Repubblica Salute 17.1.19
Psichiatria
Nella mente di un assassino
Un algoritmo speciale valuta la probabilità che in certe situazioni una persona compia una violenza
Solo il 10% dei malati psichichi delinque
Ma è parlando con chi lo fa che si scoprono i fattori di rischio
di Valeria Pini
Nella
mente del detenuto per capire cosa si nasconde dietro a un crimine. Un
lavoro complicato che ogni giorno assorbe le energie di Seena Fazel,
professore di Psichiatria forense dell’università di Oxford. Osservando
quest’uomo dall’aria tranquilla e sorridente, non si direbbe che passa
gran parte delle sue giornate in un carcere dell’Oxfordshire, in
Inghilterra. Un lavoro che nel tempo lo ha reso uno dei maggiori
epidemiologi psichiatrico forensi europei, portando questo ricercatore
di origine iraniana a pubblicare molti studi sulla salute psichica di
chi vive dietro le sbarre.
Negli anni ha seguito decine di storie
fra omicidi e aggressioni. Ricerche che lo hanno portato alla
conclusione che solo in casi rari chi compie atti di questo tipo lo fa
perché soffre di un disturbo psichico.
« La violenza non va collegata automaticamente al disagio mentale. Il male non coincide con una malattia.
Solo
una minoranza di detenuti compie azioni violente perché è malato –
spiega Fazel – lo confermano vari studi in materia. E anche una mia
ricerca recente, che ha preso in esame un vasto database svedese su casi
forensi nell’arco di cinque anni. Le persone con un disturbo psichico
che delinquono sono meno del 10%. In Inghilterra, ad esempio, gli
omicidi compiuti da schizofrenici sono uno su 10 pazienti nell’arco di
cinque anni, una minoranza. Ci sono poche possibilità che un individuo
con questa patologia uccida un familiare».
Fazel è convinto che
l’epidemiologia possa contribuire a capire i fattori di rischio e a
identificare le strategie per prevenire episodi di criminalità. «Solo
facendo luce su quello che è accaduto si può evitare che accada di
nuovo. In genere quando si analizzano le situazioni difficili bisogna
valutare non uno ma più fattori di rischio che interagiscono tra loro.
Abbiamo usato un algoritmo, l’OxMiv, che valuta le probabilità che
qualcosa di negativo accada. Spesso le violenze vengono compiute sotto
l’effetto di sostanze stupefacenti o di alcol. Anche l’aver già compiuto
un omicidio in precedenza aumenta le possibilità che si trasgredisca di
nuovo».
L’altro elemento importante è il genere perché, come
spiega Fazel, « gli uomini sono più violenti delle donne e le
probabilità che compiano un’aggressione sono doppie » . Nei lunghi
incontri in carcere, Fazel cerca di sostenere i detenuti per evitare che
possano compiere altre violenze. La carcerazione dovrebbe essere il
primo passo verso il reinserimento sociale. Un compito difficile. Molti
si ammalano perché non riescono a sostenere la condizione di reclusi.
Secondo uno studio compiuto da Fazel in 24 paesi su 33.588 detenuti, il
10% degli uomini e il 14% delle donne soffre di depressione maggiore.
Circa un detenuto maschio su due ha un disturbo antisociale di
personalità. « Il rischio di trovare in carcere persone con disturbi
mentali gravi è più alto che nel resto della popolazione. I tassi di
suicidio in carcere sono da 3 a 9 volte più alti. In Inghilterra e
Galles, ad esempio, i detenuti maschi hanno fino a sei volte più
probabilità di uccidersi rispetto agli uomini liberi, mentre il tasso di
suicidio nelle detenute è 20 volte superiore rispetto alle donne che
non vivono in carcere » , aggiunge Fazel.
Un disagio che va curato
con programmi adeguati. Servono farmaci e consulenze psichiatriche.
Corsi di letteratura, di matematica o lingua sono strumenti utili. Senza
terapie si rischia di restituire alla società una persona che potrebbe
delinquere ancora. «In carcere bisogna anche intervenire su eventuali
dipendenze. L’abuso di alcol e stupefacenti è responsabile di un terzo
dei decessi di ex detenuti maschi, della metà di quelli di ex detenute
e, nel 42% dei casi negli uomini e nel 70% nelle donne, l’evento è
collegato a cause prevenibili come incidenti e suicidi».