sono 71 mila di troppo».
Parlando delle critiche, una ricorrente è che le pietre d’inciampo siano una forma impropria per ricordare, perché in tal modo le vittime vengono calpestate ancora una volta: a Monaco per esempio le hanno rifiutate preferendo stele e targhe murarie.
«È un argomento falso, chi lo usa farebbe prima ad ammettere che non le vuole. Nelle chiese cattoliche, dove una volta venivano seppellite le persone, ancora oggi si cammina sulle tombe ed è un modo di onorare quei defunti. Quanto ai nazisti, non si sono accontentati di calpestare le loro vittime ma hanno messo a punto un programma mirato di morte e sterminio. E comunque chi cammina sulle pietre d’ottone le rende più lucide, rendendo più chiaro il ricordo di chi venne assassinato o deportato».
L’antisemitismo è in crescita in Germania, come dicono preoccupati molti leder della comunità ebraica?
«Forse è in aumento. Ma non deve impaurirci. Occorre vigilare e stare attenti, anche all’uso subdolo di un certo vocabolario che rimanda ai nazisti. Quando sento alcuni personaggi di AfD affermare che il nazismo è stato una “cacca d’uccello” sulla grande storia della Germania, allora bisogna dire: ora basta».
Oggi è il Giorno della Memoria, come definirebbe il suo contributo?
«Cerco di far rivivere i nomi. Lo dice il Talmud: una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome».

Repubblica 27.1.19
Lannutti e i Protocolli dei Savi di Sion
L’incredibile silenzio m5s
di Roberto Perotti


Roberto Perotti, economista, è professore ordinario all’università Bocconi Dal 1991 al 2001 ha insegnato alla Columbia University di New York Nel 2015 è stato consigliere economico del presidente del Consiglio. Il suo ultimo libro è "Falso! Quanto costano davvero le promesse dei politici" (Feltrinelli, 2018)

Tutte le crisi profonde generano la caccia al colpevole, e c’è sempre qualche persona poco intelligente, male informata, arrabbiata con il mondo, e in cerca di facile notorietà che tira al più facile dei bersagli, gli ebrei. Negli anni Novanta del diciannovesimo secolo l’agricoltura americana era in crisi profonda per il declino dei prezzi. Negli stati agricoli dell’ovest si diffuse un movimento di protesta, che alla fine si coagulò nel Partito del Popolo ( da cui il termine "populist"), con un discreto successo elettorale. Alcuni dei temi di quella protesta erano esattamente quelli di oggi: le banche, Wall Street, e gli ebrei. Esattamente 100 anni dopo, nell’agosto del 1994, il nostro ministro del Lavoro Clemente Mastella accusò la " comunità" ebraica di Wall Street di avere provocato la crisi della lira. Ora Lannutti retwitta l’accusa ai Rotschild di controllare il Sistema Bancario Internazionale ( tutto maiuscolo, chissà perché) allo scopo di distruggere la nostra civiltà.
Mastella e Lannutti negano di essere antisemiti, e in ogni caso una definizione univoca di antisemitismo non esiste; ma certamente sono drammaticamente incompetenti. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il sistema finanziario sa che i Rotschild, grande potenza nel diciannovesimo secolo, oggi contano come il due di picche; e che, date le grandezze, gli strumenti finanziari, e le dimensioni delle istituzioni finanziarie in gioco, nessuna " lobby", ebraica o no, può dirigere il sistema finanziario internazionale.
Ma è sbagliato combattere l’ignoranza e l’intolleranza verbale nelle aule dei tribunali. Oggi sappiamo che il Grande Balzo in Avanti voluto da Mao in Cina provocò, tra il 1958 e il 1962, da 30 a 45 milioni di morti. La ricerca negli archivi del partito comunista cinese ha mostrato che almeno 2,5 milioni furono uccisi per torture o esecuzione; milioni di altri morirono perché scientemente privati di cibo, oppure perché malati o anziani e quindi non in grado di lavorare e accedere alle razioni alimentari. Eppure alcune delle maggiori case editrici italiane hanno pubblicato libri che ignorano, negano o minimizzano questi avvenimenti, e i loro autori sono o sono stati in cattedra nelle nostre università. Nessuno purtroppo se ne scandalizza, e a nessuno verrebbe in mente di denunciarli.
La cosa più allarmante della vicenda Lannutti è invece ciò che ci dice dell’organizzazione interna del M5S. I Protocolli dei Savi di Sion, citati come prova della bramosia di conquista della lobby ebraica, sono stati smascherati da tantissimi storici come un falso raffazzonato. Certo, anche tutti questi storici potrebbero essere stati pagati dalla lobby ebraica, ma c’è un modo più semplice per concludere che i Protocolli sono un falso: leggerli. Essi sono così estremi, così crudi, così ingenui nella loro violenza apocalittica contro i non ebrei, così pieni di luoghi comuni infantili, che nessun propagandista nazista avrebbe potuto immaginare di meglio per screditare l’avversario. Sono una caricatura, non un documento.
Non si poteva pretendere tanto da leader politici, perché non risulta che Grillo o la Casaleggio Associati abbiano emesso l’ordine di leggere i Protocolli. Ma è sorprendente che in molti, anche tra i politici e giornali avversari, abbiano salutato le parole di Di Maio come una " ferma presa di distanze" da Lannutti, quando in realtà sono poche e fredde parole di circostanza, il minimo sindacale per poter continuare a tenere i piedi in due scarpe.
Ma oltre ai leader ci sono anche 330 fra deputati e senatori cinquestelle. In un Paese normale 320 di loro sarebbero insorti contro Lannutti, se non altro per non essere accomunati alla sua evidente e imbarazzante pochezza intellettuale; nella situazione italiana attuale ci si poteva aspettare qualche decina di dissociazioni. Nessun parlamentare si è fatto sentire. Non posso pensare che il motivo sia che nessuno ha provato imbarazzo o malessere all’uscita di Lannutti.
Tutti i movimenti estremisti e autoritari della storia passano attraverso due fasi. In una prima fase di ingenuo entusiasmo essi raccolgono, oltre agli esagitati, anche molti idealisti moderati in buona fede. La seconda fase è la paura: paura di vedersi negato l’accesso ai capi, dell’ostracismo dei colleghi, di perdere lo scranno su cui ci si siede, con tutti i benefici anche pecuniari connessi. Nelle sue forme estreme, è la paura che ha fatto accettare a tanti tranquilli padri di famiglia gli orrori del nazismo, e a tanti bolscevichi della prima ora, idealisti e disinteressati, le purghe e i gulag di Stalin. Ovviamente siamo ancora lontani da tutto questo, ma lo spettacolo di 330 pecore ci deve far riflettere, e dovrebbe far riflettere chi tra di loro conserva un briciolo di dignità.

il manifesto 27.1.19
Gilles Deleuze
La logica dell’inconscio indifferente al tempo lineare
Un saggio di Alessandra Campo per Mimesis
di Fabrizio Palombi


Partendo dalla filologia psicoanalitica per arrivare, attraverso l’ambito della clinica, alla speculazione metafisica, Alessandra Campo sintetizza nel suo saggio titolato Tardività Freud dopo Lacan (Mimesis, pp. 440, € 28,00) l’ambizioso tentativo di tradurre in lingua italiana un termine chiave del lessico di Freud: Nachträglichkeit, parola che esprime un concetto al centro di annose discussioni sulla struttura temporale dell’inconscio.
Nel suo passaggio dalla lingua madre della psicoanalisi a quella medico-scientifica della Standard Edition sino alla sua rielaborazione transalpina dominata da Lacan e Derrida, il libro indaga la storia delle trasformazioni subite dal termine freudiano, la cui interpretazione filosofica rimanda, appunto, alla controversa questione della Zeitlosigkeit, quella intemporalità dell’inconscio, peraltro mai elaborata da Freud in modo coerente.
Seguendo l’impostazione teorica del Canone minore (Feltrinelli, 2017) di Rocco Ronchi, filosofo che firma anche la chiara ed efficace prefazione di Tardività, Alessandra Campo prova a esaminare l’evoluzione della Nachträglichkeit negli scritti di Freud nel corso del ventennio che ha inizio con una lettera del 1897, indirizzata a Fliess, per concludersi con la sua ultima occorrenza del 1917. Uno studio che consente all’autrice di familiarizzarsi con testi considerati secondari e di dipingere il ritratto di un Freud «minore», «troppo spesso (…) dimenticato, finanche da Lacan», che – per parte sua – avrebbe lungamente costretto l’importante concetto freudiano nella gabbia del suo «tempo logico».
Solo nell’ultima fase della speculazione lacaniana, dominata dal registro del Reale, il concetto sarebbe stato ripreso dallo psicanalista francese, e valorizzato nella sua specificità teorica. Molte pagine del saggio di Alessandra Campo vengono poi dedicate all’interpretazione di Derrida – uno dei pochi filosofi ad aver scritto specifici studi alla Nachträglichkeit – condizionati tuttavia da una «logica retrospettiva» e dallo sforzo di «far incontrare Freud e Heidegger».
La breve panoramica dell’autrice sull’uso del termine freudiano, giustifica il perché le più autorevoli interpretazioni filosofiche della Nachträglichkeit sarebbero inadeguate a comprenderla. Seguendo «a ritroso» le tracce di una genealogia teorica che parte dalla traduzione francese del termine, ispirata da Lacan, per risalire a quella inglese e, infine, all’originale contesto freudiano, Campo dimostra che il francese après-coup e l’inglese deferred action, abitualmente usati nelle traduzioni, sono ipotecati da interpretazione del tempo di tipo kantiano. Il giudizio si applica, secondo l’autrice, anche alle edizioni italiane di Freud che ricorrono a una sorta di traduzione di secondo grado, ispirata a quella inglese, rappresentata dalla locuzione azione differita. L’opzione proposta è dunque un’altra, e – come vuole il titolo del volume – è costituita dal sostantivo tardività, solitamente riferito, in italiano, a fioriture o vendemmie fuori stagione.
Una scelta, quella dell’autrice, che radicalizza in senso immanentista il «ritorno a Freud», teorizzato da Lacan, per sostenere l’originarietà dell’inconscio rispetto al tempo. La proposta risponde indirettamente alla domanda: l’inconscio sarebbe atemporale perché precede logicamente il tempo?
Altre risposte sarebbero possibili, risposte radicate su un terreno fenomenologico, distante da quello dell’autrice, che deriva piuttosto le sue tesi dal pensiero di Bergson e di Deleuze; ma senza dubbio il suo saggio offre interessanti contributi all’analisi teorica di un fondamentale termine del lessico freudiano.

il manifesto 27.1.19
Edmund Husserl
L’incontro con l’alterità è una esclusiva dello sguardo interno all’esperienza
Filosofia. Un saggio di Roberta De Monticelli su Husserl: "Il dono dei vincoli", per Garzanti
di Silvia Vizzardelli


Il metodo fenomenologico e il suo ideatore, Husserl, sono spettri del dibattito filosofico contemporaneo, persino nominati con un certo pudore, anche da parte di chi è pienamente persuaso della loro fertilità. La fenomenologia si aggira, appunto, come un morto vivente, riesumata per onestà storica, ma perlopiù ritenuta incapace di fioriture concettuali o di adattamenti alle urgenze del mondo in cui viviamo. «Se dovessi riassumere il mio atteggiamento fondamentale nei confronti della fenomenologia, lo farei in questo modo: non ne sento il bisogno»: così scriveva Norberto Bobbio nel 1961 in una lettera indirizzata a Enzo Paci, manifestando il suo disagio nei confronti delle filosofie che «salgono sul piedistallo».
A tenere in pugno le chiavi della sensibilità della nostra epoca sono tendenze che, effettivamente, ben poco hanno in comune con la fenomenologia: da una parte, il radicato sospetto per qualsiasi forma di sistema, ovvero di pensiero organizzato gerarchicamente, di filosofia speculativa; dall’altra, una misteriosa tendenza a evadere dal mondo umano e a tacciare di antropocentrismo indebito qualsiasi filosofia che muova da una analisi dell’esperienza. Gli animali non umani, le piante, gli oggetti ci fornirebbero punti di osservazione più seducenti. Il metodo fenomenologico viene dunque giudicato troppo astratto, incapace di poggiare i piedi per terra, insensibile alle istanze materialistiche e alle esigenze della prassi e, al contempo, altezzosamente arroccato nel mondo della vita umana.
Il recente libro di Roberta de Monticelli, Il dono dei vincoli Per leggere Husserl (Garzanti, pp. 259, euro 15,00) è un invito appassionato a non prendere per vero ciò che generalmente si imputa a Husserl e alle scuole fenomenologiche: astrazione e ritiro nell’osservatorio privilegiato dell’esperienza umana. Il monito husserliano a prendere le mosse dall’esperienza non ha certo il sapore di un ripiego intimistico o psicologistico, né quello di un relativismo storicistico, bensì poggia sulla convinzione che un vero incontro con l’alterità, con il non-costruito, con le strutture di verità, possa darsi solo dall’interno dell’esperienza. Uno sguardo che ambisse a balzare fuori dall’esperienza non incontrerebbe il mondo così com’è, celebrerebbe, al contrario, il trionfo dell’immaginario.
Lo straniero, vale a dire ciò che mostra autonomia e indipendenza e non si lascia addomesticare ponendo dei vincoli alla nostra smania di assimilazione, lo si incontra solo, e non è un paradosso, attraverso uno sguardo di prossimità. Se c’è infatti un luogo in cui il metodo fenomenologico si sente a casa è quello dell’ «intimità clandestina» o dell’ «esclusione intestina», per riprendere espressioni di Derrida, a torto considerato da Roberta De Monticelli fra i maggiori esponenti del relativismo postmoderno.
I capitoli centrali del saggio sono dedicati a sgombrare il campo dagli equivoci che si annidano intorno alla questione dell’ «idealismo» husserliano. La fenomenologia, ci ricorda De Monticelli, non è un idealismo che assimila il mondo alla coscienza che ne abbiamo; né, sul versante opposto, condivide qualcosa col platonismo scolastico che colloca le idee in un orizzonte metafisico. Sono queste le pagine più intense del libro, quelle che si avventurano nell’eidetica o teoria delle essenze, per caratterizzare con precisione il punto in cui Husserl colloca i dati non empirici o apriori materiali in netta rottura con l’empirismo, da una parte, e il kantismo dall’altra.
Pagine intense non solo per l’esattezza teorica, ma anche per lo stile vibrante della scrittura. Meno convincenti, invece, i paragrafi che, nel tentativo di saldare logica ed etica, attribuiscono a Husserl un’anima sostanzialmente orientata dalla ragione pratica, insistendo sui concetti di responsabilità, serietà, paideia, termini ai quali viene data una sfumatura prescrittiva che induce l’autrice a considerare quasi tutta la filosofia post-fenomenologica affetta da scetticismo morale.

Il Fatto 27.1.19
Suore molestate, vietato parlarne
Potere e abusi - Molti malumori per l’appello che chiede alle religiose di denunciare, ma silenziare il problema è sempre più difficile: i casi si moltiplicano, dal Cile all’India, con i problemi maggiori in Kenya
di Lorenzo Prezzi


In attesa della riunione di tutti i presidenti delle conferenze episcopali sul tema degli abusi (Roma 21-24 febbraio) è in movimento il magma sulle violenze contro le suore da parte di preti e di vescovi. Particolarmente in Africa, ma non solo. L’eruzione è prevedibile quando il contesto civile o mediale la favoriranno.
Il 23 novembre è uscito un comunicato dell’Unione internazionale delle superiori generali (UISG): “Chiediamo che ogni donna religiosa che sia stata vittima di abusi denunci quanto accaduto alla superiora della propria congregazione e alle autorità ecclesiali e civili competenti”. Il comunicato, condiviso nella sostanza, non è stato da tutti apprezzato per la tempistica e per non aver scelto canali più interni. Pochi istituti l’hanno rilanciato.
Il sordo borbottio è in atto da anni. “Teologi morali e madri spirituali conoscono purtroppo questa realtà che oggi esplode. Sarebbe grave mettere l’accento unicamente su quanto avviene in Africa, Cile, India, Filippine ecc. Sono testimone di donne più anziane di me che sono state abusate da preti nella loro giovinezza anche qui, nella nostra vecchia Europa. Donne giovani lo sono state più recentemente negli anni ’80 nel pieno sviluppo delle nuove comunità legate a movimenti carismatici o a correnti più tradizionali”. Le parole di suor Geneviève Medevielle, docente onoraria di teologia morale all’Institut catholique di Parigi inquadrano e legano le informazioni già note.
Nel 2016 esce in Italia il volume di Anna Deodato, Vorrei risorgere dalle mie ferite (EDB) in cui si racconta il cammino di riscatto di alcune suore vittime di abusi. A luglio del 2018, dentro un più ampia inchiesta dell’Associated Press si denuncia una violenza a Bologna. In Francia viene pubblicata nel 2017 la testimonianza di un’ex religiosa, Marie-Laure Janssens (Le silence de la Vierge) e l’anno seguente quello di Claire Maximova, ex carmelitana (La tyrannie du silence). Nel luglio 2018 sei religiose cilene denunciano abusi da parte di un prete visitatore. Nello stesso anno, in India una suora missionaria di Gesù denuncia il suo vescovo (monsignor Franco Mulakkal). Un altro vescovo indiano, Prasad Gallela, viene dimesso da Roma per gravi comportamenti economici e morali. Il 30 luglio 2018 la conferenza che rappresenta la gran parte delle suore americane chiede di segnalare gli abusi subiti. L’elenco potrebbe continuare.
Rimane un’attenzione particolare all’Africa dove si moltiplicano le piccole fondazioni diocesane. A metà degli anni ’90 suor Maura O’Donohue, responsabile per la Caritas in ordine alla pandemia Aids, dopo un sondaggio con religiose in 23 paesi, presenta alle istanze romane uno studio di denuncia che non ha seguito. Quattro anni dopo, suor Marie McDonald, porta a Roma un rapporto in cui sottolinea non solo le violenze inferte alle suore dai “predatori”, ma anche quelle successive degli istituti che le abbandonano. I testi vengono pubblicati dal National Catholic Reporter nel marzo 2001. Da Roma parte una lettera ai vescovi africani, ma senza alcun risultato visibile.
Le violenze possono essere immediate e gratuite, ma normalmente nascono all’interno di relazioni di potere e di autorevolezza spirituale e culturale. Una coltre quasi insormontabile di silenzio sia degli autori che delle vittime le ha tenute finora nascoste. Pare che i paesi più coinvolti siano il Congo e il Kenya.
Nel 2002 viene pubblicato un libro di un prete americano, Donald Cozzens, Il sacro silenzio: negazione e crisi nella Chiesa, in cui si riprendono alcune denunce. Più recentemente, suor Mary Lembo, prepara una tesi di dottorato all’istituto di psicologia della Gregoriana affrontando 12 casi di aggressione sessuale e sottolinea il ruolo particolare del prete: “È una figura rispettata e temuta. Le vittime tendono a colpevolizzarsi. Nei casi esaminati è spesso la religiosa che è messa in questione. È stata lei ad attirare sguardi e attenzioni: e spesso è direttamente condannata”.
La Congregazione per la vita consacrata, grazie all’impulso degli attuali dirigenti, è da tempo alla ricerca di una via d’uscita su una materia che coinvolge non solo i religiosi e le religiose, ma anche la Congregazione del clero e quella dei vescovi. È possibile che all’indomani della riunione prevista a fine febbraio qualche decisione venga presa. Non si tratta solo di complessi problemi di maturità psicologica del clero e di relazione fra le diverse responsabilità degli organismi vaticani. Vi sono elementi su cui incidere, sia nell’ambito delle strutture locali, sia in quelle, assai meno condizionabili, delle culture.
La moltiplicazione, negli ultimi decenni, di piccole congregazioni femminili in capo al vescovo fa sì che non vi siano controlli interni adeguati e, alla sua morte, le religiose siano abbandonate a loro stesse. Gli istituti internazionali che hanno maggiori competenze e autonomie finanziarie hanno deciso di non chiedere più alle novizie di ottenere una lettera di presentazione del parroco, ma di chiederla attraverso la religiosa che ha contattato l’interessata. Così si richiede oggi al vescovo che vuole fondare una congregazione un parere obbligatorio (ma non purtroppo vincolante) del Dicastero romano. La spinta verso organismi rappresentativi a livello nazionale dovrebbe meglio garantire gli istituti più fragili e l’insistenza sulle formatrici e la loro qualificazione è diventata generale.
La parte più difficile è modificare le culture e il rapporto fra maschio e femmina in esse. Al sinodo del 2009 (sinodo speciale per l’Africa) era stato suggerito un confronto anche sul celibato dei preti, ma molti vescovi africani si sono duramente opposti. Si sentivano offesi perché gli africani erano considerati meno capaci di ottemperare al celibato degli altri. Una responsabile internazionale delle suore mi raccontava del suo stupore davanti alla piccata reazione di suore di colore rispetto alle denunce sugli abusi. “Voi li chiamate abusi, ma non capite la relazione fra donne e maschi della nostra tradizione culturale”.
Diverso anche l’esercizio dell’autorità. Il prete è spesso considerato come il capo villaggio, con tutti i comportamenti che questo riveste. Non siamo distanti dalla denuncia contro l’Occidente di imporre i suoi riferimenti, con una sorta di nuova colonizzazione interna al cristianesimo. Come se, dopo la democrazia in sede politica e il mercato in economia, si volesse decretare sulla cultura morale. Un passaggio delicato che, fra le agenzie mondiali, solo la Chiesa cattolica è in grado oggi di affrontare, ma il cui esito non sarà né facile né immediato.

Corriere 27.1.19
Ricorrenze A 90 anni dall’accordo
La lunga storia dei Patti Lateranensi
Chiesa e Stato allo stesso tavolo
Quando Pio IX morì, il 7 febbraio 1878 la sua salma al Verano e il corteo venne preso d’assalto da alcuni irriducibili che, al grido di “Al fiume il papa porco!”, volevano gettare il feretro nel Tevere».
di Gian Guido Vecchi


Roma, 24 novembre 1848, notte. L’uomo «vestito di nero, con occhiali neri e cappello da prete» che esce di nascosto da una porticina segreta del Quirinale è Pio IX, l’ultimo papa re. «In carrozza, si diresse verso il Colosseo dove l’attendeva il conte Spaur, il diplomatico bavarese che, assieme al suo collega francese duca d’Harcourt, sollecitava il papa a lasciare Roma per rifugiarsi in una città più sicura, Gaeta, in mezzo ai Borboni del Regno di Napoli. Sulla sua fuga, ci furono anche alcuni antipatici pettegolezzi perché, sulla carrozza del vicario di Cristo, era salita pure la contessa Teresa Giraud, vedova Dodwel e moglie dello stesso Spaur, una donna moralmente un po’ discussa: cherchez la femme!». La grande storia è fatta anche di dettagli, voci, immagini che illuminano le grandi svolte. L’assassinio di Pellegrino Rossi, ministro degli Interni dello stato pontificio accoltellato il 15 novembre 1848 sulle scale del Palazzo della Cancelleria, rappresentò «l’inizio della fine del potere temporale dei papi». I moti popolari e la fuga un po’ grottesca di Giovanni Maria Mastai Ferretti furono le premesse della breve Repubblica romana del 1849, a sua volta il segnale che nulla sarebbe stato come prima.
Il grande merito di Quei Patti benedetti, il libro che Giancarlo Mazzuca ha dedicato all’accordo siglato l’11 febbraio 1929 nel Palazzo del Laterano, è mostrare come l’evento di cui si celebra il novantesimo abbia in realtà una storia che risale, oltre Porta Pia, a 170 anni fa. E raccontarla d’un fiato, quella storia, con la chiarezza e la sintesi del grande giornalista, in poco più di centocinquanta pagine che sarebbero piaciute al suo amico Indro Montanelli. Di cosa si parla, anzitutto. I Patti Lateranensi — sottoscritti dal cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato di Pio XI, e da Benito Mussolini — erano divisi in tre parti: «Il Trattato vero e proprio (che istituiva la Città del Vaticano, una enclave in mezzo a Roma che prevedeva l’extraterritorialità delle basiliche di San Pietro e di San Giovanni in Laterano), il Concordato (che regolava i rapporti tra la Santa Sede e l’Italia), e l’accordo finanziario (che stabiliva un indennizzo a favore della Chiesa in seguito alla rinuncia a qualsiasi rivendicazione sullo Stato Pontificio)». Il cardinale biblista Gianfranco Ravasi, nella postfazione, fa notare come la celebre frase di Gesù riportata da Marco, Matteo e Luca (Tá Káisaros apódote Káisari kai ta Theoú Theó, «rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio») fosse un manifesto di laicità osteggiato nella storia sia dal «fondamentalismo teocratico» sia dal «laicismo» che ne elide la seconda parte, il «date a Dio». Il rapporto tra religione e politica, come ogni accordo tra Chiesa e Stati, è sempre stato una faccenda complessa. Non per nulla c’erano voluti decenni per arrivare a suturare la ferita di Porta Pia. Prima e dopo il 20 settembre 1870, a prevalere è stato il muro contro muro. Quando Pio IX morì, il 7 febbraio 1878, non si tennero funerali solenni «anche per evitare incidenti». La sua salma, racconta Mazzuca, «fu traslata in San Lorenzo al Verano — una delle ultime volontà del pontefice — solo tre anni e mezzo dopo la sua scomparsa, ma il corteo venne ugualmente preso d’assalto da alcuni irriducibili che, al grido di “Al fiume il papa porco!”, volevano gettare il feretro nel Tevere».
Dai moti risorgimentali a Giolitti, dalla prima alla seconda guerra mondiale, il racconto percorre i pontificati di Leone XIII, Pio X, Benedetto XV, Pio XI e Pio XII e l’alternarsi di avvicinamenti e frenate, trattative e gelo, irriducibili e pontieri, successi e disillusioni. Come ha scritto De Felice, ricorda Mazzuca, con i Patti Lateranensi il duce conseguì «il più vero e importante successo della sua carriera politica». Pio XI arrivò a definirlo «un uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare». Di lì a poco iniziò a cambiare idea. Anche le fortune del duce non erano destinate a durare. Dalla «proroga indolore» decisa dalla Costituente alla «revisione» del Concordato nell’84 — con le firme di Bettino Craxi e del cardinale Agostino Casaroli — a durare sono stati i Patti, piuttosto. Quale sarà il loro futuro, il futuro dei rapporti tra Stato e Chiesa? L’autore conclude con il passo di una lettera ricevuta nel 2018 da Papa Francesco: «Nessuno di noi ha la sfera di cristallo per sapere come andranno le cose. Ma è certo che “davanti a noi stanno l’acqua e il fuoco” — come direbbe Siracide 15,16 — e spetta a noi continuamente scegliere “dove tendere la mano”».

Corriere 27.1.19
Gino Strada
«Gli inizi di Emergency? La svolta fu il Costanzo Show
Non chiamatemi pacifista»
di Francesco Battistini


Il chirurgo: nel mondo umanitario c’è molto dilettantismo
E mergency fa 25 anni. Che cosa si regala?
«Un ospedale in Uganda, disegnato gratis da Renzo Piano. Costruito con terra di scavo. Poi andremo a farne uno in Yemen».
Altro bel posto complicato...
«Il peggio è la Somalia. Ci ho provato per dieci anni: con gli Shabaab non si parla. Idem in Cecenia, rien à faire. Tirano su il muro. A un certo punto, devi rassegnarti».
Ma come fa, Gino Strada, a entrare in questi posti?
«Non ho ricette. In Sudan, ci chiese d’intervenire il governo. In Iraq, andammo alla ventura con tre macchine da Milano. Prima di partire si parla con tutte le parti: guardate che non c’entriamo con la vostra guerra... Mai avuto un morto, facendo le corna. Ma la gestione della sicurezza dev’essere precisa».
Come fu la prima riunione, nel 1994?
«A casa mia a Milano, fino a ore tarde. Carlo Garbagnati, una ventina d’amici, non tanti medici (erano scettici). E la mia adorata Teresa, che sarebbe diventata insostituibile. Ci fu una cena al Tempio d’Oro, in viale Monza. Raccogliemmo 12 milioni di lire, ma volevamo cominciare dal genocidio in Ruanda e non bastavano. Ne servivano 250. Io dissi: beh, ragazzi, firmiamo 10 milioni di cambiali a testa... Per fortuna venni invitato da Costanzo e, puf, la tv è questa cosa qui: in un paio di mesi, arrivarono 850 milioni. Gente che mi suonava al campanello di casa, ricordo una busta con dentro duemila lire spillate».
È vero che litigò con la Croce rossa?
«Quella italiana non esiste. Ma della Croce rossa di Ginevra ho gran stima. Avevo girato per loro, dall’Etiopia al Perù. Solo che a un certo punto s’erano disimpegnati dalla chirurgia di guerra. Che è difficile, costosa, rischiosa».
E il nome?
«Lo scelsi io. Era l’aggettivo all’inizio d’Emergency-Life Support for Civilian War Victims. Troppo lungo: l’aggettivo diventò sostantivo».
Settantanove progetti in sette Paesi, 120 dipendenti, 9 milioni di persone curate. Questa nuova sede vicino a Sant’Eustorgio...
«È la chiesa piu antica di Milano, sa che non ho ancora avuto il tempo di visitarla? Nessuno pensava a dimensioni simili. Anni lunghi, faticosi. Siamo cresciuti con la solidarietà della gente. Anche ora che le Ong sono criminalizzate. Quel procuratore di Catania, Zuccaro, ci ha provato e non è uscito niente. Quando ammetterà che era tutta una balla?».
Volevano la tassa sulla bontà per colpire chi s’arricchisce...
«Anche noi avevamo una nave per salvare i migranti, ma costava troppo: 150mila euro al mese. È verosimile che certi meccanismi lascino spazio a comportamenti illegali. Ma non cambi la tassazione delle Ong solo perché tre sono poco chiare: indaghi su quelle tre!».
Vi sentite danneggiati?
«Han creato sfiducia nella gente. Dal 2011 abbiamo raddoppiato il budget, ma i progetti sono tanti. Un ospedale è un debito continuo, ogni anno i ricoveri aumentano del 30%. In Afghanistan, il sistema sanitario siamo noi».
Un caso che non dimentica?
«Un ragazzino, Soran, operato in Iraq. Aveva una gamba amputata da una mina. Qualche anno fa è venuto a trovarmi. Fa l’avvocato».
Il giorno più duro?
«Quando rapirono i nostri in Afghanistan e in Sudan. Anche nel caso Mastrogiacomo rischiai. Mi chiedevo: ha senso mediare? Sì, perché c’era un uomo che rischiava più di me».
Ha lavorato con Christiaan Barnard...
«Elegantissimo, con la sua Mercedes, ma ormai operava poco per l’artrosi alle mani. I miei modelli furono Staudacher e Parenzan».
E la chirurgia di guerra chi gliela insegnò?
«Era un’attività di nicchia. La faceva la Croce rossa. E i militari, che però erano proprio un altro mondo. Nel ’91, guerra del Golfo, i militari chiesero a Ginevra d’andare in Bahrein. Avevano allestito un ospedale da 5mila posti letto. Vuoto. Mandammo 101 chirurghi inglesi. Ma fecero un solo intervento: a un mignolo».
Il mondo umanitario a volte è pura rivalità. In Sierra Leone, i medici olandesi e francesi di Msf nemmeno si parlavano...
«C’è anche molto dilettantismo, favorito dai grandi donatori. In Kurdistan, vidi un palazzo per la posta aerea pagato dall’Ue. Gli aeroplanini dipinti, la scritta Air Mail. Inutile, costava un’enormità. Lo usavano come hotel».
Libia, Palestina... Perché state alla larga?
«I libici sono tosti, chiudemmo perché non arrivavano feriti di guerra, solo delinquenti locali. E ci pigliavano a sassate. Coi palestinesi ci ho provato, un ospedale a Ramallah. Andai dal ministro. Mi disse: “Ma voi avete 5 milioni da spendere? Sa, un posto letto vale 100mila dollari”. Arrivederci... Ho sempre pensato che una parte d’aiuti alla Palestina finisca altrove».
Paesi nel cuore?
«L’Afghanistan. E il Sudan: non ci credeva nessuno che si potesse fare cardiochirurgia in uno Stato canaglia. C’era una rivista di sinistra, Aprile, con un solone della Cooperazione che mi spiegava di che cosa c’era davvero bisogno in Sudan... Perché? Gli africani non hanno bisogno d’essere operati al cuore? La salute non è solo un diritto degli europei. Qui hai la tac e la risonanza magnetica, lì due aspirine e vai? L’eguaglianza dev’essere nei contenuti, non solo nelle idee».
Trattate col dittatore Bashir...
«Se un regime è oppressivo, la gente sta male. E noi ci andiamo. Quelli che noi chiamiamo dittatori, in Africa sono presidenti. E loro come dovrebbero chiamare i nostri “presidenti” Orbàn o Erdogan?».
Quando pecunia olet?
«Quando arriva dal crimine. E chi dona, pretende di decidere chi devi operare e chi no».
Le amicizie d’una vita?
«De André, Eco, Chomsky. Adesso, Renzo Piano. Quando morì Teresa, mi scrisse una lettera splendida. Gli telefonai a Parigi per ringraziarlo. Ci siamo chiamati per quattro anni senza vederci. Amicissimi, ma non sapevo nemmeno che faccia avesse».
Dio?
«Non ne sento alcun bisogno. Penso che il significato delle cose stia nelle cose stesse, non al di fuori o al di sopra. Questo non m’ha precluso l’amicizia con don Gallo, Alex Zanotelli, don Ciotti, a parte qualche bestemmia che ogni tanto mi scappava. Mi piacerebbe incontrare Papa Bergoglio, parlare dell’abolizione della guerra. Una volta era un tema, oggi è dimenticato».
Dicono che lei sia un pacifista utopista...
«Utopista va bene: secoli fa, era utopia abolire la schiavitù. Pacifista, no: lo sono anche i parlamentari che poi votano per le guerre».
Sergio Romano scrisse: Emergency fa del bene, ma non è neutrale.
«Nessuno può essere neutrale. Non puoi esserlo, su un treno in corsa. Come fai a esserlo in Iraq? Però non siamo neanche di sinistra: scegliamo la vita, la giustizia, l’uguaglianza».
Aveva simpatie per Ingroia, per Tsipras...
«Quelle sono cose che ti appiccicano addosso. Certo, trovo Prodi una persona ragionevole, anche se polemizzammo sull’Afghanistan (credo che oggi saremmo più in sintonia). E trovo Salvini razzista. Io poi sono di Sesto San Giovanni e ieri ho firmato una petizione perché apre Casa Pound. Quest’idea imbecille d’una società violenta e rancorosa, che ti spinge a trovare chi sta peggio di te e a dargli la colpa dei tuoi guai. Mai uno di loro che punti il dito su quelli che stanno meglio, eh?».
In Italia, avete 13 progetti.
«Un’Italia sconosciuta. Castel Volturno, Polistena, questi bei posticini. Povertà, degrado, schiavismo, situazioni che non ho mai visto neanche in Sudan. Quando abbiamo aperto a Marghera, pensavamo d’essere nel ricco Nord Est e d’avere solo stranieri. Invece il primo paziente fu uno di Mestre, un bell’uomo. Era stato un campione italiano alle Olimpiadi. Ma poi aveva perso il lavoro e i denti, mangiava male. E non poteva pagarsi una protesi».
Se i grillini l’avessero candidata al Quirinale, come volevano, sarebbe diventato il capo delle Forze armate. Che cosa avrebbe fatto?
«Ritiro dalle missioni all’estero. Smantellamento degli arsenali stranieri in Italia. Riduzione degli armamenti. Ma era una boutade, non ci ho pensato neanche un momento».
L’hanno candidata al Nobel per la pace...
«Accade ogni anno. Ci sono delle regole, il candidato non sa mai chi lo candida. Accettarlo? Mah, l’hanno talmente svilito: Obama l’ebbe per un semplice discorso, Kissinger con tutti i golpe che ha organizzato, l’Ue che tira su muri e nei Balcani fece una guerra tra le più sanguinose del secolo...».
Sua figlia Cecilia tornerà in Emergency?
«Non lo so. Non discutiamo più delle vicende che l’hanno spinta ad andarsene. Ma abbiamo ancora un buon rapporto».
Che padre è stato? Cecilia raccontò una volta che all’asilo le mandava le cartoline dal mondo, da adolescente lei le vietava la discoteca, da adulta ha imparato la sua ironia...
«L’ironia e la discoteca, è vero. Ma non le mandavo solo cartoline dal mondo. C’inventavamo giochi, letture. All’asilo, sono andato anche a fare il buffone».
Si sente stanco?
«Purtroppo ho 70 anni e sono afflitto da una malattia inguaribile, la vecchiaia. Non so come faccia Renzo Piano, 12 ore d’aereo e subito altre otto in cantiere. Forse la vita del chirurgo è molto usurante e ha ragione Woody Allen: non conta l’età, conta il chilometraggio. In alcuni posti ho lasciato la salute. L’anno in Sierra Leone è stato devastante, perché ebola non è diverso dalla guerra: il nemico non lo vedi, ma ogni passo che fai potrebbe essere l’ultimo».
Hanno dato il suo nome a un asteroide, il 248908 Gino Strada...
«Una volta ho fatto i conti sulla superficie: potrebbe venirci fuori un bilocale. Un buon rifugio per il weekend. Però è a otto milioni di anni luce, un po’ lunga: ho ancora troppo da fare, qui».

La Stampa 27.1.19
Sanders pronto a ricandidarsi per la corsa alla Casa Bianca
di Francesco Semprini


Bernie Sanders non molla le sue ambizioni presidenziali e presto, anzi prestissimo, annuncerà la sua discesa in campo per Usa 2020. È quanto emerge dalle rivelazioni fatte da diverse fonti anonime molto vicine al senatore democratico ad alcuni media americani, le quali hanno spiegato come Sanders stia già lavorando alla formazione di un comitato esplorativo per sondare il terreno in vista delle primarie di partito. A motivare il senatore, social-democratico per sua stessa definizione, sono i sondaggi che «lo danno tra i candidati più accreditati fra gli elettori afro-americani e ispanici», spiega una delle fonti che afferma di conoscere molto bene i piani del veterano politico liberal.
Ma c’è di più, perché Sanders avrebbe oggi una marcia in più rispetto al 2016 quando fu costretto alla resa dinanzi a Hillary Clinton pur dando filo da torcere all’ex first lady espressione dell’ala pro-establishment del partito. «Oggi può vantare il primato di essere uno dei politici più popolari di tutto il Paese», spiega un’altra fonte vicina al senatore. Nessuna conferma ufficiale arriva dall’ufficio politico di Sanders, anche se Josh Orton, suo consigliere di vecchia data, spiega su Twitter che «nessuna decisione è imminente». Un eccesso di cautela secondo una terza fonte vicina al senatore la quale rivela come siano già in corso i lavori per la formazione del «comitato esplorativo». È questo infatti il primo atto nella discesa in campo di un candidato in vista di elezioni. Così come lo staff di Sanders avrebbe iniziato già i colloqui per reclutare nuovi collaboratori da schierare in campagna elettorale. Del resto la partecipazione del senatore alle Presidenziali era già data come scontata da molti osservatori, nonostante i suoi 77 anni.
Il riscatto
Sanders è ancora oggi più battagliero che mai, pronto a cercare il riscatto dopo la controversa uscita di scena da Usa 2016 a vantaggio della Clinton. Una sconfitta contestata, specie per le pressioni che la candidata avrebbe fatto sui vertici di partito a causa della scomoda e calzante concorrenza del rivale social-democratico forte del sostegno di tanti giovani e dell’ala più liberal del partito. La discesa in campo di Sanders farebbe seguito alla già affollata passerella di politici democratici pronti a sfidare Donald Trump, da Julian Castro a Kamala Harris, passando per la candidata progressista Elizabeth Warren, per arrivare alla «new generation» dei vari Beto O’Rourke e Cory Booker, per finire con la «variabile» Joe Biden.

Il Fatto 27.1.19
Maduro va allo scontro. All’Ue: “Otto giorni a chi?”
Pressioni internazionali - Il cancelliere venezuelano all’Onu rispedisce all’Europa l’ultimatum sulle elezioni. La Russia invia 400 uomini a proteggere l’erede di Chavez
di Giampiero Gramaglia


La buona notizia è che il livello di violenza in Venezuela non raggiunge i livelli da guerra civile temuti: in 96 ore, si contano una trentina di vittime; e ieri non ce ne sono state, almeno ufficialmente. La cattiva notizia è che la turbolenza internazionale, sul Paese con due presidenti, nessuno dei quali pienamente legittimo, s’accresce.
Dopo scambi di messaggi fra i loro leader, Spagna, Francia, Germania e pure Gran Bretagna danno gli otto giorni a Maduro: o indice, entro una settimana, nuove elezioni politiche in Venezuela, o Madrid, Parigi, Berlino e Londra – ma la lista delle capitali presumibilmente s’allungherà – riconosceranno come legittimo il presidente autoproclamato Juan Guaidó. Il regime, però, rimanda ai mittenti l’ultimatum.
Benché espresso con modalità diverse, il messaggio dei vari Sanchez, Macron, Merkel e May collima: “Il popolo venezuelano deve poter decidere liberamente del suo futuro. Senza un annuncio di elezioni entro otto giorni, potremo riconoscere Guaidó come ‘presidente ad interim’ e sviluppare con lui questo processo politico. Lavoriamo intensamente con i nostri alleati europei”. Più sfumata nei tempi, ma quasi coincidente nella sostanza, la posizione di Federica Mogherini. L’Alto Rappresentante della politica estera dell’Ue, che aveva già chiesto a Maduro di annunciare “nei prossimi giorni la convocazione di nuove elezioni”. Altrimenti “verranno prese diverse azioni” che porranno anche “il tema del riconoscimento della leadership” nel Paese latinoamericano.
Come prevedibile, la riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ieri, a New York, al Palazzo di Vetro, è una palestra di retorica, ma non conduce a nulla. Russia e Cina, grandi alleati del regime chavista, parlano di “tentativo di golpe in Venezuela” e “questione interna: “allora, perché non parliamo qui dei ‘Gilets gialli’?”. Gli Usa, con il segretario di Stato Mike Pompeo, bollano il regime come “mafioso e illegittimo”, gli consigliano di non “mettere alla prova” la loro determinazione e invitano tutti “a unirsi alle forze della libertà in Venezuela”, riconoscendo Guaidó e sospendendo i rapporti economici e finanziari con il governo Maduro – la Banca d’Inghilterra ha già bloccato un prelievo di 1,2 miliardi di dollari in oro –.
Da Caracas, Maduro rilancia le parole del Cremlino e s’impegna a sconfiggere “il colpo di Stato che pretende di interferire nella vita politica del Venezuela, di mettere da parte la nostra sovranità e d’istituire un governo fantoccio dell’Impero americano”. E respinge l’invito a indire nuove elezioni: “Nessuno ci può dire se convocare o meno le elezioni”, afferma il ministro degli Esteri Jorge Arreza intervenendo alla riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu; e ancora: “Chi siete voi per lanciare un ultimatum ad un governo sovrano? La vostra è un’ingerenza infantile”. Pure Cuba, il Nicaragua e la Bolivia, quel che resta della sinistra bolivarista oggi nell’America latina, denunciano l’interventismo statunitense e chiedono che cessi.
Lo scontro politico in Venezuela è divenuto istituzionale mercoledì, quando Guaidó, presidente dell’Assemblea nazionale, l’unica Camera del Parlamento venezuelano, s’è proclamato “presidente ad interim”, ottenendo l’immediato riconoscimento degli Stati Uniti, di numerosi paesi dell’Osa, l’Organizzazione degli Stati americani, e di altre capitali. Ad esasperare gli animi dell’opposizione al regime, sono stati la crisi economica, il cui segno è l’inflazione spaventosa, e il disagio sociale, testimoniato dai milioni di esuli soprattutto verso Colombia e Brasile. Ma gli Stati Uniti hanno certo soffiato sul fuoco, penalizzando con le sanzioni e agendo sulla leva del prezzo del petrolio, l’economia venezuelana e incoraggiando l’opposizione. Le forze armate e la magistratura sono, invece, dalla parte di Maduro. Un sondaggio diffuso ieri, ma la cui attendibilità appare molto dubbia, indica che oltre quattro venezuelani su cinque considerano Guaidó il presidente legittimo e vedono nell’auto-proclamazione un motivo “d’ottimismo e speranza”, mentre appena un venezuelano su venti considererebbe Maduro il presidente legittimo. Nel contempo, sempre secondo i dati di Meganalisis, quasi il 90% degli intervistati pensa che i militari non riconosceranno Guaidó e quattro su cinque – addirittura – auspicano un intervento esterno, non è chiaro se solo umanitario o anche armato. Il 70% sarebbe, inoltre, contrario all’ipotesi di amnistia lanciata da Guaidó nei confronti dei sostenitori di Maduro.

La Stampa 27.1.19
Quel che succede in Venezuela è un colpo di Stato?
di Francesca Paci


Golpe, il convitato di pietra della crisi venezuelana su cui in queste ore si divide il mondo, è la versione spagnola del colpo di Stato, il rovesciamento del potere costituito promosso in modo illegale da forze interne o esterne (spesso supportate dai militari e spesso con derive violente) per favorire un cambio di regime. Solo in Africa tra il 1952 e il 2000 ci sono stati oltre 80 golpe. Che oggi a Caracas il potere costituito sia rappresentato dal presidente Maduro è indubbio. Controverso è invece il resto: è illegale o no l’autoproclamazione alla guida dell’esecutivo del presidente dell’Assemblea Nazionale Guaidó? L’Assemblea, controllata dall’opposizione, era stata esautorata dopo le elezioni del 2018 e la riconferma di Maduro. Mosca denuncia come golpe l’intervento Usa in sostegno di Guaidó che invece chiama golpe la vittoria di Maduro in un voto senza avversari.. L’esercito, che finora ha appoggiato Maduro, è l’ago della bilancia. E tace.

La Stampa 27.1.19
Tokyo e la rivolta delle studentesse
“Basta sessismo, non siamo prede”
di Cristian Martini Grimaldi


Capelli a sfiorare le spalle, frangetta, gonna poco sopra il ginocchio, t-shirt con maniche lunghe in pizzo «see-through», vedo non vedo. È un preciso identikit la lista dei requisiti che il settimanale Spa! ha pubblicato col fine di decriptare l’estetica di quelle giovani studentesse che apparterrebbero alla categoria delle facili prede. Fuor di metafora, «yariyasui» (quelle che ci stanno). Linguaggio che nel sensibilissimo Giappone del «metoo» fresco d’adozione - importato alla velocità di un tweet (qui il mezzo di condivisione di gran lunga più diffuso) e ancora meglio metabolizzato (vedi il fragoroso caso della giornalista Shiori Ito, che ha evidenziato l’emarginazione delle donne che denunciano uno stupro) - non è passato inosservato.
Quattro studentesse giapponesi se ne sono accorte, ovviamente non leggendo direttamente la rivista, ma scorrendo come tutti i comuni millennials il pollice sul solito Social. «Quando l’ho letto ho perso la testa!», racconta Kazuna, 21 anni, in tenuta sportiva nella caffetteria dell’Università Icu. «L’ho mostrato a mia madre che però non l’ha preso seriamente, si è fatta una risatina», ecco il gap generazionale spiegato facilmente: «Sono corsa in camera e ho creato una petizione su change.org e due giorni dopo c’erano 35.000 sottoscrizioni».
«Mi sembrava una cosa vecchia di almeno 30 anni!», si riferisce agli anni del post-boom quando volgari trivialità del genere erano ordinario palinsesto anche in tv. Chi certamente non ha sottoscritto l’accusa di sessismo al settimanale è l’inventore della nuova App per invitare le donne a cena dietro pagamento e che poi sulla base della propria esperienza personale ha confezionato il famigerato identikit accompagnato a piena pagina dalla classifica delle yariman seisoku, «puttane iscritte» (sì, siamo a questi livelli) per ogni Università.
È indubbio che qualcosa di penosamente patologico si è insinuato nel rapporto uomo-donna in questo Paese, se i trenta-quarantenni sani con un buon lavoro (lavoratori part-time non potrebbero permetterselo), si danno di gomito alludendo a quanto è «fico» pagare le donne per conversare, aggiungendo pure che se sborsi un extra ti assicuri perfino una notte di fugace carnalità (con tutte le App di incontri gratuite che esistono?).
Adolescenti impacciati
Ma mai come in Giappone tutto deve esser letto sullo sfondo del flusso temporale dei costumi, altrimenti si finisce per farsi sfuggire l’istinto del giudizio sommario. E infatti le gyaranomi, cioè queste studentesse che si pagano l’affitto a fronte di una chiacchierata con giovanotti impacciati e disadattati, non sono poi tanto diverse dalle «kyabajo» che da anni intrattengono impiegati di ogni rango, addebitandogli sul conto fiumi di costosissimo sake. E quest’ultime a loro volta non sono poi altro che una versione delle «maiko-san» (geishe) aggiornate ai nostri tempi meno candidi e sofisticati.
È su questa spessa coltre di formazione a-sentimentale che va misurata anche l’uscita di qualche anno fa dell’ex sindaco di Osaka, Toru Hashimoto, a margine dello stupro di una giovane ragazza: «Gli uomini farebbero bene ad andare di più a prostitute, altrimenti è difficile che possano tenere sotto controllo i propri istinti sessuali». E poi aggiunse, «e se non ci vanno per motivi morali, sappiano che stanno discriminando delle oneste lavoratrici». Il tutto senza neppure il bisogno di avanzare, come è toccato invece a ben altri leader politici, la scusante della chiacchiera da spogliatoio, anche perché la dichiarazione la apparecchiò precisa davanti i microfoni spalancati dei giornalisti.
Nel Paese dove hanno perfino coniato un termine ad hoc per descrivere il fenomeno della prostituzione minorile (come se si trattasse appunto di un qualsiasi «onesto lavoro»), cioè enjo kousai, ovvero il «dating compensativo», tutto ciò non scatena agitazioni sociali, neppure l’ombra di una «Femen».
È consolidata da decenni l’abitudine di uomini maturi di accompagnarsi (a pagamento) con giovani studentesse. Tuffarsi nel variopinto mondo delle sfumate declinazioni di questo fenomeno aiuta a capire di quale irrazionale pulsione ci troviamo a discutere. Non molto tempo fa esisteva a Tokyo un locale dove ragazze minorenni in uniforme di scuola (dunque con minigonna) venivano fatte sedere su dei tatami, mentre praticavano l’antica arte dell’origami. I clienti, 40, 50enni onesti padri di famiglia, pagavano fior di yen per accovacciarsi davanti alle studentesse e sbirciare sotto la gonna.
Ma forse storicizzare diventa perfino un esercizio superfluo: basta allungare la mano sull’ultima copia del settimanale «Spa!» e si scopre una classifica analogamente assurda, come quella dello scandalo internazionale recentemente generato dallo stesso tabloid, ma che al contrario non ha sollevato proteste. Questa fa il ranking delle «shukatsu bitchi«, quelle ragazze che per un’offerta di lavoro farebbero «di tutto». E pare che già in molti si stiano chiedendo se esiste un’App anche per questo.

Corriere 27.1.19
Il simbolo
Zeus, il cigno invaghito di Leda
Le mille metamorfosi di un dio
di Giuseppina Norcia


Tramutato anche in toro o aquila. Così il cosmo si unisce alla vita umana
I Greci lo chiamavano Hieros gamos , il matrimonio sacro tra gli dei che diedero origine al mondo. Così Urano dio-cielo, si unì alla sua sposa Gaia, madre terra; così fecero Zeus ed Era, distesi su un immenso letto di fiori. Ci sono anche dee innamorate di uomini, come Afrodite invaghita di Anchise, e donne amate da un dio che le insegue fino ai confini del mondo.
Sono innumerevoli le unioni di Zeus con donne mortali, «nozze» sovrannaturali e insieme carnali in cui il dio, nel suo gioco di inganno e seduzione, assume la forma di animali diversi.
Eccolo, il mutaforme, trasformato in un toro dal manto dorato: emana un profumo più intenso di quello dei fiori per ammaliare la giovane Europa; altrove lo troviamo in forma di aquila per possedere Asteria, o di cigno, per unirsi a Leda, cingendola con le sue ali bianche. Così lo raffigura Aracne tessendo la tela meravigliosa con cui sfida Atena prima d’essere trasformata in ragno dalla dea, punita per la sua tracotanza (e per la sua bravura) nei versi immortali di Ovidio.
Nel susseguirsi delle unioni metamorfiche, le forze del cosmo, della natura e del mondo animale si intrecciano ad antichi simboli cultuali, «incontrano» la vita umana.
Leda è figlia di Testio, re d’Etolia, e sposa di Tindaro, re di Sparta. Quando Zeus si invaghisce di lei, della sua avvenenza, si muta in cigno fingendosi inseguito da un’aquila per trovare accoglienza tra le braccia della donna. È in questa forma che si unisce a lei sulle rive dell’Eurota, il fiume ricco di allori dove le ragazze spartane correvano in gara, unte come uomini.
Ancor più della loro unione, è sovrannaturale il frutto di quell’amplesso, simbolo stesso dell’origine della vita: l’uovo deposto da Leda che, schiudendosi, genera Elena. In quell’intreccio di riti, storie e luoghi che è la quintessenza del pensiero mitico, descrivendo la Laconia Pausania narra di averlo visto pendere, ravvolto in fasce, dal soffitto del santuario delle Leucippidi. Gli abitanti lo credevano l’uovo di Leda, quasi che quel guscio potesse davvero durare secoli e non perire mai, come la creatura che ne era emersa. «Dicono che un giorno Leda trovò un uovo, color giacinto», canta la divina Saffo.
Man mano che ci addentriamo nel labirinto delle storie, l’intreccio si complica. Così altrove si narra di Zeus-cigno unito non a Leda ma a Nemesi. Lui la vede — la guardiana della legge cosmica è bella come Afrodite — e la insegue, attraversando la terra ferma e il mare, mentre lei muta instancabilmente forma per sfuggirgli: è un’oca selvatica nell’istante in cui la raggiunge. Quando poi dal ventre di Nemesi fuoriesce un uovo, Hermes lo prende e lo porta a Sparta, ponendolo sul grembo di Leda: così lei alleva, come fosse sua, la minuscola figura di donna emersa dal prezioso scrigno.
Incanto e complessità
La caccia amorosa di molti racconti mitici, un pericoloso intreccio di animali, uomini, divinità
Nasce dunque da Leda o da Nemesi, divina emissaria della necessità, la bellezza che incanta, quella che può scatenare una guerra? Il tessuto senza orli del mito non dà mai una risposta univoca.
«Per la più bella». Il pomo della discordia cadde con un tonfo dinanzi alle tre dee. Era il pranzo di nozze di Peleo e Teti. Anche loro si erano amati inseguendosi, in quella forma antichissima della caccia amorosa in cui i racconti mitici sembrano sovrapporsi.
Come Nemesi, Teti si trasforma molte volte prima di cedere all’amore di Peleo, quasi a voler mettere alla prova le capacità del suo pretendente mortale: prima fiamma, poi leone, è una seppia quando cede alla forza dell’amplesso.
Non è un caso che Achille ed Elena, gli impareggiabili per grandezza e solitudine, nascano da una fuga, da un gioco di metamorfosi, da un intreccio che unisce pericolosamente animali, uomini e dei. Sono figli dello squilibrio e della complessità.
Fu forse un vagheggiamento, un sogno di poeti e viaggiatori l’idea di una terra incantata in cui congiungerli: Leukè, l’Isola Bianca in cui Achille ed Elena si sarebbero incontrati, dopo la morte, per trascorrere insieme l’eternità.
Si dice che la notte i due sposi banchettino e cantino la loro stessa storia; lontani e fulgidi come simulacri, celebrano la poesia che li ha resi immortali.
Giuseppina Norcia, scrittrice, grecista e divulgatrice culturale è autrice di «L’ultima notte di Achille» (Castelvecchi editore, 2018)

Corriere La Lettura 27.1.19
Fisica Un acceleratore di particelle di 100 chilometri di circonferenza rilancia la ricerca europea. Anche perché Pechino non è rimasta per nulla a guardare
Materia oscura e Cina
Le due sfide del Cern
di Guido Tonelli


Il caso ha voluto che l’annuncio venisse dato nello stesso giorno, il 15 gennaio, in cui a Londra, il programma di Theresa May per la Brexit veniva clamorosamente bocciato dal Parlamento inglese, gettando nello sconcerto tutte le cancellerie d’Europa. Nelle stesse ore, al Cern di Ginevra, si annunciava la pubblicazione del rapporto che descrive il progetto Fcc, acronimo che sta per Future Circular Collider, gli eredi di Lhc. Fcc è un gruppo di studio internazionale che ha lo scopo di produrre un disegno concettuale, definire le infrastrutture e stimare i costi per un collider da 100 chilometri di circonferenza da costruire al Cern. Il progetto prevede, in una prima fase, un acceleratore che produrrà collisioni fra elettroni e positroni, Fcc-ee, che sarà in seguito convertito in una macchina protone-protone, Fcc-hh, seguendo lo schema di successo già utilizzato al Cern con la sequenza Lep e Lhc. La proposta è nata nel 2014 e ha raccolto subito un fortissimo sostegno da parte della comunità internazionale. Il lavoro ha coinvolto oltre 1.300 fisici e ingegneri appartenenti a 150 università, istituti di ricerca e partner industriali. Il risultato dello studio è un rapporto dettagliato che costituisce la base per definire la nuova strategia europea nel campo degli acceleratori di particelle.
La decisione di costruire questa nuova infrastruttura dovrebbe essere presa nel 2020. In uno scenario realistico, si potrebbe cominciare la costruzione di Fcc-ee nel 2028 e iniziare le operazioni prima del 2040, alla fine della fase di alta luminosità di Lhc. La macchina a protoni è invece molto più complessa e richiederebbe ancora anni di sviluppo per la produzione su scala industriale dei magneti. L’inizio di Fcc-hh si collocherebbe fra il 2050 e il 2060. Insomma si stanno prendendo decisioni cruciali che determineranno i confini della ricerca scientifica di base per tutto un secolo.
Dal punto di vista della ricerca di nuova fisica, la combinazione in successione dei due acceleratori è di gran lunga la configurazione ottimale. Si configura una sorta di manovra a tenaglia per non lasciare scampo alla nuova fisica, ovunque essa si nasconda. La macchina a elettroni e positroni è l’ambiente ideale per realizzare misure di precisione. È previsto che il nuovo acceleratore funzioni a diverse energie, passando da 90 a 365 GeV, per produrre enormi quantità delle particelle più importanti del Modello Standard, incluso milioni di bosoni di Higgs, per studiarne in dettaglio tutte le caratteristiche e identificare la più piccola delle anomalie.
Le nuove particelle, che spiegherebbero la materia oscura o nuove interazioni che ci porterebbero alle dimensioni nascoste del nostro universo, potrebbero essere scoperte in maniera indiretta, attraverso le più incredibili misure di precisione dei parametri del Modello Standard che mai siano state concepite. Se non basterà la precisione si passerà alla forza bruta. Con i 100 TeV di energia di Fcc-hh, diventerà possibile l’esplorazione di una scala di energia 7 volte superiore a Lhc. Qualunque nuovo stato della materia di massa compresa fra qualche TeV e alcune decine di TeV sarebbe identificato direttamente; si potrà capire se il bosone di Higgs è elementare o ha una struttura interna e sarà possibile studiare quei dettagli della rottura spontanea di simmetria elettrodebole che potrebbero risultare decisivi per comprendere la prevalenza della materia nel mondo che ci circonda. I costi del progetto sono importanti. Ci vorranno 9 miliardi di euro per scavare il tunnel ed equipaggiare la macchina a elettroni. Ne occorreranno altri 15 per costruire i potenti magneti necessari per Fcc-hh. Tuttavia, se si considera l’arco di tempo in cui sarà distribuito l’investimento e si tiene conto dei contributi finanziari che potranno provenire da tutto il mondo, l’impresa appare sicuramente sostenibile.
È indubbio che con Fcc l’Europa lancia la sua sfida e prende il centro della scena nel dibattito mondiale sugli acceleratori del futuro. Gli Stati Uniti, leader indiscussi del campo fino a qualche decennio fa, stanno mantenendo un basso profilo e sembrano rassegnati a giocare un ruolo secondario. Completamente diverso è il caso delle tigri asiatiche: non più solo il Giappone, ma anche Corea del Sud e soprattutto Cina. Gli investimenti in ricerca di base in Cina crescono di anno in anno. E con percentuali che noi europei non osiamo neanche sognare. Fra il 2000 e il 2010 questi investimenti sono raddoppiati e già oggi la Cina spende più dell’Europa intera in ricerca e sviluppo. La Cina ha lanciato un ambizioso programma di esplorazione spaziale che comprende una stazione scientifica orbitante e una missione di esplorazione lunare, e inaugura ogni anno decine di nuove università e importanti infrastrutture di ricerca.
La classe dirigente cinese dimostra di aver capito che gli investimenti nella scienza di base permettono di far entrare il Paese nell’élite tecnologica mondiale. Ma il progetto dei governanti di Pechino è molto più ambizioso: non vogliono solo partecipare, cercano il primato, hanno deciso di prendere la testa in attività che considerano di importanza strategica per una superpotenza che mira a guidare il mondo. Non è un caso che per la fisica il gigante asiatico proponga Cepc (Circular Electron-Positron Collider) un progetto molto simile al nostro Fcc: un anello da 50-70 chilometri che ospiterebbe una fabbrica di Higgs, un collider elettrone-positrone da 240 GeV, per poi passare a un acceleratore a protoni capace di produrre collisioni da 50-70 TeV nel centro di massa. La macchina potrebbe essere costruita nella regione di Qinghuada, una zona di colline vicino al mare, a 300 chilometri da Pechino, conosciuta come la Toscana della Cina. Scavare un tunnel di decine di chilometri in Cina ha costi molto inferiori rispetto all’Europa e per di più i cinesi sembrerebbero orientati a coprirne una buona parte. Insomma la proposta di Fcc, che giunge proprio in un giorno emblematico delle crisi che attraversano l’Europa, potrebbe essere l’occasione giusta per ricominciare a pensare in grande. Se il nostro continente intende giocare un ruolo decisivo nello sviluppo dell’innovazione e della conoscenza e non accetta di cedere ad altri la leadership in settori strategici quali la fisica fondamentale, Fcc costituisce una grande opportunità.

Corriere La Lettura 27.1.17
Fuggiaschi e reietti, cioè Romani
Mondo latino. Una docente universitaria di Storia antica ha visto il film Il primo re sulla leggenda di Romolo
Attori convincenti, ispirazione poetica, un profondo senso del sacro
di Livia Capponi


La leggenda di Roma è uno dei miti di fondazione più complessi del mondo, una stratificazione di storie, leggende e presunti avvenimenti. Alla fine del II millennio il Lazio e i colli erano già abitati da trenta popoli latini, insediati in villaggi e facenti capo ad Alba Longa. Il sito che sarà di Roma era incentrato su un guado del Tevere poco più a valle dell’Isola Tiberina, ai piedi dell’Aventino. Di qui passava la strada del sale (via Salaria), elemento essenziale dell’alimentazione e della conservazione dei cibi, conteso fra i popoli italici. In quest’area già un secolo prima di Romolo c’era il centro proto-urbano Septimontium, cioè «cime divise», articolato in clan di tipo tribale, le gentes, le cui terre erano coltivate dai loro servi o clientes. Erano i Latini, i cui patres più eminenti si riunivano in assemblea, pur in assenza di un centro urbano unitario.
Secondo il folklore locale, i capi primordiali del Palatino erano re discendenti da Marte: Pico (il picchio), Fauno (il lupo) e Latino, associato a una scrofa madre di trenta maialini, cioè i trenta popoli del Lazio. La mitica dinastia dei Silvi («silvani») si conclude con i fratelli Amulio e Numitore. La figlia di Numitore, vergine sacerdotessa posta a custodire il focolare di Vesta ad Alba, è ingravidata dal dio Marte; nascono così due gemelli, di cui il maggiore è Romo o Remo, il secondo Romolo. Entrambi i nomi derivano da Rumon, nome etrusco del Tevere.
Come spesso accade nei miti indoeuropei, una colpa provoca l’espulsione dalla comunità e la migrazione in un luogo nuovo sotto la guida di un nume tutelare. «Rea» Silvia è sepolta viva e i gemelli sono gettati nel Tevere in piena, ma quando le acque si ritirano la cesta contenente gli infanti si arena ai piedi del Palatino sotto un albero di fico. Allattati da una lupa nella grotta del Lupercale, sono raccolti dal porcaro Faustolo e dalla moglie Acca Larenzia, che li allevano nella loro capanna. Questi miti locali, prodotti da un mondo di contadini e pastori, sono poi offuscati dall’inserimento del racconto delle imprese epiche di stampo omerico degli eroi troiani Enea e Ascanio (o Iulo, antenato della famiglia Giulia), introdotti nel VI secolo a.C. per nobilitare un passato mitico visto come troppo primitivo.
Remo e Romolo, appresa la verità sulle loro origini, ottengono il permesso di fondare una città al guado del Tevere, nel luogo dove erano stati allevati dalla lupa. Sondano il favore di Giove osservando il volo degli uccelli, ma ne nasce una rissa in cui Remo rimane ucciso. Romolo, rimasto unico re, dichiara guerra al Septimontium, scagliando una lancia di corniolo verso il versante sud del Palatino; la lancia prodigiosamente si conficca proprio davanti alla capanna di Acca Larenzia e Faustolo e si trasforma in albero verdeggiante, segno indubitabile dell’assenso divino. La data della fondazione di Roma, 21 aprile, era già un capodanno pastorale, cioè la festa dei Parilia (da parere, partorire) dove si svolgeva la purificazione degli uomini e degli ovini, saltando su due fuochi, per propiziare i parti delle capre. Sul Palatino si svolgono altre osservazioni di uccelli che consacrano il colle quadrangolare come prima «Roma quadrata». Seconda impresa di Romolo è la creazione di un tempio di Vesta appena fuori dalle mura del Palatino, sulle pendici che poi diventeranno il Foro.
A Romolo, dunque, sarebbe da ascrivere la fondazione non solo della città, ma anche dello Stato e della dimensione politica e religiosa. Il re non è un monarca assoluto in questo stadio, ma un capo eletto dai capi tribù come intermediario con gli dei. Romolo conquista anche gli altri colli e autorizza molti popoli a stabilirsi a Roma. Secondo la leggenda, apre un tempio al «dio Asilo» che accoglie poveri, criminali, debitori, schiavi fuggitivi, e li integra nel corpo cittadino, assistito da Tito Tazio, capo dei Sabini che non era riuscito ad assoggettare. Fu un’unificazione innovativa, e per questo molto osteggiata e molto cruenta.
Il film Il primo re potrebbe essere accusato di discostarsi dalla tradizione leggendaria (comunque quasi tutta inventata), mentre cerca di rimanere fedele all’archeologia, ricostruita meticolosamente. Il regista Matteo Rovere sceglie di mettere in luce un aspetto fondamentale, peraltro documentato storicamente, e riconosciuto dagli stessi Romani, in primo luogo dall’imperatore Claudio, studioso lui stesso di storia antica: Roma sorge da un agglomerato di clan in cui confluiscono stranieri, esuli, fuggiaschi e guerrieri che da soli non sarebbero riusciti a sopravvivere. Essi sono guidati da divinità immanenti ed eterne come le forze della natura che li circonda: il fiume, il fuoco, gli animali della foresta, il volo degli uccelli carico di presagi.
Girare un film sulla fondazione di Roma era un’operazione senz’altro rischiosa. Poteva risvegliare forme di rigetto per il già sentito, lo scolastico, o verso inutili celebrazioni degli antichi fasti. Al contrario, i caratteri sono tridimensionali e umani. Il combattuto Remo, il riflessivo Romolo e la carismatica Vestale suscitano domande (tutte moderne) su che cosa sia il «sacro», allora e oggi. Gli attori, fotografati con eccelsa maestria, convincono e incantano, pure nei combattimenti. La lingua proto-latina, usata con misura e naturalezza, è la vera colonna sonora del film, poetica e commovente, perché ci trasporta in una dimensione lontanissima, quasi arcana, in cui riconosciamo istintivamente una parte di noi. È vero, gli antichi popoli del Lazio a volte assomigliano ad aborigeni australiani con i loro animali-totem; ma è una scelta precisa, che decostruisce un mito ingombrante, senza mai umiliarlo. Al centro della scena rimane la svolta dura e geniale che avvenne a Roma, se non proprio nel 753 a. C., in quel periodo: la trasformazione di bellicose tribù di uomini-lupo in una comunità nuova, retta da norme sociali, politiche e religiose, che travalicavano antichi individualismi per aspirare a qualcosa di più grande.


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