Repubblica Salute 17.1.19
Psichiatria
Nella mente di un assassino
Un algoritmo speciale valuta la probabilità che in certe situazioni una persona compia una violenza
Solo il 10% dei malati psichichi delinque
Ma è parlando con chi lo fa che si scoprono i fattori di rischio
di Valeria Pini
Nella mente del detenuto per capire cosa si nasconde dietro a un crimine. Un lavoro complicato che ogni giorno assorbe le energie di Seena Fazel, professore di Psichiatria forense dell’università di Oxford. Osservando quest’uomo dall’aria tranquilla e sorridente, non si direbbe che passa gran parte delle sue giornate in un carcere dell’Oxfordshire, in Inghilterra. Un lavoro che nel tempo lo ha reso uno dei maggiori epidemiologi psichiatrico forensi europei, portando questo ricercatore di origine iraniana a pubblicare molti studi sulla salute psichica di chi vive dietro le sbarre.
Negli anni ha seguito decine di storie fra omicidi e aggressioni. Ricerche che lo hanno portato alla conclusione che solo in casi rari chi compie atti di questo tipo lo fa perché soffre di un disturbo psichico.
« La violenza non va collegata automaticamente al disagio mentale. Il male non coincide con una malattia.
Solo una minoranza di detenuti compie azioni violente perché è malato – spiega Fazel – lo confermano vari studi in materia. E anche una mia ricerca recente, che ha preso in esame un vasto database svedese su casi forensi nell’arco di cinque anni. Le persone con un disturbo psichico che delinquono sono meno del 10%. In Inghilterra, ad esempio, gli omicidi compiuti da schizofrenici sono uno su 10 pazienti nell’arco di cinque anni, una minoranza. Ci sono poche possibilità che un individuo con questa patologia uccida un familiare».
Fazel è convinto che l’epidemiologia possa contribuire a capire i fattori di rischio e a identificare le strategie per prevenire episodi di criminalità. «Solo facendo luce su quello che è accaduto si può evitare che accada di nuovo. In genere quando si analizzano le situazioni difficili bisogna valutare non uno ma più fattori di rischio che interagiscono tra loro. Abbiamo usato un algoritmo, l’OxMiv, che valuta le probabilità che qualcosa di negativo accada. Spesso le violenze vengono compiute sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o di alcol. Anche l’aver già compiuto un omicidio in precedenza aumenta le possibilità che si trasgredisca di nuovo».
L’altro elemento importante è il genere perché, come spiega Fazel, « gli uomini sono più violenti delle donne e le probabilità che compiano un’aggressione sono doppie » . Nei lunghi incontri in carcere, Fazel cerca di sostenere i detenuti per evitare che possano compiere altre violenze. La carcerazione dovrebbe essere il primo passo verso il reinserimento sociale. Un compito difficile. Molti si ammalano perché non riescono a sostenere la condizione di reclusi. Secondo uno studio compiuto da Fazel in 24 paesi su 33.588 detenuti, il 10% degli uomini e il 14% delle donne soffre di depressione maggiore. Circa un detenuto maschio su due ha un disturbo antisociale di personalità. « Il rischio di trovare in carcere persone con disturbi mentali gravi è più alto che nel resto della popolazione. I tassi di suicidio in carcere sono da 3 a 9 volte più alti. In Inghilterra e Galles, ad esempio, i detenuti maschi hanno fino a sei volte più probabilità di uccidersi rispetto agli uomini liberi, mentre il tasso di suicidio nelle detenute è 20 volte superiore rispetto alle donne che non vivono in carcere » , aggiunge Fazel.
Un disagio che va curato con programmi adeguati. Servono farmaci e consulenze psichiatriche. Corsi di letteratura, di matematica o lingua sono strumenti utili. Senza terapie si rischia di restituire alla società una persona che potrebbe delinquere ancora. «In carcere bisogna anche intervenire su eventuali dipendenze. L’abuso di alcol e stupefacenti è responsabile di un terzo dei decessi di ex detenuti maschi, della metà di quelli di ex detenute e, nel 42% dei casi negli uomini e nel 70% nelle donne, l’evento è collegato a cause prevenibili come incidenti e suicidi».
Il Fatto 17.1.19
Europa
Ora arriva l’inferno delle incertezze
Per evitare le conseguenze negative (specie in Irlanda) bisogna rinviare la scadenza del 29 marzo
di Barbara Spinelli
Il voto di martedì sera alla Camera del Comuni è stato un colpo particolarmente duro per Theresa May – non ci aspettava un’opposizione così massiccia alla sua linea negoziale sulla Brexit – ma è lungi dall’essere chiarificatore. Ancora non è dato sapere quale sarà l’alternativa che raccoglierà il consenso del Parlamento, quanto tempo il premier resterà in carica, cosa voglia esattamente la maggioranza dei deputati, dopo aver detto quello che non vuole. Il negoziatore dell’Unione, Michel Barnier, non intende negoziare un nuovo trattato di separazione, soprattutto per quanto riguarda la questione nord irlandese e i diritti dei cittadini, e una Brexit nel caos – un no-deal Brexit – si fa più minaccioso e probabile.
È soprattutto per il Nord Irlanda che la prospettiva del no-deal sarebbe nefasta. L’accordo negoziato con Theresa May era congegnato in maniera tale da tutelare il Good Friday Agreement, che nel 1998 mise fine a decenni di sanguinose guerre in Nord Irlanda, conferendo ai nord irlandesi il diritto di proclamarsi cittadini della Repubblica di Irlanda oltre che della Gran Bretagna, e di rimanere de facto e de jure, dopo il Brexit, dentro l’Unione europea. Un’uscita senza accordo rappresenterebbe una lesione dell’accordo del Venerdì Santo, e non è da escludere che prima o poi una maggioranza di nord irlandesi sceglierà la via di un referendum sulla riunificazione dell’Irlanda, pur di evitare una rigida frontiera fra le due parti dell’isola e di restare in Europa e nel suo ordinamento giuridico
Ma anche per i cittadini europei nel Regno Unito, e per gli inglesi che vivono nell’Unione, l’orizzonte è scuro. L’assenza di un Withdrawal Agreement li priverebbe in poco tempo di tutti i diritti legati alla libertà di movimento di cui hanno sin qui goduto (previdenza sociale, permessi di lavoro, riconoscimento delle qualifiche personali, ricongiungimenti familiari, ecc). Dal limbo conosciuto negli anni successivi al referendum sulla Brexit passerebbero all’inferno dell’incertezza legale. Difficile dire come si potrà uscire da questa massiccia sconfessione della linea dell’esecutivo senza che il popolo britannico sia di nuovo interpellato, restituendo spazio e voce a chi nel 2016 aveva votato contro la Brexit (non solo Nord Irlanda ma anche Scozia, Gibilterra, Londra).
Se il no-deal sarà confermato – o se la Brexit non verrà revocata – l’Unione non avrà praticamente armi per difendere i propri cittadini, che dal giorno alla notte diverranno cittadini di Paesi terzi. Legalmente potrà impegnarsi solo negli ambiti in cui sarà in grado di esercitare, e sin da principio, un’influenza. Quel che si spera è che preservi unilateralmente, come primo atto, i diritti dei residenti inglesi nel proprio territorio: raccomandando l’allineamento delle procedure nazionali in materia di residenza e permessi di lavoro alle “migliori pratiche” già prospettate in alcuni Paesi membri, e garantendo che tali diritti includano non il soggiorno nei singoli Stati e il libero movimento nell’Unione.
Ben più grave il caso dei cittadini europei in Gran Bretagna: sono più di 3 milioni, e in uno scenario no-deal diverranno vittime, come già purtroppo lo sono i cittadini di Paesi terzi, dell’ambiente ostile – hostile environment – promosso esplicitamente da Theresa May nel 2012, quando era ministro dell’Interno (gli italiani residenti in Gran Bretagna, iscritti o no all’Aire, sono circa 675.000). Le promesse fatte dal primo ministro potranno essere revocate dal Parlamento d’un solo colpo, quando vorrà. Solo un trattato internazionale che salvaguardi i diritti iscritti nel Withdrawal Agreement darebbe ai cittadini europei in Gran Bretagna le certezze legali che essi chiedono con insistenza da anni. Il ringfencing dei diritti – la loro messa in sicurezza – è possibile se l’Unione, oltre a proteggere unilateralmente i residenti inglesi in Europa, condizionerà i negoziati sulle future relazioni a un preliminare accordo bilaterale Unione-Regno Unito che sia equiparabile a un trattato internazionale vincolante, e che preservi e migliori il capitolo diritti del Withdrawal Agreement. Anche per questo è cruciale dare alla Gran Bretagna più tempo, oltre la data di recesso del 29 marzo, per uscire dalle difficoltà presenti in modo da non distruggere due anni di negoziato con l’Unione e salvaguardare sia i cittadini post-Brexit, sia l’accordo del Venerdì Santo.
Repubblica 17.1.19
Lezioni londinesi
La debole democrazia diretta
di Danilo Taino
La democrazia diretta non è una semplificazione della politica. Spesso la complica; e la può avvilire. L’avere posto la scelta sulla Brexit a referendum, nel 2016, sta facendo vacillare l’opinione pubblica del Paese culla del liberalismo e della democrazia; e rischia di spegnere la brillante energia a cui ci aveva abituato la «madre di tutti i parlamenti», Westminster. Avevamo sempre pensato che una caratteristica invidiabile al Regno Unito fosse la capacità di produrre una classe dirigente di buona qualità: l’averla disintermediata con la consultazione diretta sull’appartenenza alla Ue ha aiutato a farla sembrare la membership di un vecchio, eccentrico ma inutile club di St. James. Il risultato è che la debole Theresa May appare, nella sua testardaggine, come l’unica a pensare che la democrazia non sia la scelta tra un sì e un no.
Lo strumento del referendum non è una sciocchezza. Mettere nelle mani dei cittadini la decisione su questioni rilevanti è un momento alto di democrazia. Può però essere fatto su questioni risolvibili con una semplice scelta binaria: da una parte o dall’altra e finita lì. Come si è visto nei mesi scorsi, l’essenza della Brexit sta invece nel modo in cui Londra intende uscire dalla Ue, negli accordi che può stipulare con Bruxelles, nel grado di libertà che intende mantenere. Appunto: il grado. Cioè quel complesso di decisioni, alcune lineari ma moltissime complicate e a soluzione multipla, che sono poi le scelte politiche, quelle che non possono essere decise da un sì e da un no.
I l referendum sulla Brexit è stato simile a un genitore che avesse proposto alla famiglia di andare in vacanza senza dire dove: i membri potevano rinunciare ma, se accettavano, solo una volta in auto avrebbero conosciuto la destinazione. Se si fosse andati al mare, chi ama la montagna avrebbe forse preferito rimanere a casa. La scelta non era binaria, andare in vacanza o meno: sapere dove andare sarebbe stata un’informazione necessaria per decidere se accettare la proposta del genitore. E binaria non sarebbe nemmeno la scelta in un nuovo referendum, se davvero i politici britannici dovessero intraprendere l’avventura, forse più rischiosa di quella del 2016. Se il primo referendum è stato l’annichilimento della politica, non si capisce perché non dovrebbe esserlo anche il secondo.
Theresa May ha fatto un disastro nella gestione del post-referendum. Non solo nella trattativa con Bruxelles. Soprattutto, non ha dato al Paese un minimo di visione su cosa sarà, o sarebbe stato, il Regno Unito dopo l’uscita dall’Unione europea. Ha interpretato la sua leadership in un modo del tutto difensivo e non era quello che ci voleva per unire un’opinione pubblica divisa. La sua determinazione a sostenere la necessità di trovare un accordo con i 27 membri della Ue e il suo rifiuto di navigare verso un nuovo referendum vanno però a suo onore; e sono il segno che, dopo un sì o un no, la necessità di fare scelte politiche riprende con prepotenza il suo posto.
Non è facile stabilire quali materie è il caso di ammettere al vaglio del referendum e quali no. La Costituzione italiana prevede che i trattati internazionali non siano sottoposti alla consultazione popolare diretta. Il clima politico europeo, lo spirito dei tempi se vogliamo, è però formato anche da spinte che prevedono il ricorso continuo alla cosiddetta democrazia diretta.
Sono tensioni che esprimono anche un’insoddisfazione per come la democrazia ha funzionato negli anni passati e meritano risposte.
Di base, però, la vicenda della Brexit dimostra che le scorciatoie non esistono. Le scelte politiche tornano nelle mani dei governi e dei partiti anche dopo un referendum: solo più difficili, perché nel frattempo hanno radicalizzato le divisioni su logiche binarie mentre i problemi binari non sono.
La «madre di tutti i parlamenti» può forse ancora dare un contributo all’idea di democrazia se è vero che le crisi aguzzano la mente. Oggi, i politici britannici non sono in grado di trovare una soluzione al pasticcio in cui hanno condotto il Paese. Forse, dovrebbero davvero ridare la parola ai cittadini. Non attraverso un referendum: con una sana, tradizionale elezione politica nella quale i partiti si presentino con programmi chiari sulla Brexit e su quale genere di rapporto intendono avere con Bruxelles. Potrebbe vincere il «socialista» Jeremy Corbyn: in quel caso, pazienza per gli altri. Ma probabilmente è questa l’unica strada che al Regno Unito rimane per tornare a essere quel modello di democrazia che il mondo, Europa compresa, gli riconoscono. In fondo, «la peggiore forma di governo a parte tutte le altre» di cui parlava Churchill era la democrazia parlamentare. Non quella diretta.
Repubblica 17.1.19
La Camera dei Comuni
La paura di un governo Corbyn salva di un soffio la debole May
Non passa la mozione di sfiducia, la premier rilancia: subito dialogo con l’opposizione Si punta a un rinvio della scadenza con la Ue, ma le posizioni restano distanti
di Antonello Guerrera
Londra Si ricomincia da capo. L’ennesimo " giorno della marmotta". Theresa May è sopravvissuta ancora una volta. Dopo la disfatta di martedì sera quando è andata sotto di 230 voti sul suo accordo Brexit ( ormai defunto), ieri ha superato la mozione di sfiducia contro il suo governo presentata dal nemico Jeremy Corbyn, il leader del partito laburista che ha evocato zombie e frankenstein descrivendo il progetto di uscita dall’Ue della premier. 325 a 306: i brexiters ribelli del suo partito e i decisivi unionisti nordirlandesi del Dup che le fanno da stampella in Parlamento hanno deciso di non staccare la spina al governo May soltanto perché temono l’arrivo del "comunista" Corbyn a Downing Street. Un sollievo che durerà poco. La Brexit è ancora più nel caos e May sa che la sua carriera politica è in un vicolo quasi cieco.
Non a caso l’austera premier ha concesso due piccole, ma inedite aperture. La prima a una possibile estensione della scadenza del 29 marzo ( oltre la quale c’è lo strapiombo del " No Deal", nessun accordo), per la quale l’Unione Europea spinge sempre di più ma a determinate condizioni. La seconda a un dialogo con le opposizioni su una nuova bozza di accordo sulla Brexit. Invito consegnato persino a Corbyn: «Sono pronta a discuterne sin da stasera » , ha annunciato la premier conscia che, a causa di un emendamento " serpente" del collega conservatore Grieve, ora ha tempo solo fino a lunedì per presentare un piano B. Impossibile: avrà un pugno di mosche in mano. Corbyn ha risposto che si siederà al tavolo se May cestinerà apertamente l’ipotesi No Deal, cioè la leva che la premier ha utilizzato ogni giorno per il suo minaccioso aut- aut (" o il mio piano, o il precipizio"). I due leader partono dunque da posizioni totalmente opposte: Corbyn vuole l’unione doganale permanente, May la esecra. Insomma, molto probabilmente sarà l’ennesimo flop. E anche all’interno del suo stesso partito Tory un nuovo compromesso in così poco tempo sarà altamente improbabile.
Per questo May sta cedendo all’idea che l’unico modo per restare in sella è prolungare l’agonia e chiedere il rinvio della scadenza fatidica del 29 marzo, che lei sinora ha sempre considerato irrinunciabile. Ma ormai bisogna restare a galla. Il problema è che la scialuppa di salvataggio dell’Ue ha condizioni granitiche, come un nuovo piano credibile da parte di Londra e la centralità assoluta del famigerato backstop irlandese, che ha frantumato il partito conservatore di May. La sensazione è che ognuno stia provocando l’altro, costringendolo a cedere: ma potrebbe essere un gioco al massacro, per tutti. La situazione è così paradossale che quando martedì May è stata umiliata in Parlamento, subito dopo la sterlina è salita, Goldman Sachs parlava di scenari positivi e anche le borse poi sono andate bene. Il motivo è uno solo: alcuni investitori pensano che la Brexit potrebbe anche non accadere più, a questo punto. Sarebbe il finale perfetto di quello che somiglia sempre più a un teatro dell’assurdo.
Repubblica 17.1.19
Svolta nella Compagnia
Pedofilia, i gesuiti Usa rompono l’omertà
di Paolo Rodari
CITTÀ DEL VATICANO A poche settimane dall’inizio del summit convocato da Francesco con diversi leader ecclesiali mondiali sulla pedofilia e la sua prevenzione, sono i gesuiti statunitensi a dare un segnale preciso nella lotta agli abusi che per convinzione dello stesso Francesco risulta essere ancora troppo deficitaria. Tutte le province americane della Compagnia, infatti, hanno da poco pubblicato un elenco con i nomi dei loro confratelli sui quali pendono accuse acclarate di abusi.
Si tratta di una svolta non da poco: da una Chiesa omertosa che tendeva a insabbiare e coprire a un’istituzione che trova la forza della trasparenza su accuse che, seppure non siano ancora arrivate a sentenza, restano comprovate.
Ha scritto quarantott’ore fa padre John J. Cecero, capo della Provincia gesuitica del Nord-est degli Usa: «Da più di quindici anni abbiamo messo in campo buone pratiche, ma anche la migliore prassi non può cancellare il passato e l’elenco che rendo pubblico rivela veri e propri fallimenti, criminali e peccaminosi, accaduti nell’ambito della cura pastorale di minori a noi affidati».
La pubblicazione cade in un momento delicato per Roma.
Francesco aprirà a breve il summit sulla pedofilia proprio perché la situazione non è risolta.
La tolleranza zero inaugurata da Benedetto XVI non porta ovunque ai frutti sperati. E anche a Roma, come dimostra il caso delle spoglie del cardinale Bernard Law tumulate in Santa Maria Maggiore nonostante la protesta delle vittime della diocesi di Boston, non tutti gradiscono che questa trasparenza arrivi fino alle decisioni prese negli States dai gesuiti.
Il Papa ha nominato ieri alla guida delle sessioni plenarie del summit anti pedofilia padre Federico Lombardi, ex direttore della sala stampa vaticana, che ha dovuto gestire la comunicazione della Santa Sede quando i primi casi di insabbiamenti uscirono nel 2010. Lombardi è stimato anche nel mondo anglosassone, e la sua nomina è un segnale che dice di un incontro non formale, al quale anzitutto Francesco vuole dare una importanza strategica.
Corriere 17.1.19
Il dopo Camusso
Il congresso Cgil e la fragilità del sindacato
di Dario Di Vico
Tra una settimana sarà eletto a Bari il nuovo segretario della Cgil. Ci si domanda chi prevarrà tra Vincenzo Colla e Maurizio Landini. Ma in questo appuntamento in qualche modo si misura anche quanto si sia allargato il fossato che divide il sindacato dalla società.
Si avvicina il congresso della Cgil e in qualche maniera si misura quanto si sia allargato il fossato che divide il sindacato dalla società. Mai come questa volta, infatti, l’assise del maggiore sindacato italiano e di una delle più larghe organizzazioni di rappresentanza in Europa ha generato così scarso interesse. Ci si domanda chi prevarrà tra Vincenzo Colla e Maurizio Landini e quindi chi succederà a Susanna Camusso, ma la curiosità (politica) si ferma tutta lì. E invece se volessimo anche solo limitarci al delicato rapporto tra populismo e rappresentanza, l’evoluzione degli orientamenti della Cgil costituisce un test che interessa tutti, è una tessera — e non delle minori — di quel complicato puzzle che rimanda allo stato di salute della democrazia italiana. I regolamenti interni alla Cgil hanno probabilmente reso ancor più difficile la trasmissione di valore all’esterno perché resta difficile da spiegare come i due candidati si contrappongano con tutta evidenza sui programmi ma abbiano sottoscritto lo stesso documento congressuale (votato peraltro con percentuali bulgare e quindi ipocrite). Resta comunque sul tappeto la domanda su cosa rappresenti la Cgil (e per estensione tutto il sindacato) nella società italiana del 2019.
Nel recente passato ci sono stati momenti storici, forse altrettanto drammatici rispetto all’attuale, in cui il sindacato ha saputo parlare con chiarezza alla società, ha dato un contributo valido al di là della mera platea dei suoi iscritti. Prendiamo l’epoca di Luciano Lama e il compito che la Cgil accettò di caricare su di sé spendendo la credibilità accumulata nei luoghi di lavoro per stabilizzare il Paese alle prese con la difficile uscita dagli anni 70, per evitare la cesura tra garantiti e non garantiti e per individuare con la svolta dell’Eur la necessità di una politica comune contro l’inflazione. Ma anche se andiamo ai tempi di Bruno Trentin il sindacato fece un’operazione capace di parlare oltre i propri confini. Sostenne che l’emancipazione del lavoro dovesse partire dai luoghi della produzione e chiamò l’intera società a misurarsi con «le trasformazioni del capitalismo», a studiare le multinazionali. Legò prestazione dell’operaio, competenze e sviluppo. Fece i conti con la modernità del tempo senza demonizzarla ma cercando di costruire una nuova cultura del lavoro.
Non è questa certo la sede per discutere di storiografia sindacale, ma lo scarso interesse che si riscontra nei confronti del congresso Cgil rimanda a quest’interruzione di dialogo, a questo deficit di proposta. È come se in questi lunghi anni della Grande Crisi prima e poi dell’affermarsi del populismo, la forza e l’intelligenza sindacale fossero rimaste congelate, come se la Cgil avesse scelto l’identità — per dirla con il politologo americano Mark Lilla — contrapponendola all’efficacia. Tanta primogenitura, poche lenticchie.
Corriere 17.1.19
Il dopo Camusso
Il congresso Cgil e la fragilità del sindacato
di Dario Di Vico
Tra una settimana sarà eletto a Bari il nuovo segretario della Cgil. Ci si domanda chi prevarrà tra Vincenzo Colla e Maurizio Landini. Ma in questo appuntamento in qualche modo si misura anche quanto si sia allargato il fossato che divide il sindacato dalla società.
Si avvicina il congresso della Cgil e in qualche maniera si misura quanto si sia allargato il fossato che divide il sindacato dalla società. Mai come questa volta, infatti, l’assise del maggiore sindacato italiano e di una delle più larghe organizzazioni di rappresentanza in Europa ha generato così scarso interesse. Ci si domanda chi prevarrà tra Vincenzo Colla e Maurizio Landini e quindi chi succederà a Susanna Camusso, ma la curiosità (politica) si ferma tutta lì. E invece se volessimo anche solo limitarci al delicato rapporto tra populismo e rappresentanza, l’evoluzione degli orientamenti della Cgil costituisce un test che interessa tutti, è una tessera — e non delle minori — di quel complicato puzzle che rimanda allo stato di salute della democrazia italiana. I regolamenti interni alla Cgil hanno probabilmente reso ancor più difficile la trasmissione di valore all’esterno perché resta difficile da spiegare come i due candidati si contrappongano con tutta evidenza sui programmi ma abbiano sottoscritto lo stesso documento congressuale (votato peraltro con percentuali bulgare e quindi ipocrite). Resta comunque sul tappeto la domanda su cosa rappresenti la Cgil (e per estensione tutto il sindacato) nella società italiana del 2019.
Nel recente passato ci sono stati momenti storici, forse altrettanto drammatici rispetto all’attuale, in cui il sindacato ha saputo parlare con chiarezza alla società, ha dato un contributo valido al di là della mera platea dei suoi iscritti. Prendiamo l’epoca di Luciano Lama e il compito che la Cgil accettò di caricare su di sé spendendo la credibilità accumulata nei luoghi di lavoro per stabilizzare il Paese alle prese con la difficile uscita dagli anni 70, per evitare la cesura tra garantiti e non garantiti e per individuare con la svolta dell’Eur la necessità di una politica comune contro l’inflazione. Ma anche se andiamo ai tempi di Bruno Trentin il sindacato fece un’operazione capace di parlare oltre i propri confini. Sostenne che l’emancipazione del lavoro dovesse partire dai luoghi della produzione e chiamò l’intera società a misurarsi con «le trasformazioni del capitalismo», a studiare le multinazionali. Legò prestazione dell’operaio, competenze e sviluppo. Fece i conti con la modernità del tempo senza demonizzarla ma cercando di costruire una nuova cultura del lavoro.
Non è questa certo la sede per discutere di storiografia sindacale, ma lo scarso interesse che si riscontra nei confronti del congresso Cgil rimanda a quest’interruzione di dialogo, a questo deficit di proposta. È come se in questi lunghi anni della Grande Crisi prima e poi dell’affermarsi del populismo, la forza e l’intelligenza sindacale fossero rimaste congelate, come se la Cgil avesse scelto l’identità — per dirla con il politologo americano Mark Lilla — contrapponendola all’efficacia. Tanta primogenitura, poche lenticchie.
Corriere 17.1.19
Dialoghi Il giurista Sergio Bartole, professore emerito dell’Università di Trieste, ragiona sull’attualità della «Legge delle leggi»
Il tempo della Costituzione
I valori fondativi e le letture moderne: ecco perché la Carta cresce con noi
di Claudio Magris
Il Diritto — di cui la Costituzione è l’espressione più alta — è un valore freddo: norme, regole, codici, sanzioni che non sembrano destare passioni come i valori caldi — amore, amicizia, poesia, fede, generoso progetto politico. Ma i valori freddi — la legge, la democrazia, i meccanismi della lotta politica — sono i soli che permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi, perché senza la Legge l’individuo sarebbe in balia della violenza dei più forti, preda di ogni sopraffazione e inganno, solo con la sua debolezza.
Per la Costituzione, Legge delle leggi, ci si può infiammare, si può combattere. In un bellissimo saggio di anni fa, Maria Carolina Foi ha illustrato come nella Germania del primo Ottocento la battaglia fra chi voleva un codice unico — articolato sul modello napoleonico — e chi voleva un diritto consuetudinario, attento alle differenze storiche di tradizioni e usi locali stratificati nel costume, abbia influenzato fortemente la letteratura e la poesia del vivere — ad esempio il percorso di Heine e dei poeti romantici.
Costituzioni e dichiarazioni di diritti — degli Stati Uniti quando nascevano come Stato o della Rivoluzione francese — affermano principi e valori universali, danno all’individuo dignità di cittadino, sono valori caldi di appartenenza che investono la vita intera. Habermas, anni fa, ha parlato di «patriottismo della Costituzione», punto di riferimento e legame di tutti i cittadini. Nel recente, affascinante volume La Costituzione e la bellezza di Michele Ainis e Vittorio Sgarbi (La nave di Teseo) si commentano passo per passo i singoli articoli della Costituzione italiana, mostrando come dalla sua precisione giuridica e dalla vastità dei problemi e dei temi affrontati si crei bellezza, senso globale dell’esistenza. Politica, vita della Polis, comunità di valori e di destino. Nel Preludio alla Costituente — uscito nelle ultime settimane a cura di Alberto Aghemo, Giuseppe Amari, Baldo Palmieri, con la postfazione di Giuliano Amato e la prefazione di Valdo Spini (Castelvecchi editore) — la Costituzione è definita una sinfonia su cui si è basata e si basa la nostra vita democratica e civile.
La Costituzione italiana è stata però vista, soprattutto ma non soltanto da destra, con malcelata ostilità, come una retorica nata dalla Resistenza e gestita dai partiti della Resistenza. Baget Bozzo, anni fa, polemizzava non senza risentimento con l’intoccabilità della Costituzione considerata un Credo opposto ai tentativi di innovazione.
Ne parlo con Sergio Bartole, che ha insegnato Diritto costituzionale nelle Università di Pavia e Trieste, oggi Emerito in questo Ateneo, maestro di numerosi odierni docenti, già presidente dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, membro dei comitati scientifici delle più autorevoli riviste di diritto pubblico e autore di oltre un centinaio di contributi scientifici, fra i quali gli sono particolarmente cari Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana e La Costituzione è di tutti, ambedue pubblicati dall’editrice il Mulino.
Sergio Bartole — La tua contrapposizione fra valori freddi e valori caldi espone questa nostra conversazione al rischio di incomprensioni, sull’onda della tradizionale diffidenza per il diritto e per il preteso formalismo del suo approccio alla realtà. È bene ricordarsene quando parliamo della Costituzione, che sin dalla sua adozione è l’epifania di significati e valori che sono espressione di scelte ideali che connotano la storia vissuta del Paese. Diceva Piero Calamandrei che la nostra Carta dà testimonianza del contributo dato alla nostra civile convivenza da grandi figure del passato, da Beccaria a Cavour, da Mazzini e Garibaldi a Minghetti.
Ogni Costituzione ha alle sue spalle un passato e apre a un futuro; pretendere di conoscerne i contenuti avendo riguardo al solo tempo della originale decisione costituente e alle intenzioni dei suoi autori è metodologicamente errato, giacché nel frattempo essa si è caricata di significati nuovi e aggiuntivi in ragione delle successive interpretazioni del testo. Ciò è particolarmente vero per le disposizioni di una Costituzione come la nostra, linguisticamente belle come suggeriscono Sgarbi e Ainis, ma anfibologiche e suscettibili di molteplici letture alla stregua di tutti i principi del diritto. L’esperienza ci conduce oltre la contrapposizione fra diritto scritto e non scritto. Passo dopo passo, l’applicazione/interpretazione della Costituzione l’ha trasformata: ad esempio, può piacere o meno, ma oggi hanno copertura costituzionale, ad esempio, una diversa disciplina dei rapporti di famiglia, il divorzio, la tutela ambientale della salute, le garanzie della difesa nel processo.
Claudio Magris — I cittadini italiani si riconoscono nella Costituzione? Quali suoi valori privilegiano? Se non vi si riconoscono, credono che i valori della Costituzione e della Resistenza siano oggi superati? È la seconda parte che a loro avviso non funziona?
Sergio Bartole — Chiedersi se i cittadini della Repubblica si identificano nella vigente Costituzione non significa ragionare della sola accettazione delle scelte della Assemblea costituente. Chi mette in discussione la permanente attualità della Carta mette in discussione tutta la storia passata della Repubblica. Forse il retaggio della nostra storia politica non è esaltante come avremmo sperato settant’anni fa, ma è pur vero che in questi settant’anni la Costituzione è stata il termine di riferimento della nostra identità nazionale. Certo non mancano i detrattori e le diffidenze, legate al diffuso rifiuto dell’esperienza politica della seconda metà del cosiddetto secolo breve. Non è, però, un caso che almeno in due occasioni il popolo si sia contrapposto ai politici che volevano riformarla e abbia pertanto trascurato i rilievi che quei politici muovevano, sulla base dell’esperienza, alla funzionalità del nostro apparato di governo. Il che dimostra che se riforme di questo apparato debbono essere adottate, esse debbono andare nella direzione della scelta originale di una democrazia parlamentare rappresentativa. Forse possiamo ancora sperare che il popolo non si faccia tentare dalle odierne lusinghe della democrazia diretta.
Claudio Magris — Oggi l’Italia è un Paese sovrano che fa parte dell’Unione Europea. C’è l’Europa e ci sono le Costituzioni dei vari Paesi che ne fanno parte. Talora le Costituzioni di alcuni di questi sembrano in stridente contrasto con lo spirito dell’Unione Europea.
Le Costituzioni che hanno fondato la modernità liberale e democratica sottolineano l’eguaglianza — «tutti gli uomini creati uguali e dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti come quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità», dice la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino voluta dalla Rivoluzione francese proclama che «gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei loro diritti, che sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione». Valori fondamentali e irrinunciabili sui quali si basa l’Unione Europea, ma alcune Costituzioni di alcuni Paesi che ne fanno parte li contraddicono, così come li contraddicono un diffuso sentimento di chiusura e frequenti posizioni separatiste, acremente identitarie e perfino razziste…
Sergio Bartole — L’adesione italiana al processo di unificazione europea, che si può far iniziare dalla firma nel 1950 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ha avuto un grande impatto sulla Costituzione, dapprima sulla protezione delle persone che ha assunto ricorrentemente nuovi contenuti, e poi con l’avvento di un governo sovranazionale del mercato e della moneta unica nella prospettiva di una futura più ampia implementazione del Manifesto spinelliano di Ventotene. Il nostro ordinamento ha così conosciuto limitazioni della sovranità, ma ha nel contempo trovato nel patrimonio costituzionale comune ai Paesi d’Europa la conferma della nostra adesione ai destini dell’Occidente voluta nel 1948. Ne ho avuto personale conferma negli anni di appartenenza alla Commissione di Venezia del Consiglio di Europa, constatando quanto l’identificazione della nostra lezione costituzionale con i valori universali della tutela della persona, della democrazia e dello Stato di diritto possa rappresentare una guida al monitoraggio delle riforme costituzionali dei Paesi già membri del Patto di Varsavia, ivi incluse, purtroppo, le recenti devianti iniziative di Polonia e Ungheria.
Repubblica 17.1.19
I condannati per lotta armata
Il tutore dei latitanti a Parigi "Qui ognuno adottava il suo italien"
Il barista, l’insegnante, l’imprenditore: così i fuggiaschi hanno costruito la loro seconda vita
L’uomo che li accoglieva per conto della Francia: "Per noi c’era quasi un dovere di soccorso"
di Anais Ginori
PARIGI Non c’erano criteri prestabiliti. In teoria non dovevamo accettare le persone accusate di reati di sangue, ma poi si è visto che in molti casi abbiamo soprasseduto.
Veniva data priorità a chi era in Francia da più tempo, aveva una vita famigliare, un lavoro stabile».
L’uomo che parla è un alto funzionario della République, protagonista dell’ondata di regolarizzazioni degli italiens.
Dietro alla cosiddetta "Dottrina Mitterrand" c’è stato un lavoro burocratico meno spettacolare che ha trasformato i latitanti ricercati dall’Italia in cittadini come gli altri, in grado di beneficiare dell’assistenza sanitaria, dei sussidi pubblici, di versare contributi per la pensione e rifarsi una seconda vita alla luce del sole. I fuoriusciti da decine di formazioni terroristiche, non solo Brigate rosse e Prima Linea, sono stati diverse centinaia all’inizio degli anni Ottanta. Oreste Scalzone, icona degli "esuli" Oltralpe, sostiene che arrivarono a seicento.
Alla fine degli anni Novanta, l’entrata in vigore degli accordi di Schengen è stato uno spartiacque dal punto di vista amministrativo.
Molti "esuli" avevano permessi di soggiorno scaduti e rischiavano di essere espulsi come sans papiers al primo controllo di polizia.
Yannick, non è il suo vero nome, era allora al ministero dell’Interno guidato da Jean-Pierre Chevènement. Nella lunga lista di nomi da regolarizzare venivano allegati dossier con rapporti di polizia su amici, lavoro, abitudini.
Le autorità francesi sapevano tutto o quasi degli italiens. Non erano certo fantasmi. Alcuni hanno un bar alimentari a Parigi come Maurizio di Marzio, 58 anni, un figlio di dodici. Altri sono stati traduttori e insegnanti di italiano come Giovanni Alimonti. Roberta Cappelli, architetta, ha lavorato in una casa editrice di fumetti ed è stata per anni rappresentante dei genitori nella scuola del figlio.
Sergio Tornaghi, residente a Bordeaux, è stato arrestato due volte per le richieste di estradizione, l’ultima nel 1998, mentre accompagnava la figlia a scuola. Dei 94 italiani che dal 1982 sono stati fermati Oltralpe solo Paolo Persichetti, docente a contratto in sociologia politica a Paris VIII, è stato riconsegnato materialmente con un blitz la notte del 24 agosto 2002.
Yannick mostra il biglietto di ringraziamento che ha ricevuto nel 1998 da Marina Petrella.
«Monsieur, vorrei esprimere la mia gratitudine. Il permesso di soggiorno permetterà a me e alla mia famiglia di avere una vita più "normale"». Esattamente dieci anni dopo l’ex brigatista, ormai risposata e con una seconda figlia francese, viene fermata per un controllo sul libretto di circolazione. Il sistema elettronico fa tilt, esce la domanda di estradizione italiana. In carcere Petrella arriva a pesare 40 chili di fronte alla prospettiva di scontare l’ergastolo in patria. Alla fine, dopo una lunga battaglia giudiziaria e politica, Nicolas Sarkozy sospende la procedura per ragioni umanitarie. «La mia cliente fa una vita ritirata, insieme alla sua famiglia» racconta l’avvocato Irène Terrel, storico legale dei "rifugiati" Oltralpe.
«Riaprire oggi queste procedure sarebbe inaccettabile, vergognoso, non solo dal punto di vista giuridico ma anche umano».
Yannick non conosceva molti degli italiani ai quali ha ridato una seconda chance fornendo nuovi documenti e protezione dello Stato. Non c’era niente di personale ma si sentiva nel giusto.
«È difficile capire con lo sguardo di oggi» ripete diverse volte. Da giovane militante trotzkista, negli anni Settanta aveva fatto un viaggio a Verona da altri compagni dell’estrema sinistra.
Qualche mese dopo, alcuni autonomi italiani in fuga avevano bussato alla sua casa di Parigi.
«Nella nostra generazione c’era quasi un dovere di soccorso, ognuno adottava il suo italien ».
Senza questa rete di amicizie, solidarietà politiche e generazionali, non si può capire come centinaia di latitanti hanno potuto rifarsi una vita in Francia.
«La dottrina Mitterrand ha funzionato, non ci sono stati italiani che sono tornati nel terrorismo». Yannick ricorda nel 1997 quando era invitato a una riunione dietro nel decimo arrondissement. Giorgio Pietrostefani annunciava agli amici la volontà di tornare in Italia per affrontare l’ultimo processo per l’omicidio Calabresi. I "compagni" francesi decisero di mobilitarsi, qualcuno ebbe l’idea di far tradurre il libro di Carlo Ginzburg "Il giudice e lo storico", pubblicato dopo pochi mesi dall’editore di sinistra Verdier. Tre anni dopo Pietrostefani è tornato in Francia, un attimo prima che la Corte d’appello di Venezia lo condanni a 22 anni di carcere per essere stato, con Adriano Sofri, il mandante della morte del commissario Luigi Calabresi. Al giornalista Giuseppe D’Avanzo, che lo aveva incontrato qualche mese dopo, confessò: «La mia vita è ridicola. Ho 56 anni e gioco ancora a nascondino come un bambino». Da quel momento Pietrostefani è tornato nell’oscurità di una vita anonima, costruendo un’impresa edile a Rouen, in Normandia. Oggi è in pensione, i suoi amici sostengono sia malato. Yannick ci pensa un po’, mette a fuoco il ricordo.
«Credo che quella di Pietrostefani sia stata l’ultima regolarizzazione che abbiamo fatto».
Repubblica 17.1.19
La corsa alla segreteria
Il cuore spento del Pd
di Piero Ignazi
Il bizantino processo di elezione del segretario del Pd ha iniziato il suo percorso con la votazione nei circoli (nuova denominazione di quelle che erano le sezioni; e non si è mai capito la ragione di questo rinnovamento lessicale visto che nella sostanza non cambiava alcunché). La competizione non sta appassionando l’opinione pubblica. Del resto, i due maggiori contendenti, il segretario uscente Maurizio Martina, e il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti, non presentano proposte molte diverse né sono figure con tratti personali divergenti. Il terzo, Roberto Giachetti, fedele alla linea renziana, sembra destinato ad un ulteriore ruolo da cireneo, dopo quello già rivestito nella sfida per il Campidoglio tre anni fa. Lo scarso coinvolgimento registrato fin qui non dipende però soltanto dalle caratteristiche dei leader in lizza. C’è qualcosa di più profondo che impedisce il sollevarsi di entusiasmi collettivi: l’assenza di messaggi emotivi e mobilitanti. All’epoca della sua sortita, Renzi disponeva di due drive potenti: la sua personalità di giovane leader arrembante e fuori da ogni schema precedente, e la sua volontà di far piazza pulita del passato, con lo slogan brutale quanto efficace della rottamazione. Nessuna di queste due risorse, efficacissime nel momento della competizione interna, si è poi trasformata in un progetto politico coinvolgente. Persino le proposte elaborate nel corso delle prime Leopolde, ricche di spunti innovativi al netto di alcune ingenuità, sono state dimenticate o disattese. E negli anni di governo il Pd ha gestito l’esistente. Dove poi ha tentato modifiche di ampio respiro — la "buona scuola" e la riforma costituzionale — ha suscitato più contrarietà che consenso. Alla fine della legislatura il Pd non aveva nulla in mano per farsi identificare con qualcosa di positivo e, allo stesso tempo, mobilitante. O meglio, poteva vantare una buona gestione della finanza pubblica e l’introduzione di importanti diritti civili, ma nulla che fosse paragonabile alla potenza di fuoco del reddito di cittadinanza o della retorica xenofoba-nazionalista. I meriti dei governi Pd sono tutti ascrivibili ad una logica " razionale" e gestionale. Quello che hanno fatto sempre le élite: indicare, e al limite imporre, una via stretta ma virtuosa all’opinione pubblica. In questo schema si cala perfettamente il governo Monti. Il sostegno del Partito democratico al governo Monti, probabilmente dovuto e indispensabile, rifletteva lo spirito di servizio e la logica istituzionale da tempo metabolizzati nel Pd e nei suoi antecedenti storici. La differenza, però, è che un tempo la "responsabilità" dei sindacati così come della sinistra veniva affiancata dalla prospettiva di un futuro diverso, in linea con le idealità e le aspirazioni dei ceti sociali che si identificavano con quelle strutture. Le contingenze che obbligavano a scelte dolorose e impopolari — si pensi agli accordi sulla politica dei redditi firmati dai sindacati nel 1993 — potevano essere accettate perché la sinistra conservava obiettivi di grande respiro: più giustizia, più diritti, più benessere. Quella convinzione che vi fosse un futuro migliore, e che il partito lo perseguisse, si è persa. Persino la rivoluzione renziana, il più grande terremoto culturale che il Pd abbia sperimentato, non è riuscita a riaccendere i cuori. Il Partito democratico si muove in un mare di ragionevolezza e concretezza; il ché è certamente ammirevole. Ma insufficiente. Manca un’idea, o quanto meno una visione, che appassioni. Senza suscitare emozioni il Pd rimane in un angolo. Assomiglia sempre più ad una sorta di grande partito repubblicano lamalfiano: un partito che contribuì grandemente al progresso di questo paese ma grazie al lavoro (sporco?) di altri che coinvolgevano le masse con retoriche infiammanti. In politica, la razionalità, necessaria e doverosa, non basta. Tutti i richiami alle irragionevolezze della maggioranza giallo- verde non servono a nulla se non gli si contrappone qualcosa al livello delle loro visioni — al di là di ogni giudizio su quelle, ovviamente.
Piero Ignazi è professore di Politica comparata presso l’Università di Bologna Il suo ultimo libro è "I partiti in Italia dal 1945 al 2018" (il Mulino, 2018)
Repubblica 17.1.19
Di Maio e Salvini, perché resiste il fragile patto
di Stefano Folli
È un episodio minore, ma emblematico dello Stato dei rapporti nella maggioranza. Il ministro dell’Ambiente indica un nome per dirigere il parco naturale del Circeo (un generale dei Carabinieri) e la Commissione parlamentare lo boccia. Il duopolio 5S-Lega, sulla carta inespugnabile, si divide: i rappresentanti del Carroccio votano con Forza Italia e il candidato non passa.
È plausibile che l’incidente sarà ricomposto. Salvini, che probabilmente non era al corrente della vicenda, ha fatto sapere di volerla ricomporre. Il ministro Costa ha spiegato che in casi come questi la pronuncia delle commissioni non è vincolante. Il Circeo avrà un presidente e certo il premier Conte non cadrà su questo inciampo.
Tuttavia resta il fatto che quasi ogni giorno si determina un paradosso: Lega e Cinque Stelle tendono a divaricarsi sul merito delle questioni con una frequenza inquietante. Dal reddito di cittadinanza ai parchi nazionali, dalla Tav agli immigrati, non c’è argomento su cui i due partiti riescano a giovarsi di un’intesa spontanea tra loro. L’accordo è sempre il frutto di una trattativa, di una messa a punto, di un intervento riparatore.
Al tempo stesso il patto politico — per meglio dire, il patto di convenienza — regge. Sui singoli punti ogni giorno si rischia l’infortunio, ma nessuno dei due capi, né Salvini né tantomeno Di Maio, ha la minima intenzione di rovesciare il tavolo e rinunciare ai benefici del governo. Naturalmente la qualità dell’azione politica è modesta, ma i diretti interessati se ne curano poco.
Salvini cura i suoi cavalli di battaglia, cioè i suoi temi prediletti (immigrazione, "legge e ordine"), e per il resto aspetta. Aspetta di vedere il rapporto di forza con il M5S volgersi a suo vantaggio. Accadrà forse con il voto parziale nelle regioni (Abruzzo, Sardegna) e di sicuro alle europee di maggio. Se Salvini riesce a ribaltare in modo netto lo squilibrio con i 5S, si volta pagina.
Ciò che oggi appare intangibile — il rapporto con Di Maio — può andare in pezzi in un attimo, ma solo dopo che gli italiani avranno votato, sia pure in un’elezione che vale per il Parlamento europeo e lascia intatti a Roma i dati del 4 marzo. Quello che peraltro non si può sottovalutare, è l’impatto psicologico del risultato di maggio. Nel 2014 Renzi, allora trionfante, ci costruì la sua breve età dell’oro. Salvini si appresta a fare lo stesso, se il gioco di prestigio quotidiano lo assiste ancora per qualche mese. Infatti le cifre dell’economia sono pessime, come insiste a spiegare il ministro Tria parlando di "stagnazione", e le risorse da mettere in campo sono minime. Il nuovo rinvio per il reddito di cittadinanza e per la "quota 100" pensionistica rappresenta un fragile velo dietro il quale s’intravede la realtà: i soldi non ci sono oppure risultano insufficienti per alimentare le illusioni.
In questo quadro la discordia quotidiana, persino sul presidente del parco del Circeo, nasce dalla mancanza di un vero cemento politico nella coalizione. Quando Salvini e Di Maio si distraggono, l’alleanza subito scricchiola. La differenza tra i due è che i Cinque Stelle vogliono solo durare al governo il più a lungo possibile. Non dispongono di vere carte di ricambio e lo sanno. La Lega invece coltiva, e non da oggi, l’ambizione di ricostruire uno schieramento di destra-centro con a capo Salvini e modulato sulla Cdu bavarese, nella migliore delle ipotesi, o sul partito dell’ungherese Orban, nella peggiore. Il voto europeo potrebbe inaugurare la nuova fase del salvinismo, raccordato con la destra del Partito Popolare europeo.
Repubblica 17.1.19
Effetto Matera l’eterno ritorno della città magica
di Marino Niola
Da Pascoli a Carlo Levi. Da Visconti al "Cristo" secondo Pasolini Così la terra dei Sassi, che sabato diventa ufficialmente capitale europea della cultura 2019, ha nutrito il nostro immaginario e le nostre utopie sociali
Un imbuto di case e grotte simile all’inferno di Dante.
Così appare Matera allo sguardo spaesato e spaesante di Carlo Levi. Che di fatto consegna la città dei Sassi all’emblematica politica italiana. Topografia di una società abitata da poveri diavoli. Ma al tempo stesso riepilogo simbolico del mondo contadino, visto in tutta la sua lontananza dalle idee di sviluppo che dopo la guerra vanno per la maggiore nel Paese. È in questo clima che la nuova capitale europea della cultura 2019 - inaugurazione ufficiale sabato prossimo con l’arrivo di Mattarella e Conte diventa, nel male ma anche nel bene, un luogo topico dell’immaginario nazionale. La perfetta sintesi metaforica di un Mezzogiorno geografico e antropologico, economico e poetico, antico e primitivo, visionario e selvaggio. Così per esempio lo definisce Pier Paolo Pasolini, che fa dello scenario lunare dei Sassi la location ideale del suo Calvario all’italiana. Non a caso disdegna la Palestina reale, a suo avviso devastata dalla nuova edilizia, e ambienta Il Vangelo secondo Matteo in quella Terrasanta ancora immune dalla modernizzazione.
Del resto, una sorta di atavismo arcaico, più geologico che storico, impregna da sempre le convenzioni rappresentative della cavea materana. Non a caso Giovanni Pascoli, che dal 1882 al 1884 insegna latino e greco nel liceo locale, definisce balze, calanchi, spelonche e abituri "sinistramente belli" e descrive gli abitanti «nel loro selvatico e antiquato costume "girelloni per la piazza"». E oltre un secolo prima di lui il filosofo inglese George Berkeley parla di un’ellissi di case che precipitano l’una sull’altra, con la vertiginosa verticalità dei palchi di un teatro, con «i morti al di sopra dei vivi». Insomma, per effetto di un secolare incrocio di sguardi e controsguardi, visioni e suggestioni, la città lucana diventa il simbolo di un Sud dell’anima, stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione.
Memoria remota di un binario morto del progresso. Lontana dalle grandi direttrici dello sviluppo industriale. Residuo inerte di un passato arcaico nel suo abitare e nelle sue abitudini.
Una perturbante archeologia sociale che sopravvive negli usi e costumi di quella corte dei miracoli rimasta prigioniera dei Sassi fino alla metà del Novecento. Come in una tana, dove una storia andata in polvere ha lasciato il posto ad un’anteriorità degradata, fatta di sopravvivenze umane e di relitti culturali. Eppure, proprio in quei relitti culturali e persino in quell’habitat suggestivamente malsano, molti intellettuali del dopoguerra vedono un simbolo di rinascita.
E perfino una sorta di paradigma comunitario e anti-individualista partorito dalle viscere esauste, ma feconde, della condizione contadina. Un’autentica "filosofia della miseria", come la chiama il sociologo americano Frederick Friedman. Che
Sopra Pier Paolo Pasolini (a destra) a Matera con Enrique Irazoqui, protagonista del suo Il Vangelo secondo Matteo (1964) collabora con Adriano Olivetti nei lavori della Commissione per lo studio della città e dell’agro di Matera. Siamo all’inizio degli anni Cinquanta e la città diventa per personaggi come Manlio Rossi Doria, Tommaso Fiore, Ludovico Quaroni, Michele Valori e tanti altri, una sollecitazione a ripensare lo sviluppo guardando al Sud, non solo come territorio da modernizzare, ma come depositario di un capitale culturale da impiegare nell’interesse dell’Italia intera.
Un universo di valori soffocati dalla miseria, come dice Carlo Levi, ma pieno di una ricchezza che bisogna riconoscere e conservare. Non per nulla Olivetti sceglie di aprire il primo numero della sua celebre rivista Comunità con un editoriale di Ignazio Silone intitolato Il mondo che nasce. Qualche anno dopo, quando il dibattito sui Sassi è ancora una ferita aperta — vergogna nazionale o modello di omeostasi contadina — Luchino Visconti entra nella questione con Rocco e i suoi fratelli. Il film che racconta il difficile riscatto di una famiglia lucana, combinando il tema biblico di Giuseppe e dei suoi fratelli, rivisto alla luce di Thomas Mann, con il nome di Rocco Scotellaro, il sindaco-poeta simbolo delle lotte contadine nel materano.
Così, nel suo piccolo, Matera diventa una città-mondo in miniatura, un laboratorio sociale in perenne attività. Che esercita un’attrazione irresistibile su intellettuali come Pasolini, che ne fa la scena di un cortocircuito teologico tra Cristo e i poveri cristi. Ed Ernesto de Martino, padre dell’antropologia italiana, che trasforma queste terre nell’erma bifronte di un Meridione ancora immerso nel mondo magico, ma attraversato da fermenti di emancipazione laica. Una duplicità quasi postmoderna, che de Martino individua nella figura di Francesca Armento, madre di Rocco Scotellaro, e soprattutto paladina nei suoi racconti del superamento di antiche pratiche superstiziose come il lamento funebre.
Eppure, giunta a Portici – dove Rocco si era trasferito chiamato a lavorare alla facoltà di Agraria da Manlio Rossi Doria, che poi curerà il suo postumo Contadini del Sud — davanti al figlio sul letto di morte Francesca fa precipitare il suo dolore nel metro luttuoso della nenia tradizionale e strilla: «Figlio mio, che sonno lungo che ti fai, perché non mi rispondi?». In fondo, il riscatto di Matera è l’effetto di un secolare passaggio di testimone tra uomini e donne di grande ingegno e di buona volontà. E forse, con la sfida da capitale europea, per la prima volta è davvero a portata di mano.
La Stampa 17.1.19
Cinque anni senza Claudio Abbado
Tanta nostalgia per il Maestro antidivo e commemorazioni sobrie com’era lui
di Alberto Mattioli
Già cinque anni. Claudio Abbado morì il 20 gennaio 2014, nella sua casa di Bologna. L’abbiamo amato in tanti, molti di più di quanti si potrebbe immaginare per un personaggio così schivo, divo antidivo, quasi un retore dell’antiretorica. Lo testimoniò, nei giorni seguenti, la sorpresa per le lunghe file davanti alla chiesa dove l’avevano esposto, ministri e gente comune, i fedelissimi e i curiosi, i musicisti delle sue orchestre e gli «abbadiani itineranti» arrivati alla fine del viaggio. E la folla composta e commossa davanti alla Scala, tutta la piazza piena e silenziosa mentre dentro, nella sala vuota, Daniel Barenboim dirigeva la Marcia funebre dell’Eroica, l’ultimo omaggio che il teatro tributa ai direttori.
Vuoto incolmabile
Retorico sarebbe anche dire che Abbado ci manca. Però è vero. Anzi, è uno dei rari casi in cui il vuoto è davvero incolmabile, il rimpianto sempre vivo, la commozione ancora palpabile. Le commemorazioni saranno sobrie com’era lui. Aprono due mostre, una alla Filarmonica di Berlino e l’altra al Comunale di Ferrara, oggi Teatro Abbado, con le foto del Viaggio a Reims, uno dei suoi spettacoli mitici, l’opera di Rossini perduta e ritrovata e ripresa infinite volte a Pesaro, alla Scala, a Vienna, a Tokyo, a Ferrara, a Berlino, a casa di Dio, ogni volta scintillante e spiazzante, come se Rossini avesse appena finito di scriverla, e per noi. Il concerto ufficiale si terrà il 20 a Bologna, per raccogliere fondi per l’associazione Mozart14 che porta avanti i suoi progetti «sociali», la musicoterapia nei reparti pediatrici e il coro dei carcerati, dirige Ezio Bosso.
Ma in realtà non c’è bisogno dell’anniversario per provare nostalgia per Abbado. In questi cinque anni sono state trafitture improvvise, flash della memoria, madeleine sonore. Capita di accendere Rai 5 e di vederlo proprio a Ferrara mentre dirige il Finale primo del Così fan tutte, illuminandosi in un sorriso bellissimo mentre Daniela Mazzucato fa Despina travestita da Dottore: era l’unico, dei direttori di mia conoscenza, in grado di dare un attacco con un sorriso, come si vede nel video dell’ultima incredibile Eroica di Lucerna.
I ricordi ti aggrediscono a tradimento. Per esempio, l’ultima volta che lo si è visto, 14 aprile 2014 alla Salle Pleyel di Parigi con Martha Argerich. Nel Largo nel Primo concerto di Beethoven mi capitò d’incrociare lo sguardo con lo sconosciuto vicino di posto e di scoprire che non ero l’unico a piangere. All’ultimo accordo del Rondò, Martha si alzò di scatto e andò dritta ad abbracciare Claudio sbalordito sul podio, e la sala esplose. Le Monde, il giorno dopo: «Miracolosa, una di quelle serate di cui ci si ricorda a lungo», infatti.
Beethoven il più eseguito
Ma se Abbado oggi ci manca più che mai è per la sua curiosità. Per la musica nuova, certo, che ha sempre difeso. Ma anche per quella vecchia, perché ogni volta che Abbado dirigeva una partitura, nuova lo diventava. Helmut Failoni ha calcolato la hit parade dei più eseguiti: 712 volte Beethoven, 623 Mozart, 449 Mahler, 398 Brahms, 309 Schubert, 223 Verdi e così via. Bene: per Abbado, il settecentododicesimo Beethoven era come il primo. Per lui fare musica non era ribadire certezze, ma esplorare, ripensare, inventare, il gioco perenne della fantasia e del rigore. Non si sentiva il depositario della verità, ma di una verità, una delle tante possibili, contingente come il Tempo e la Storia, cangiante ogni volta che Abbado si chiedeva e ci insegnava cosa volessero dire Beethoven o Rossini o Mahler per noi, qui, oggi, adesso.
L’eccitazione che avvolgeva la musica quando dirigeva lui non aveva niente a che vedere con il mito stantio del maestro demiurgo. Era l’eccitazione che dà il salto senza rete, il brivido e lo sgomento della scoperta. La lezione di Abbado non è stata solo estetica, ma anche etica. Perché per lui, e quando la faceva lui anche per noi, la musica era libertà.
Repubblica 17.1.19
Sul "Venerdì" la rivincita di Leopardi
"L’infinito" ha 200 anni e il magazine in uscita domani gli dedica la copertina
Duecento anni fa un giovane poco più che ventenne metteva in versi le sensazioni che provava quando, dopo essere salito su una collina vicino a casa sua, si sdraiava dietro una siepe e cercava di immaginare cosa ci fosse dall’altra parte. Il giovane si chiamava Giacomo Leopardi, e quei suoi quindici endecasillabi sarebbero diventati una delle poesie più amate della letteratura italiana: L’infinito. Il Venerdì di Repubblica in edicola domani parte da questo anniversario per domandarsi: qual è lo stato di salute della poesia oggi in Italia? Chi la scrive, chi la legge? Simonetta Fiori lo ha chiesto a due critici letterari, Franco Cordelli e Alfonso Berardinelli, protagonisti di una stagione – quella degli anni Settanta – in cui i poeti si sentivano anche militanti e potevano attirare folle di migliaia di persone. Loro hanno risposto per le rime. Tornando a Leopardi, Franco Marcoaldi spiega perché valga ancora la pena di leggerlo, rileggerlo e, perché no?, impararlo a memoria e recitarlo ad alta voce.
Analizzando L’infinito riga per riga, lo scrittore-insegnante Eraldo Affinati azzarda poi un paragone: l’"immensità" che i ragazzi di oggi pensano di trovare dietro lo schermo di un telefono non somiglia un po’ a quella che per Giacomo si nascondeva dietro la siepe?